domenica 5 novembre 2023

Il «miraggio» di Damasco ed il «messaggio» di Paolo

 (segue da qui)

§ 120) Il «miraggio» di Damasco ed il «messaggio» di Paolo.Anche Paolo — israelita, ma di greca cultura — risentiva e doveva risentire dello «stato d'ansietà», che era ormai comune a tutto il mondo romano; ed anche Paolo riteneva che il mondo, quale organizzato all'epoca, non potesse perdurare. Ma come avrebbe potuto quel mondo cessare di esistere, per dar luogo ad un mondo nuovo, di libertà, di pace e d'amore, se Dio stesso non fosse venuto in aiuto dell'umanità, inviando sulla terra un proprio ispirato, annunziatore della «buona novella»? Come insomma avrebbe potuto il mondo salvarsi dallo stato di miseria incipiente, senza l'aiuto di un Dio?

Queste dovevano essere le idee che in Tarso di Cilicia si agitavano nell'animo di Paolo (allora Saulo). Giacché Paolo era un mistico, della stessa sostanza seminale dei profeti di Israele, e, come tale, poteva raffigurarsi la salvezza del mondo soltanto in un aiuto soprannaturale.

Nel 30-31 E.V., Paolo volle fare il viaggio a Gerusalemme, verosimilmente in occasione del tradizionale pellegrinaggio pasquale. E là ebbe modo di conoscere i messianici di Giuda Galileo, anch'essi aspettanti nuovi eventi. La loro dottrina però, eminentemente terrena, non poteva non contrariarlo. D'altra parte il moto messianico, che da quelli veniva predicato contro Roma nel nome di Giuda Galileo, a lui, che era per la non-violenza, appariva soltanto una ribellione, che a nulla avrebbe approdato. Non poteva quindi egli non condannarlo, e non farsene persecutore.

L'entusiasmo però e la fede cieca — dimostrata dai Galilei perseguitati — nella seconda venuta del Maestro, e enlla messianità del medesimo, avevano grandemente impressionato Paolo, il quale, incamminandosi per ritornare nella sua Tarso, dopo la vacanza di Gerusalemme, non poteva non meditare sul fanatismo di quegli uomini, i quali morivano con entusiasmo, preannunziando la prossima ricomparsa del loro Messia. O che forse Giuda Galileo era l'ispirato di Dio, che lo stesso Paolo invocava da tempo nel proprio spirito, e che sarebbe ricomparso per attuare l'atteo ordine nuovo?

Mentre Paolo meditava su tali casi, marciando, sulla via del ritorno, sotto la caldura del sole d'Oriente, nel deserto siro-arabico delle vicinanze di Damasco, un malore improvviso, verosimilmente sotto forma di «miraggio», deve averlo colpito. E proprio in quell'occasione egli vide — con la mente ormai sovreccitata — il Messia Galileo, del quale in Giudea aveva perseguitato i discepoli.

Per vero, il fenomeno del «miraggio» è molto conosciuto, ed i fisici ebbero a spiegarlo anche con formule matematiche. Tuttavia noi crediamo che il fenomeno, oltre ad essere di origine metereologica, sia anche d'origine psicologica. Giacché il deserto abbatte il viandante, il quale ad un dato momento, oppresso dalla caldura, perde la coscienza «attuale», dopo di che si affacciano alla sua coscienza, come fossero attuali, le immagini che si trovano nel suo subconscio. il beduino che traversa il deserto, ed ha smarrito il retto sentiero, cade sfinito, ed improvvisamente vede davanti a sè quello che fino ad allora aveva altamente invocato: un'oasi fresca cioè, ed una fontana scrosciante, tali forme avendo assunto le immagini lontane, captate — secondo i fisici — dai raggi visivi deviati. Paolo però, traversando il deserto siro-arabico, non pensava a se stesso, e quindi non pensava all'acqua ed alla frescura; ma pensava alla famiglia umana, ai tormenti della vita, al Messia Galileo, ed alla necessità di un ordine nuovo, che soltanto un inviato di Dio avrebbe potuto attuare sulla terra. Ed appunto mentre tali pensieri si affollavano alla sua mente, egli cadde. Cosicché il miraggio assunse in lui le forme che si agitavano nel suo spirito.

Era infatti il Messia Galileo che gli si mostrava: quel Messia che egli aveva disconosciuto, e del quale aveva perseguitato i seguaci. Adesso quel medesimo si drizzava davanti a lui, per comunicare a lui stesso la buona novella. «Sono io — gli avrà detto l'ombra — sono io l'ispirato, che tu cerchi e ad un tempo disconosci. Va dunque: io ti nomino mio apostolo. Annunzia al mondo la buona novella: il Regno di Dio sta per arrivare».

Proprio in questo modo si sarà determinata improvvisa la conversione di Paolo. E poiché gli uomini sono sempre disposti a dare ai fatti una interpretazione conforme alle proprie aspirazioni, era naturale che Paolo, seguace di un misticismo alla cui attuazione mancava solo il prestigio di un «Duce», credesse subito alla messianità del «Galileo». Senonché, per attuare le idee trascendenti di salvazione, di cui fino ad allora Paolo si era nutrito, non solo necessitava un Salvatore, che fosse insieme inviato di Dio, quale era ritenuto dagli Zeloti Giuda Galileo; ma necessitava soprattutto una figura extra-umana: una figura totalmente divina cioè. Ed appunto per questo, cominciando — dopo un periodo preparatorio — a divulgare il proprio vangelo, Paolo volle escludere la materialità del Cristo, predicando ai suoi ascoltatori che se anche essi avevano conosciuto il Gesù secondo la carne, non dovevano più conoscerlo secondo la carne, ma soltanto secondo lo spirito (II Corinti, V, 16). In questo modo Paolo poteva propagare il proprio «messaggio», dichiarandolo rivelato a lui dal Messia Galileo.

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