sabato 4 novembre 2023

Lo «stato di accettazione» in Roma diventa, a poco a poco, «stato di nevrosi»

 (segue da qui)

§ 119) Lo «stato di accettazione» in Roma diventa, a poco a poco, «stato di nevrosi». — Abbiamo altrove accennato (§ 91) che l'epoca dei Cesari, successivamente alla morte di Augusto, era stata un'epoca di avvilimento per il vasto mondo romano. In realtà Augusto, assumendo al dittatura ed annullando le libertà politiche, aveva creato uno stato di disagio in tutto l'impero. Ed il popolo — che rappresentava quasi tutto il mondo conosciuto — viveva in attesa del momento, nel quale lo «stato di timore», inaugurato dal dittatore, fosse cessato, insieme col dittatore stesso. L'avvento di Tiberio invece, dopo la morte di Augusto, fu per tutti una disillusione ed una esasperazione. E proprio da tale disillusione, proprio da tale esasperazione, ebbero origine le molte congiure, in parte a noi note; ma nella parte maggiore rimasteci sconosciute (cfr. G. Boisser, L'opposizione sotto i Cesari, trad. it., Milano 1931). Ma poiché neppure le congiure riuscivano ad eliminare il dispotismo, perché ormai i despota, oltre ad aver fatto dell'esercito una milizia personale, avevano creato addirittura una milizia speciale a tutela del proprio corpo (corporis custodes), non era possibile che al primo periodo di agitazioni e malcontento non subentrasse un periodo si sfiducia e di generale avvilimento. 

E tanto più cresceva tale sfiducia, tanto più aumentava tale avvilimento, quanto più i lacci della servitù si stringevano, nello «stato di sospetto» che veniva aumentando, e che doveva portare, a poco a poco, sotto Diocleziano, alla istituzione della servitù della gleba, ai prezzi d'imperio delle derrate, ed alla conseguente scomparsa delle derrate stesse. Giacché soltanto lo «stato di libertà» crea e mantiene la ricchezza; lo «stato di servitù» non può che distruggere la ricchezza esistente, disseminando dovunque la miseria. E sarà proprio la miseria che produrrà poi i grandi sconvolgimenti dello spirito, diventando «nevrosi», e pertanto «miseria morale».

Appunto in tale stato di incipiente miseria morale, emersero — dalle scuole di mistica, che prolificavano nell'Oriente greco — innumeri dottrine di salvazione, ciascuna delle quali affermava di possedere il toccasana dei mali sociali. Giacché tutte tali dottrine erano basate sul principio messianico: di un «capo» cioè, che avrebbe dovuto rivelarsi tra gli uomini, per distruggere lo stato di cose esistente, dando luogo all'ordine nuovo da tutti invocato. E se in prevalenza tale «ordine nuovo» veniva additato in un capovolgimento dei valori, e precisamente nella elevazione al comando delle classi più umili (proletariato), come nella dottrina messianica degli Zeloti d'Israele, molte erano anche le dottrine, che additavano gli scopi ultimi dell'umanità in una palingenesi, dante vita vagamente ad un «regno dello spirito», che fosse «partecipazione al divino». Sull'argomento infatti abbiamo citato il passo di Plutarco: «Non esservi modo per le anime degli uomini, immerse nei corpi e nelle passioni, di partecipare al divino»

Da queste due forme di messianismo, facile sarà dedurre che tanto le classi povere, quanto le classi abbienti, erano tutte, più o meno, in attesa di un «messaggio», che annunziasse nuovi eventi. Giacché mentre le classi povere, stanche di servire, aspiravano ad un capovolgimento dello stato esistente: le classi più elevate, avvilite dalla condizione servile ad essi imposta dal dittatore, e vedendo, nelle difficoltà sempre maggiori del regime, la fine di ogni possibilità di perfezionamento, solo in un ricostituendo «Regno delle anime» (cfr. col «regno delle idee» di Platone) vedevano la possibilità di riconquistare il perfezionamento stesso.

Ed invero, quando l'uomo è libero, se gli eventi gli siano contrari, ed egli soffra per le condizioni presenti, cerca altre vie, intraprende altre attività, si infiltra in altri ambienti, finché troverà il posto che gli sia proprio, e nel quale potrà sentirsi a suo agio. L'armonia allora si ristabilirà, e ciascun uomo ritornerà ad amare la vita. Ma quando l'uomo non sia libero, perché un potere dispotico gli inibisca, o gli renda difficile l'espletamento delle attività che gli sono proprie, egli — se anche non sia legato alla gleba, o alla macchina — dovrà avvilirsi nell'inazione, ed estenuarsi nel continuo desiderio di libertà. E dapprincipio invocherà un mutamento di regime; ma successivamente, constatando che ogni sperato liberatore diventa continuatore del primo despota, egli cesserà di sperare. Il suo «stato di desiderio» resterà allora senza speranza, e proprio in conseguenza di un simile «stato di desiderio» — che diventerà di mano in mano «stato di nevrosi» — nascerà prepotente l'idea di un deux ex machina: l'idea cioè di un liberatore e salvatore, andato appositamente dal Cielo, per riparare le offese, e sollevare a dignità i mortali.

Nessun commento:

Posta un commento