(segue da qui)
XV. — SULLE AZIONI DEL MESSIA GESÙ
§ 45) Il «Maestro» ed il «Messia». Avendo accertato, in base alle fonti ecclesiastiche, gli estremi indispensabili ad ogni ricerca anagrafica, quali sono il nome, la data ed il luogo di nascita, nonché la data di morte, potremmo iniziare ormai l'identificazione dell'Uomo nelle fonti profane. Senonché soprattutto le opere distinguono e caratterizzano un personaggio. Ciò specialmente nella storia antica, nella quale le omonimie sono frequenti. A completare pertanto gli estremi, in base ai quali condurre poi le ricerche per l'identificazione dell'Uomo nella storia profana, necessita accertarne altresì le circostanze d'azione.
Dai Vangeli rileviamo che furono attributi a Gesù molti discorsi di carattere morale e di carattere profetico. È naturale però che di tali discorsi difficilmente possa trovarsi traccia nelle fonti profane. A parte dunque i discorsi morali e le predizioni (delle quali diremo a suo luogo), poiché — come altrove illustrato (§ 8) — il Gesù, fino al momento del suo arresto, era stato considerato Messia-Salvatore (e cioè Duce e Capo di masse), deve ammettersi che le azioni di lui (azioni che le fonti profane devono aver registrato), siano state tali da determinare il formarsi di una simile credenza. Peraltro, se egli fu ritenuto Messia, e quindi «Capo», ciò deve essere stato in conseguenza delle sue gesta messianiche. Su queste «gesta» quindi non potranno permanere dubbi.
Risulta poi dai Vangeli che Gesù venne chiamato «Maestro». D'altra parte, se Gesù aveva discepoli e predicava una dottrina, è naturale che fosse chiamato «Maestro». Questo attributo però — che nella lingua del luogo suona Rabbi — è molto importante agli effetti delle nostre ricerche. Giacché esso non si dava a chi fosse profeta, o fosse condottiero di popolo (Messia); ma si dava soltanto al conoscitore della Legge. Ora, se molti possono essere stati i «Messia» ed i sedicenti «Messia» registrati dalle fonti profane, e specie da Giuseppe Flavio, non così può dirsi per i Messia che siano stati anche Rabbi. La concomitanza quindi, nella stessa persona, dei due attributi di «Messia» e di «Rabbi», renderà più facile a noi la ricerca nelle fonti profane. Giacché se è vero che tanto i Rabbi quanto i «Messia» in Israele furono molti, non debbono certamente essere stati molti i Rabbi che siano stati ad un tempo «Messia».
Infatti, i «Messia» erano generalmente rustici popolani, ignari di ogni dottrina e privi totalmente di cultura: erano pastori cioè, come Atronge; erano servi, come Simone di Erode; erano vagabondi come Teuda, o del tutto ladroni come Simone di Giora. Per contro i Rabbi appartenevano di regola all'aristocrazia sacerdotale. Ed appunto per questa loro appartenenza all'aristocrazia sacerdotale, essi erano diffidenti verso i sedicenti Messia. Perché se pochi furono i Rabbi che seguirono apertamente un Messia (come il Rabbi Giuseppe di Mattia, ad esempio, che dapprincipio seguì, volente o nolente, il movimento iniziato da Manaemo e facente capo a Giuda Galileo; o come il Rabbi Aqîba, che seguì poi il movimento di Bar Kokhebhah), ancora meno furono i Rabbi, postisi essi stessi a capo di un movimento messianico.
Senonché, quando noi avremo rinvenuto nelle fonti profane un Rabbi-Messia, che risponda al nome da noi trovato, che sia vissuto nel periodo da noi accertato, e che sia nato e vissuto in quel determinato periodo, laddove la tradizione precisa essere vissuto Gesù, non avremo fatto abbastanza, se non potremo accertare che la dottrina del personaggio rintracciato nelle fonti profane coincide con la dottrina del personaggio di cui alle fonti evangeliche. Al quale proposito, più che la dottrina ufficiale — prodotto di apporti successivi — occorrerà accertare la dottrina originaria del Gesù, quale era stata vista dai suoi oppositori. Giacché le fonti profane, nelle quali dovremo poi condurre le ricerche d'identificazione, essendo state scritte da persone che non aderirono alla dottrina successivamente formatasi sul «Maestro», non potevano riportare se non le impressioni che sulla dottrina originaria avevano ricevuto quelli che non vi avevano aderito. Per questo, più che negli scritti canonici, noi dovremo ricercare gli estremi della dottrina originaria del Gesù in mezzo agli scritti pagani contemporanei.
Degli scrittori pagani solo Plinio il Giovane ci ha tramandato cenni sulle primitive credenze cristiane. Quello però che ci dice Plinio può bastare a farci conoscere come era stata vista dai non-credenti la dottrina originaria del Gesù, e pertanto come può averla presentata nella sua storia Giuseppe Flavio. Ed ecco come si esprime Plinio nella nota Lettera a Traiano: [1] «Mi fu presentato un foglio anonimo contenente parecchi nomi di persone accusate quali cristiani; di queste, le persone che negavano di essere cristiane, o dicevano di essere state cristiane soltanto in passato, qualora, pronunziando io la formula di rito, avessero invocato gli dèi o con incenso e vino avessero adorato la tua statua, che appositamente avevo fatto collocare nell'aula del Tribunale con la statua dei numi — ciò che, secondo affermano, nessun vero cristiano può lasciarsi costringere a fare — li mandavo in libertà».
Da questo passo si argomenta che, secondo i non-cristiani, i seguaci del Gesù si distinguevano specialmente per una tenace avversione al culto degli altri numi, e perché in nessun modo accettavano di bruciare incenso davanti alla statua degli imperatori, preferendo cento volte il supplizio. A conferma del suddetto passo, ricordiamo essere risaputo che i primi cristiani andavano in Roma al martirio, appunto perché rifiutavano di riconoscere altro Dio e Padrone (Dominus), diverso dal loro Dio; e piuttosto che riconoscere quali padroni gli imperatori, davanti alla cui statua occorreva porsi in adorazione, erano pronti ad affrontare la morte.
Un'altra circostanza necèssita mettere in evidenza nella dottrina praticata dai primi cristiani. Giacché è ben vero che i primi cristiani affrontavano con voluttà la morte, piuttosto che fare atto di adorazione davanti alla statua degli imperatori; ciò però avveniva perché era ferma credenza loro che, dopo la morte affrontata per non adorare la «Bestia» (come essi stessi denominavano l'imperatore), la loro anima sarebbe risorta trionfalmente in paradiso, dove non avrebbe più subìto sofferenze di sorta. Infatti, nell'Apocalisse di Giovanni così viene presentata la descrizione di taluni aspetti del futuro «Regno di Dio» (XIV, 8-12): «È caduta Babilonia, la grande, colei che col vino del furore della sua prostituzione ha abbeverato tutte le genti ... Se alcuno adora la Bestia o la sua effigie, e riceve il marchio sulla sua fronte o sulla sua mano, anch'esso berrà il vino del furore di Dio, preparato nel bicchiere dell'ira sua, e sarà tormentato con fuoco e zolfo ... Né han tregua giorno e notte gli adoratori della Bestia». E più avanti (XX, 4-6): «Poi vidi i Troni, e sopra di essi sedevano coloro i quali avevano subìto vittoriosamente la grande prova: e tra questi ultimi vidi le anime di coloro ch'erano stati decollati per la testimonianza di Gesù, e che non avevano adorato la Bestia, né la sua immagine ... Costoro erano tornati in vita, per vivere con Cristo mille anni. Il rimanente dei morti non tornarono in vita, e non ritorneranno, finché non siano compiuti i mille anni. Giacché questa è la prima resurrezione».
Appare spiegato, dopo questi chiarimenti, non soltanto l'entusiasmo; ma il fanatismo col quale i primi cristiani desideravano ed invocavano il supplizio. Ed appunto una simile caratteristica dovrà contrassegnare la dottrina del personaggio storico, da identificare nelle fonti profane, anche se nelle pagine fredde della storia, l'entusiasmo col quale i «messianici» correvano alla morte, risulterà meno sublimato, che non nelle calde vibrazioni della leggenda.
Riepilogando, i dati anagrafici del Redentore Cristiano andranno rettificati come appresso. Egli nacque attorno all'anno 28-27 av. E.V. e morì nella Pasqua dell'anno 7 E.V. Visse a Gamala, cittadina posta a sud del lago Tiberiade, dove il lao stesso si restringe per ripigliare l'aspetto di fiume. Fu Galileo, fu Rabbi e fu Messia; e la sua dottrina fu nota nel mondo profano per l'entusiasmo col quale i suoi seguaci affrontavano la morte, piuttosto che accettare quale Padrone l'Imperatore di Roma, e per la credenza in una vita oltretomba.
NOTE
[1] Vedi tutta la lettera ne «I dieci libri delle lettere di C. Plinio Secondo», Edizione Antonelli 1837, pp. 540-541. Rileviamo adesso che il Drews, appunto perché ossessionato dalla sua mitosofia, contesta anche l'autenticità della lettera di Plinio (cfr. Le Mythe de Jésus, p. 100 in nota); ma non crediamo sia neppure il caso di soffermarci sulle fantasie dello stesso e degli autori da lui citati.
Nessun commento:
Posta un commento