mercoledì 25 settembre 2024

ECCE DEUS — LA LUCE DIFFUSA DEL SIMBOLISMO

 (segue da qui)

II. — LA LUCE DIFFUSA DEL SIMBOLISMO 

102. L'interpretazione dei Vangeli, in particolare di Marco, come illustrazioni simboliche del progresso del culto di Gesù illumina molti punti oscuri nella comprensione comune di quelle scritture. Per esempio, ci viene detto (Marco 6:5, 6) che nella “sua patria” “non poté fare lì alcuna opera potente”, e che “si meravigliava della loro incredulità”. Marco sottintende ciò che Matteo esprime: che egli non fece molti miracoli lì “a causa della loro incredulità”. Ma sembra strano che la sua opera miracolosa sia condizionata dalla loro fede o dalla loro incredulità. Altrove troviamo il suo potere che trascende facilmente ogni limite del genere. Di sicuro il placarsi della tempesta non fu reso meno facile dalla loro “poca fede”. Il figlio della vedova, la figlia di Giairo e infine Lazzaro, da tempo rinchiuso nel sepolcro, non dovettero credere per essere rianimati. In effetti, l'idea che qualsiasi potere di guarigione fisica oppure di taumaturgia posseduto dal Gesù fosse dipendente dalla fede di qualcuno sembra del tutto indegna del Figlio di Dio e del Nuovo Testamento, e più adatta alla signora Mary Baker Eddy e alla Science of Health.

103. Nondimeno, non solo qui, ma quasi altrettanto esplicitamente in altri punti dei Vangeli (come in Marco 9:23), questa dipendenza del potere del Gesù dalla fede del soggetto è affermata e persino enfatizzata.  Per quanto ciò sia incomprensibile finché pensiamo al Gesù come a un personaggio storico, è non solo comprensibile, ma quasi auto-evidente, non appena pensiamo a lui come espressione della sua dottrina, del suo culto. Chiaramente il potere di guarigione spirituale di questo insegnante dipende essenzialmente, se non assolutamente, dalla fede dell'insegnato. 

104. Qui, allora, vediamo chiaramente rivendicata la posizione suprema occupata dalla fede nel sistema cristiano — non la fede in una persona, alla quale, nonostante tutta la forza dell'oceano di parole che si è riversato intorno ad essa per tanti secoli, non si può mai attribuire un'idea adeguata, ma la fede in una Dottrina, in un'Idea, nell'Idea dell'Unico Dio, nel Cuore dell'Universo, nel Principio unificatore del Cosmo, concepito e adorato non solo come Re, Creatore, Sovrano, ma anche come Guaritore, Guardiano, Salvatore del Mondo. È questa Idea etica, metafisica, religiosa, filosofica, teosofica che ci viene incontro in infinite espressioni diverse in tutta la letteratura cristiana più antica, sia apostolica che post-apostolica, sia nel Nuovo Testamento che nei Padri, sia nell'Apocalisse che negli Apocrifi, sia nell'Evangelista che nell'autore di Epistole o nell'Apologeta: un'idea tanto rilevante per la sua presenza in tutta questa letteratura quanto la personalità umana del Gesù è rilevante per la sua assenza. È questa idea che conquistò il mondo mediterraneo per il cristianesimo; che, essendo quasi scomparsa, riemerse in seguito in forma distorta e degenerata, ma trovò ancora la forza di sottomettere al maomettismo le coste asiatiche e africane. Nessuno si meravigli che un'idea possa fare tali meraviglie. Cos'altro, se non le idee, ha mai compiuto le vere grandi cose della Storia? Per questo non dobbiamo accendere alcuna disputa con gli adoratori di eroi. Le idee devono trasformarsi in personalità. 

105. Forse nessuno perdonerebbe lo scrittore anche solo per un piccolo schizzo, se passasse sotto silenzio l'Ultima Settimana di Gerusalemme. In questo caso studiosi severi come Brandt pensano di trovare gli elementi definitivi, gli elementi imprescindibili della tradizione più antica e più veritiera. In realtà, però, le condizioni non sono molto particolari; non ci sono particolari difficoltà di interpretazione. È una grande idea, l'idea della salvezza mediante la sofferenza, la sofferenza di un Dio, che ha ricevuto la drammatizzazione più elaborata e, a tratti, persino commovente. Questo era il centro stesso della splendida tela storica, e naturalmente è stata trattata con particolare cura e delicatezza di dettagli. Ma la regia delle idee non è stata affatto abbandonata; al contrario, è stata seguita ovunque con notevole coscienziosità. La vaga idea generale di un grande sacrificio espiatorio  sembra quasi antica quanto l'umanità stessa; certamente potrebbe essere stata suggerita da esperienze aborigene, anche se non dovessimo riferirla in ultima analisi al terribile fenomeno dell'eclissi di un Dio-Sole o di un Dio-Luna, che dovette aver colpito profondamente i devoti di ogni religione astrale. Ma per il dettaglio capitale della Crocifissione dovremmo guardare molto più vicino a casa. L'idea dell'impalamento del Giusto trova la sua espressione classica e immortale nel secondo libro della Repubblica, in un contesto di ineguagliabile sublimità morale. [1] Glaucone, mettendo Socrate alle strette, traccia il quadro più vivace possibile delle sofferenze del Giusto che è tenuto ingiusto: “Egli verrà flagellato, torturato, gettato in ceppi, avrà bruciati gli occhi e infine, dopo avere sofferto ogni sorta di mali, verrà crocifisso” (361 D). L'ultimo verbo (ἀνασχινδυλεύω) è reso comunemente con “impalato”, ed è raro; ma è l'esatto equivalente di ἀνασχολοπίζω, che è esattamente lo stesso di ἀνασταυρόω (come in Filone 1:237, 687), che appare in Ebrei 6:6 (dove è stato tradotto falsamente crocifiggono di nuovo), ed è la parola greca regolare per crocifiggere, abbreviata anche in σταυρόω, il termine neotestamentario. Il prefisso ἀνα significa in alto, e non di nuovo.

106. Quanto profondamente questa immagine del Giusto crocifisso si fosse impressa nella coscienza religiosa sembra notevolmente attestato dal fatto (su cui ha richiamato l'attenzione il signor Salomon Reinach) che nella descrizione delle sofferenze del Giusto (Israele) fatta dal Salmista, la Septuaginta ha reso l'ebraico ka'ari con ὤρυξαν: “mi hanno forato (A. V. trafitto) le mani e i piedi”. Ora, è vero che l'ebraico è molto incerto, ma in ogni caso non possiamo credere che lo scrittore intendesse forare o trafiggere, perché l'atto è attribuito a cani (pagani), che possono mordere o lacerare o fare altre cose crudeli, ma difficilmente trafiggerebbero o forerebbero mani e piedi. Se la Septuaginta intendesse o meno messianicamente il Salmo (e in particolare questo verso 17), come fanno i moderni, la sua traduzione sembra indicare che intrattenessero l'idea di una crocifissione come il culmine della passione del Giusto. Stando così le cose, questa forma di esecuzione del Gesù fu imposta a ogni coscienza religiosa nutrita dalla Septuaginta, come lo fu alla coscienza degli evangelisti. Da cui seguì con una certa necessità che Egli fosse giustiziato dai Romani, non lapidato come Stefano dal popolo, e da cui seguì, attraverso combinazioni naturali, la storia della sua consegna da parte degli ebrei ai Romani, che divenne in seguito il racconto di come Giuda lo consegnò agli ebrei e questi ai Romani. Ma la Passione e i Pilastri di Schmiedel devono essere riservati a un'altra discussione. Va solo osservato, qui come altrove (Prefazione), che la fonte evangelica apparentemente più antica Q, i “Detti”, come ora riconosciuti da Harnack, si fermano al ministero in Giudea, che pare quindi essere stato un elemento secondario che non fece parte del Vangelo più primitivo. 

107. In conclusione, va ribadito (perché troppo facile da dimenticare) che, nel mostrare che il Gesù del proto-cristianesimo era stato un Dio e non un uomo, non si sminuisce affatto il rôle o l'importanza della personalità nelle vicende umane, in particolare nella genesi del cristianesimo. I primi propagandisti furono uomini grandi, furono uomini grandissimi; concepirono idee nobili, belle e attraenti, che difesero con erudizione e logica originali, e raccomandarono con retorica accattivante, oratoria persuasiva e zelo ardente. “L'Apostolo” Paolo, Apollo, Pietro, Giovanni, Stefano e Filippo, per non parlare di Barnaba e del grande simbolista sconosciuto che chiamiamo Marco, e dell'Auctor ad Hebraeos, e del dotto ed eloquente Giacomo, con altri autori di Epistole ed Evangelisti, furono personalità impressionanti, potenti e imponenti; furono pescatori potenti, ma pescatori di uomini. Il primo, infatti, si staglia vago e vasto come la mole dell'“immoto, imponente Atlante o Tenerife; con la testa raggiungeva il cielo, e sul cimiero” recava fiammeggianti i principali motti che hanno costituito finora il principale contenuto dogmatico del cristianesimo, sia militante che trionfante. Non c'è da stupirsi che Wrede e altri abbiano ritenuto lui, piuttosto che il Gesù, il fondatore della nostra religione. Se per il Gesù egli intese solo l'uomo ingigantito dalla critica moderna, il paragone è inevitabile, e il giudizio di Wrede non sembra strano né poco illuminato. Ma il Dio Gesù è, ovviamente, del tutto incomparabile con l'Apostolo Paolo.

108. Un moderno sentimentale insisterà che le grandi idee non possono né salvare né convertire gli uomini, i cui cuori devono essere commossi dalla storia della Croce, dalla tenera gentilezza e dall'amorevolezza del Gesù mite e umile; e il missionario spera fiduciosamente di poter rendere questi aspetti così attraenti da attirare tutti i popoli, asiatici e africani, nella Chiesa, da cui usciranno per la conversione finale dell'europeo e dell'americano indifferente: il mongolo e l'ottentotto alla fine ci convertiranno alla nostra stessa religione!

109. Questi idealisti sembrano dimenticare o ignorare molte verità significative, come il fatto che la ragione è il fiore più alto dell'albero dell'umanità; che la Storia presenta frequenti esempi di sofferenza, di devozione e di abnegazione perfettamente in linea con la narrativa neotestamentaria; che la rappresentazione più antica del Gesù è singolarmente priva proprio di quei tratti che il sentimentalista vorrebbe sottolineare, e invece pone ogni accento sui tratti più duri della infinita potenza e conoscenza; che i tratti teneramente umani appartengono alle espressioni successive del Vangelo, e talvolta sono addirittura interpolazioni, come nel caso della famosa preghiera sulla Croce: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Luca 23:34: naturalmente, essa non è meno nobile e sublime per essere tardiva e “occidentale” piuttosto che antica e orientale). Sembrano anche trascurare i tocchi caratteristici che si trovano in Matteo 10:14, 15, 34, 35; 11:20-24; 18:17 e 23, passim, per non parlare di Luca 16:1-9; 18:1-6, specialmente in confronto a Matteo 6:7. 

110. Tali passi sono un rompicapo per l'espositore, che trova quasi impossibile trattarli con correttezza perfetta; ma non disorientano chi intuisce che non fu mai lo scopo di ogni evangelista rappresentare un personaggio, tanto meno un personaggio perfetto, ma descrivere simbolicamente vari aspetti del progresso del culto di Gesù, ed esprimere sotto forma di parabola vari dettagli della “nuova dottrina”. Gli autori dei Sinottici furono così poco preoccupati di ritrarre un uomo perfetto quanto lo furono i profeti o gli autori del Pentateuco nei loro ritratti di Jahvé.

111. Ma in questo caso c'è ancora un altro e ben più importante vuoto di memoria: infatti questi idealisti dimenticano che la predicazione primitiva fu rivolta a una coscienza altamente istruita ma politeistica. Ecco il nervo dell'intera questione. Il messaggio del cristianesimo più antico fu irresistibilmente forte e convincente, perché proclamò il monoteismo a una coscienza che aveva perso la fede nella propria religione e nel culto del politeismo, perché proclamò il “culto di Dio” (“riverenza”), il servizio recato ad un solo e unico Dio, sempre e ovunque lo stesso, a menti e cuori che erano già sul punto di ribellarsi all'idolatria onnipresente ma variopinta. Come “Vangelo eterno”, proclamato con possente voce angelica: “Adorate colui che ha fatto il cielo e la terra e il mare” (Apocalisse 14:6, 7), questo messaggio risuonò da una sponda all'altra più forte del tuono del Sinai e risvegliò alla vita un mondo in attesa che già si agitava e si struggeva nel sonno; nessun altro messaggio concepibile in quel tempo e in quel luogo avrebbe potuto suscitare una tale meraviglia; la predicazione del Gesù della critica moderna, di un saggio e amabile rabbino ebreo, come il Dio e il Salvatore di un mondo idolatra, sarebbe stata giustamente derisa in quanto puerile e ridicola. 

112. Infine, qualcuno trova difficile respirare in un'atmosfera così rarefatta di simbolismo, e difficile credere che i primi scrittori avessero scelto volontariamente di esprimersi in questa maniera? Si consideri che per questo o per quell'altro motivo il Mashal (simbolo, similitudine, parabola) era allora indiscutibilmente preferito al massimo grado, [2] che gran parte dei Vangeli consiste in siffatte riconosciute metafore e che è espressamente detto da Marco: “Senza parabole non parlava loro”. Quanto il pensiero dello scrittore fosse profondamente influenzato da questa abitudine al simbolismo si può dedurre dalla storia di Sara, di Agar e di Ismaele, che ci sembra una storia chiara, semplice e inequivocabile come nessun'altra in letteratura. Eppure l'apostolo dice: “tali cose sono dette per allegoria” (Galati 4:24). Se l’autore principale del Nuovo Testamento interpretò un dettaglio biografico così crudo alla stregua di un’elaborata allegoria, abbiamo torto noi se allarghiamo ulteriormente il cerchio dell’interpretazione simbolica nei Vangeli, dove, in ogni caso, va ammesso che esso è stato tracciato con un raggio così eccezionalmente ampio? 

NOTE

[1] Se qualcuno volesse valutare il progresso dell'etica nel corso di duemila anni, confronti la trattazione di Platone con quella del più grande dignitario della Chiesa anglicana, il Vescovo Butler, Sermone 11:21, in fine: “Si conceda che, sebbene la virtù o la rettitudine morale consista veramente nell'inclinazione e nell'aspirazione verso ciò che è giusto e buono, come tale, tuttavia quando ci sediamo in un'ora fredda non possiamo neppure giustificare a noi stessi questa o qualsiasi altra aspirazione, finché non siamo convinti che gioverà alla nostra felicità, o almeno non la contrasti”.  Considera anche la nota apologetica aggiunta da Gladstone.

[2] Si veda la nota al paragrafo 58, pag. 115.

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