giovedì 26 settembre 2024

ECCE DEUS — LA COSIDDETTA TESTIMONIANZA PAOLINA

 (segue da qui)


III. — LA COSIDDETTA TESTIMONIANZA PAOLINA 

Supplemento all'articolo 83.

113. Questo brano (1 Corinzi 11:23 e seguenti) occupa un posto così importante negli scritti dei critici, essi vi si appellano così fiduciosamente come “pilastro portante dell'alto tetto” della loro intera tesi del proto-cristianesimo come emanazione dell'uomo Gesù, che sarebbe bene esaminarlo minuziosamente una volta per tutte. Al fine di farlo, dobbiamo unire in un'unica visione i quattro racconti trovati nel nostro Nuovo Testamento, che di conseguenza sono qui presentati in colonne parallele, e i Sinottici nella forma più antica (siriaca), come tradotti da Burkitt (Ev. Da-M., I., 231, 157, 397): 

MARCO 14:22-25. E mentre essi mangiavano, Gesù prese del pane e, dopo averlo benedetto, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Prendete, mangiate; questo è il mio corpo”. Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro, e tutti ne bevvero. Quindi disse loro: “Questo è il mio sangue, il sangue del nuovo patto, che è sparso per molti. In verità vi dico che non berrò più del frutto della vigna fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio”.

MATTEO 26:26-29. Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane e rese grazie a Dio, lo ruppe e lo diede ai discepoli e disse: “Prendete, mangiate; questo è il mio corpo”. Poi prese il calice e rese grazie, e lo diede loro dicendo: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, il sangue del nuovo patto che è sparso per molti per il perdono dei peccati. Ed io vi dico, che da ora in poi io non berrò più di questo frutto della vigna, fino a quel giorno in cui io lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio”.

LUCA 22:17-20. Poi, preso il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Poi prese il calice, rese grazie e disse: “Prendete questo e dividetelo fra di voi, perché io vi dico che non berrò più del frutto della vigna, finché il regno di Dio sia venuto”. 

1 CORINZI 11:23-27. Poiché io ho ricevuto dal Signore ciò che vi ho anche trasmesso: che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: Prendete, mangiate; questo è il mio corpo che è spezzato per voi; fate questo in memoria di me. Parimenti, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo ogni volta che ne bevete in memoria di me. Poiché ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

114. Non è necessaria alcuna intelligenza critica per intuire che Marco e Matteo sono qui praticamente identici, con l'aggiunta, da parte di quest'ultimo, della frase importante “per il perdono dei peccati”. È evidente che anche gli altri due testi sono strettamente correlati, anche se non così strettamente. La differenza principale, essenziale, tra le due coppie di testi è che la seconda dichiara l'istituzione di questa Cena una istituzione permanente tra i discepoli (“fate questo in memoria di me”), mentre nulla del genere è accennato nella prima. Si tratta di un'aggiunta molto importante. Se Marco e Matteo avessero saputo di una simile istituzione, in questo punto critico, del sacramento più importante della Chiesa, è abbastanza incredibile che l'avrebbero passata sotto silenzio. Inoltre, è ammesso in generale che Luca sia posteriore a Marco. Forse, quindi, non si potrà negare che questo momento importante (dell'istituzione di questo sacramento permanente) sia un'aggiunta lucana al racconto più antico. 

115. In effetti, sembra molto difficile, leggendo Marco e Luca consecutivamente, non riconoscere che Marco è più primitivo, che in Luca il pensiero si è visibilmente sviluppato ed espanso mentre il testo ha subìto trasposizioni o mutilazioni. Passa ora all'epistola ai Corinzi. È possibile non intuire un'ulteriore crescita? La formula dell'istituzione è qui ripetuta, e la seconda volta con particolare enfasi: “Fate questo ogni volta che ne bevete in memoria di me”. [1] Inoltre l'autore sottolinea ulteriormente questa idea con la sua stessa dichiarazione: “Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”. Anche in questo caso, il pensiero è decisamente progredito. Sicuramente nessuno può meravigliarsi del graduale allargamento del contenuto dogmatico, nessuno che abbia un minimo di familiarità con la storia dei dogmi. Ma come si può comprendere il restringimento del contenuto da Corinzi a Luca e Matteo fino a Marco? Se Corinzi fornisce la forma e il senso originali dell'episodio, allora lo stesso dovette essere stato noto a Marco e a Matteo, in quanto rappresentanti delle tradizioni più antiche. Come spiegheremo, allora, il loro accorciamento, la loro omissione proprio del nocciolo stesso dell'intera questione? È evidente che nulla, se non la dimostrazione più convincente, potrebbe giustificarci a togliere a Marco-Matteo la loro precedenza naturale e a cedere la priorità a Luca-Corinzi. Possediamo noi una dimostrazione così convincente? Assolutamente nessuna.

116. Cosa? La prima epistola ai Corinzi non è forse molto precedente a Marco? Non è il caso di sollevare qui la generale questione paolina. Quella un'altra questione. Ai fini di questa argomentazione (e solo per questi fini) potremmo concedere pienamente che l'epistola nella sua interezza provenga da Paolo e sia anteriore a Luca o pure a Marco. Tale concessione non implicherebbe nemmeno per un momento che questo brano particolare sia anteriore a qualsiasi Sinottico, o che provenga dall'Apostolo Paolo. È un fatto noto infatti che le Scritture neotestamentarie originali sono state soggette in generale a revisioni, a rielaborazioni e a interpolazioni. Perché, allora, 1Corinzi dovrebbe essere esente? Perché dovrebbe costituire un'eccezione alla regola generale? Anche se non ci fossero tracce visibili di interpolazione, né motivi interni per sospettarla, nondimeno, poiché il brano presenta ovviamente una fase relativamente tardiva dell'evoluzione dogmatica, saremmo perfettamente giustificati a ritenerlo un'aggiunta tardiva al testo. Però ci sono ragioni interne molto convincenti per ritenere che i versetti siano un'interpolazione successiva in un testo più antico, ragioni del tutto indipendenti dalla relazione con i Sinottici. 

117. In primo luogo, questi versetti ricorrono in una regione di interpolazione. Tutto l'undicesimo capitolo, dal versetto 2, è un perenne rompicapo. La potente esegesi di Carl Holsten, dopo una lunga e dolorosa lotta, è costretta ad ammettere che i versetti 5b, 6, 10, 13, 14, 15 sono interpolazioni e devono essere “espunti”, se vogliamo comprendere l'Apostolo. Uno studio ancora più accurato sembra mostrare che sono necessarie espunzioni ancora più estese. Ma se questi cinque versetti devono essere rimossi, quale sicuro patrono  protegge i versetti 23-25?

118. Inoltre, è difficile non credere che al versetto 2 stia parlando una coscienza tardiva. Paolo difficilmente può aver raggiunto Corinto prima del 55 E.C.; vi rimase “molti giorni” per oltre un “anno e mezzo” (Atti 18:11, 18), il che farebbe risalire la sua partenza da Efeso quasi all'anno 57. Circa un anno dopo, nel 58, si suppone che abbia scritto 1 Corinzi. Eppure in questo versetto elogia “voi che conservate le tradizioni come ve le ho trasmesse”. Certamente questo linguaggio suona molto strano se rivolto a una comunità di appena due anni. E quali tradizioni? Possiamo davvero pensare all'“intuizione” personale di Paolo o a “una rivelazione a lui concessa” quanto a tali “tradizioni”? Considera anche i sorprendenti disordini in cui era caduta la comunità in così poco tempo. Considera il fatto che c'erano stati molti decessi (“molti dormono”, 11:30), il che di per sé sembra implicare necessariamente un notevole lasso di tempo, molto più di due anni. In effetti, l'intera atmosfera del capitolo sembra carica di suggestioni di un lungo intervallo, e non di soli dodici o venti mesi dalla fondazione della chiesa e dalla partenza dell'Apostolo. 

119. Ma c'è di più. È chiaramente non la Cena del Signore in quanto tale, ma la comune festa dell'Amore, l'Agape (molto simile al nostro picnic), a venir contemplata nei versetti 17-22, 33, 34. Si riunivano fazioni rivali; era “non  più un mangiare la cena del Signore”; alcuni avevano fame, altri erano ubriachi; ognuno prendeva il proprio pasto in anticipo. “Pertanto, Fratelli miei, riunendovi per mangiare, aspettatevi gli uni gli altri” (33). Chiaramente qui ad essere in mente non è la nostra Eucarestia sacramentale, ma piuttosto l'Agape. Le due cose erano strettamente correlate e spesso sono difficili da distinguere. Ma non è difficile intuire che c'è una notevole confusione di pensiero. Al versetto 23 la chiave del brano cambia: non si tratta più dell'Agape, ma dell'Eucarestia. 

120. Riteniamo, allora, con fiducia che tutti gli indizi indichino l'origine relativamente tardiva di questi famosi versetti 11:23-26 (come stanno ora). [2] Prima di poterli utilizzare come prova della storicità dell'evento in questione, testimoniato da Paolo, va data qualche certezza che non siano interpolati, che Paolo li avesse effettivamente scritti come li leggiamo ora. Questa certezza non è mai stata data, anzi, nessuno l'ha mai tentata di dare seriamente. Al contrario, tutti gli indizi sono contro la paternità paolina e contro l'antichità dell'intero brano in questione.

121. Possiamo andare anche oltre. È risaputo che il Sacramento Mitraico rassomigliasse molto a quello cristiano, tanto che Giustino ne addebita l'imitazione ai demoni malvagi, che sembrano capables de tout: “Ciò si verificava anche nei misteri di Mitra; ed infatti pane e coppa d’acqua sono posti nei riti dell'iniziazione assieme ad alcune perorazioni: o ne siete a conoscenza, o potete impararlo” (Apologia 1:66c). Tertulliano reca una testimonianza simile (De Praescriptione Haereticorum, capitolo 40). Nessuno forse concorderà con i dotti cristiani nella loro spiegazione della rassomiglianza. In entrambi i casi il Sacramento è l'espressione di un'idea religiosa ampiamente radicata. 

122. A ciò aggiungi che la venerabile e affidabile Didaché, pur trattando a lungo dell'Eucarestia (9, 10, 14:1), non sa nulla di nulla del racconto evangelico, nulla di nulla del corpo e del sangue, nulla di nulla delle idee evangeliche. Così importante è questa testimonianza che andrebbe citata in pieno:

Riguardo all'Eucarestia, così rendete grazie. Dapprima per il calice: Noi ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la santa vite di Davide tuo figlio [servo], che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo figlio: a te gloria negli eoni. Poi per il pane spezzato: [3] Ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la vita e la conoscenza [Gnosi] che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo figlio. A te gloria negli eoni. Nel modo in cui questo pane spezzato era sparso qua e là sopra i colli e raccolto divenne una sola cosa, così si raccolga la tua Chiesa nel tuo regno dai confini della terra; perché tua è la gloria e la potenza, per Gesù Cristo negli eoni. Nessuno però mangi né beva della vostra eucarestia se non i battezzati nel nome del Signore, perché anche riguardo a ciò il Signore ha detto: Non date ciò che è santo ai cani. Dopo che vi sarete saziati, così rendete grazie: Ti rendiamo grazie, Padre santo, per il tuo santo Spirito che hai fatto abitare nei nostri cuori, e per la Gnosi, la fede e l'immortalità che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo figlio. A te gloria negli eoni. Tu, Signore Onnipotente, hai creato ogni cosa a gloria del tuo nome; hai dato agli uomini cibo e bevanda a loro conforto, affinché ti rendano grazie; ma a noi hai donato un cibo e una bevanda spirituali e la vita eterna per mezzo del tuo figlio. Soprattutto ti rendiamo grazie perché sei potente: [a te] gloria negli eoni. Ricordati, Signore, della tua Chiesa, di preservarla da ogni male e di renderla perfetta nel tuo amore, ecc.

In presenza di questo antichissimo Insegnamento relativo all'Eucarestia, com'è possibile sostenere che la storia evangelica sia storica mentre sia primitiva la versione corinzia? Non si tratta forse di simbolismi palesemente elaborati e profondamente meditati? Non recano forse la testimonianza più ineccepibile direttamente contro la causa per la quale sono chiamati in causa? 

123. Quando ora passiamo a 1 Corinzi 10:14-22, sentiamo una nota più primitiva, in accordo con l'“Insegnamento” appena citato. “Perciò, miei cari, fuggite l'idolatria”. Sicuramente ciò suona protocristiano. “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane”. Nell'Insegnamento il pane spezzato è il simbolo dell'unità della confraternita, le cui particelle sono state sparse in grani diversi sui monti, ma ora sono tutte riunite in un unico pane. Con “l'Apostolo” l'idea di unità è la stessa; ma non è insita nel pane, bensì nella partecipazione di tutti allo stesso pane. Preferisci ciò che vuoi. E cos'è questo “corpo di Cristo”? L'idea pervade il Nuovo Testamento, ma i passi più direttamente interessati sono questi:

1 Corinzi 12:27: “Ma voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte”

Efesini 1:23: “E lo ha dato come capo di tutte le cose alla Chiesa, che è il suo corpo, la pienezza di colui che riempie il Tutto in tutti”

Efesini 4:12: “Al fine di edificare il corpo del Cristo” (la Chiesa). 

Efesini 5:30: “Poiché siamo membra del suo corpo”

Efesini 5:23: “Lui che è il Salvatore del corpo” (la Chiesa). 

Colossesi 1:18: “Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa”

Colossesi 2:17: “Che sono l'ombra di cose a venire; ma il corpo è di Cristo”

Colossesi 2:19: “Senza attenersi al Capo, da cui tutto il corpo......progredisce nella crescita voluta da Dio”.

124. Qui la concezione della Chiesa (o comunità) come corpo di Cristo è fin troppo chiara per essere discussa. La comunione del pane simboleggiò in un modo o nell'altro l'unità intrinseca delle molte membra. Come c'era un solo corpo, così c'era anche un solo spirito (“Un corpo solo e un solo spirito”, Efesini 4:4); e di questo il simbolo scelto e adatto era il vino, che inevitabilmente suggerì il sangue, proprio come è scritto: “Non mangerete carne con la sua vita [nefeš], cioè con il suo sangue” (Genesi 9:4; cfr. Levitico 17:11, 14; Deuteronomio 12:23). Che questa fosse l'idea originale non sembra esserci l'ombra di un dubbio. Quanto facilmente essa potesse dare origine ad una storia come quella che troviamo in Marco, e quanto naturalmente questa potesse svilupparsi nei racconti di Luca e di 1 Corinzi, e quindi nel tremendo dogma medievale, deve essere chiaro a ogni studioso di storia e di psicologia. D'altra parte, è del tutto incredibile che chiunque conosca o sia stato istruito sulla tremenda origine e sull'importanza dell'Ultima Cena, come data in 1 Corinzi 11:23-26, o anche in Marco, possa mai parlarne nei termini usati in 1 Corinzi 10:16, 17, e nell'“Insegnamento”. Ecco quindi che i fucili di questa vantata batteria non solo sono catturati, ma sono rivolti distruttivamente contro i critici che li allestirono. La semplice concezione primitiva e a lungo coltivata dell'Eucarestia non soltanto non prova la storicità dell'Ultima Cena, ma prova decisamente la non-storicità e il contenuto puramente simbolico dell'episodio in questione. Siccome, come ha appena dichiarato Heitmueller, il brano (1 Corinzi 11:22 e seguenti) è un'“interpretazione teologizzante” (della “concezione fondamentale” in 1 Corinzi 10:16, 17), allora sicuramente esso non è una narrativa storica.

125. Resta da considerare il famoso passo di 1 Corinzi 15:1-11. Non c'è bisogno di addentrarsi nelle difficoltà grammaticali e testuali che qui abbondano; possono bastare certe riflessioni generali. In primo luogo, sembra stranissimo che un capitolo del genere sia stato scritto a una comunità fondata recentissimamente dallo scrittore, dalla quale era stato assente da circa un anno o due e alla quale si aspettava di ritornare presto. Che tali controversie siano sorte quasi subito dopo la sua partenza, che siano state riferite a Paolo, che egli abbia cercato di risolverle a distanza con tali argomentazioni, sembra sempre più strano quanto più ci si riflette. Inoltre, il tono dei versetti iniziali non è affatto quello che ci saremmo aspettati in queste circostanze: “Vi rendo noto, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l'ho annunciato. Altrimenti, avreste creduto invano”. Questa estrema formalità è sicuramente innaturale. Paolo avrebbe forse “reso loro” loro per lettera il vangelo che aveva predicato loro per quasi due anni? Avrebbe riservato una questione così importante al penultimo punto della sua lettera? Avrebbe omesso di accennarvi all'inizio e nel cuore della sua epistola? Avrebbe dato la precedenza all'acconciatura delle donne corinzie? Avrebbe descritto la sua predicazione del Vangelo come la trasmissione di una tradizione che aveva ricevuto lui stesso: lui che predicò dalla luce interiore della rivelazione e non conferì con carne e sangue? “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto”, ecc. Invano cerchiamo negli Atti una simile predicazione di un apostolo, e altrettanto invano cerchiamo un atteggiamento di Paolo che tramandi una tradizione ricevuta da altri.  Sembra difficile non notare che lo scrittore del brano si colloca piuttosto in basso nel solco della tradizione, che si rivolge a una comunità cristiana consolidata e che non ha la pretesa di essere un'autorità indiscussa.

126. Siffatti scrupoli sono ora attenuati da un'analisi più approfondita di questo “Vangelo”, che consiste essenzialmente in un raggruppamento cronologico di apparizioni del Cristo risorto. Nota bene che per tredici volte si menziona Cristo o il Cristo, solo al versetto 31 si parla di “Cristo Gesù nostro Signore” e al versetto 57 di “nostro Signore Gesù Cristo”, mai di Gesù. Ciò sembra lontano dal “Gesù e Anastasis” che egli aveva appena predicato sull'Areopago e dallo spirito della proclamazione negli Atti. Ciò sembra rappresentare un punto di vista giudaico lontano da quello trovato nei Vangeli, e in apparenza relativamente più tardivo. Osserva anche l'ordine accurato delle apparizioni. Possiamo attribuire qualcosa di simile a Paolo? Non rappresenta forse una fase di storicizzazione (o di tradizione, se vuoi) nettamente successiva ai Sinottici, che ci ricorda il Quarto Vangelo (21:14) e l'appendice marciana (16:9, 12, 14)? Nota, inoltre, che la frase L'Ektroma, usata come se non avesse bisogno di spiegazioni, implica una coscienza gnostica ben sviluppata, e su questo punto vedi infra.

127. Esaminando l'intera massa di indizi, non ne troviamo uno che indichi la paternità paolina o una paternità antica. Ne troviamo molti che allontanano da entrambe le ipotesi. Ma anche supponendo che tutti questi indizi, in base a cui avremmo a che fare con un'appendice alla prima epistola ai Corinzi, fossero fuorvianti e che il paragrafo provenisse davvero dall'Apostolo, che ne sarebbe? Stabilirebbe con certezza che il racconto evangelico sia Storia reale?  Mostrerebbe pure chiaramente che l'autore del brano stesse scrivendo Storia reale? Assolutamente no! Si noti infatti che la Morte fu “secondo le Scritture”, che anche la Resurrezione fu “secondo le Scritture”. Non c'è bisogno di insegnare al lettore che questa frase, equivalente a “perché si adempisse”, caratterizza la visione di Giustino della Storia, espressa anche in un'altra appendice, Romani 15:3, 4, secondo cui l'Antico Testamento era uno specchio perfetto della storia cristiana, guardando il quale si poteva scoprire quale fosse questa storia vedendo ciò che doveva essere, con poco studio delle testimonianze contemporanee. Se si scoprisse che la morte e la resurrezione sono “secondo le Scritture”, un tale teorico le affermerebbe senza esitazione, non proprio come questioni di Storia reale, ma almeno come articoli di fede, come vere in qualche senso sovra-storico. Nei Vangeli ci sono decine di siffatte storicizzazioni, come riconoscono i critici quasi all'unanimità. Al fine di realizzare questo postulato adempimento delle Scritture, Matteo non si esime dal far sedere Gesù all'entrata in Gerusalemme sull'asina e sul suo puledro (21:5, 7). Questa impossibilità è dispiaciuta ai Padri e ai critici molto più di quanto non dispiacque a Matteo, il quale era intento unicamente alla sua idea e lasciava che i fatti badassero a sé stessi. [4]

Quando queste cose sono dette accadute “secondo le Scritture”, il lettore è chiaramente informato che sono accadute nel senso di Giustino sopra citato: l'affermazione è un certificato della loro necessità dogmatica, non della loro realtà storica. 

128. Ma che dire delle apparizioni, in numero di sei, su cui si pone l'accento? Qualcuno competente a giudicare in queste materie vi trova davvero una testimonianza dell'umanità del Gesù? Sembra difficile da credere. Cosa si intende per “apparve” (ὤφθη)? Nel caso di Paolo abbiamo qualche prova. Tre volte negli Atti è descritta questa apparizione (9:3-7; 22:6-9; 26:12-15). A mezzogiorno una luce cade su di lui, non si accenna che vedesse qualcuno; sente una voce non intesa dai suoi compagni (22:9) che lo chiama a predicare ai gentili, a convertirli “dal potere di Satana a Dio” (cioè dal politeismo al monoteismo). A prima vista, l'intero racconto sembra indicare un'esperienza puramente psichica: la luce è la luce della verità, più luminosa del sole a mezzogiorno; la voce è quella della convinzione e della risoluzione, udita solo nel profondo dell'anima individuale. Questa visione della questione è pienamente confermata da vari passi delle epistole paoline, come in Galati 1:16, 17: “Ma quando piacque a Dio......di rivelare suo Figlio in me, perché io lo annunciassi fra i Gentili......”. Se traduciamo il greco con “tramite me” invece di “in me”, il caso rimane altrettanto forte. La rivelazione è ancora un processo psichico realizzato con mezzi psichici. Simile è 2 Corinzi 4:6: “E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza (Gnosi) della gloria di Dio che rifulge nel volto di Cristo”. Senza soffermarci sulla fraseologia pesantemente impregnata, vediamo tanto chiaramente che la luce era spirituale: anzi, un'illuminazione intellettuale. 

129. Se questa allora fu l'“apparizione” per Paolo, che diritto abbiamo di supporre che per Pietro e per gli altri fosse stata un'altra cosa? Nessuno. Dobbiamo supporre che le apparizioni fossero simili, fino a quando non si mostri una ragione per ritenerle diverse. Non c'è neppure alcuna ragione da ricercare al di fuori dei Vangeli, ed è proprio perché nei Vangeli non si trova alcuna ragione per supporre qualcosa di diverso dalla rivelazione psichica che si è fatto appello a Corinzi. Ed ecco che ora troviamo questo appello decisamente respinto, e il caso rimandato ai Vangeli! Il fatto è che la cosiddetta testimonianza paolina conferma fortemente l'interpretazione simbolica del Vangelo. L'apparizione o la rivelazione del Gesù o di Cristo o del Figlio di Dio è ovunque la stessa, e significa innanzitutto l'illuminazione intellettuale che accompagna la conversione al Culto di Gesù, al Monoteismo, all'adorazione del Dio Unico “nel volto di Cristo", e la voce è quella dell'angelo della retta ragione, che proclama il Vangelo eterno: “Temete Dio e dategli gloria” (Apocalisse 14:7). Come cantò nobilmente Epicarmo: “La mente vede e la mente ode: il resto, sordo e cieco”. Affermiamo, dunque, con sicurezza, che la cosiddetta testimonianza paolina si scontra in ogni punto contro il dogma attuale dell'umanità del Gesù. 

Con ciò sono state considerare tutte le importanti “prove” paoline. Diverse altre, per lo più frasi isolate, sono in effetti talvolta citate, sebbene non degne di menzione. Un'attenta discussione di tutte, su richiesta di un corrispondente in Europa, mostra chiaramente che non hanno alcun significato né singolarmente né collettivamente; ricorrere ad esse equivale ad abbandonare la battaglia. Quando le forze in campo sono sbaragliate, la marina affondata, i forti smantellati, la capitale capitolata, [5] pochi combattenti disperati possono sfuggire sui monti, e lì, in buie caverne e ritirate inaccessibili, ingaggiare una noiosa guerriglia. Questo coraggio patriottico di non sottomettersi o cedere mai può essere magnifico e ammirevole: ma è guerra?

NOTE

[1] Questo modo di dire, insieme a vari altri, come “mensa del Signore”, “comunicanti dell'altare”, “comunicanti con demoni”, non era originale dell'“Apostolo”, ma era noto alla terminologia delle comunità cultuali molto prima della nostra era. Vedi Heitmueller, Taufe und Ahendmahl im Urchristentum, pag. 71 (1911).

[2] Nel suo Taufe und Abendmahl im Urchristentum (64-69) Heitmueller trova in Paolo almeno “tre gruppi di concezioni” relativi all'Eucarestia: (a) la comunione con Cristo, 1 Corinzi 10:16; (b) la comunione  reciproca, 1 Corinzi 10:17; (c) la commemorazione della morte di Cristo, 1 Corinzi 11:23 e seguenti. Di queste egli riconosce in (a) e (b) la prima, “la visione fondamentale”; riconosce in (c) una “interpretazione più teologizzante”, in cui “la riflessione inizia dolcemente” riguardo all'“atto del culto”. Ma tutto questo sarebbe del tutto impossibile se 1 Corinzi 11:23 e seguenti fosse il racconto e la concezione più antica del “simbolo e del sacramento”. L'opinione di Heitmueller, per quanto espressa con cautela, non può che confermare fortemente la nostra tesi attuale.

[3] κλάσματος.

[4] Zahn e Blass affrontano audacemente la difficoltà; il primo legge “lui” (αὐτόν) al posto del primo “loro” (αὐτῶν), e lo applica al puledro, mentre riferisce il secondo “loro” (αὐτῶν) ai mantelli; il secondo fa altrettanto, tranne per il fatto che elimina più eroicamente il secondo “loro” (αὐτῶν): entrambi non hanno colto il pensiero di Matteo, che si impegnò semplicemente ad adempiere letteralmente la profezia: “Viene il Re......cavalca un asino e un puledro figlio d'asina” e non osservò che la e (ד) in ebraico significa “sì” (“cavalca un asino, sì, un puledro figlio d'asina”). Zaccaria 9:9. 

[5] Come apparentemente da Heitmueller nel brano appena citato.

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