mercoledì 26 luglio 2023

Preparazione spirituale alla grande guerra

 (segue da qui)

§ 18) Preparazione spirituale alla grande guerra. — In Giudea frattanto (anni 7-8) la pace veniva ristabilita; ma era la solita «pace di cimitero», che dura soltanto fino al formarsi delle nuove generazioni. 

Per vero, nei precedenti moti messianici, dopo soffocato il movimento e soppresso il capo, quest'ultimo era stato considerato falso messia, ed i superstiti mai avevano pensato di riprendere l'azione nel nome di quello. Non così accadeva questa volta. Perché il Rabbi Galileo, morendo per effetto della reazione sacerdotale impersonata da Anna, aveva lasciato una «scuola», e con essa una schiera di discepoli, animati da una dottrina. Ed è naturale che i discepoli rimasti — a capo dei quali lo storico ci presenta Giacomo e Simone — anche dopo la prima repressione, proseguissero la propaganda iniziata dal Maestro, e nel nome di lui.

Difatti Giuseppe Flavio così scrive a proposito della scuola di Giuda Galileo, dopo aver parlato delle altre tre scuole dei Farisei, dei Sadducei e degli Esseni (Antichità, XVIII, II, 4): «La quarta scuola che raccoglie il pensiero giudaico ebbe per primo maestro Giuda Galileo. In tutto il resto essa è conforme al modo di pensare dei Galilei; ma di proprio possiede un amore ardentissimo di libertà, per cui nessun Capo o Signore riconosce all'infuori di Dio, e piuttosto che servire a padroni mortali, gli aderenti a tale scuola preferiscono vedere se stessi in pericolo di morire cento volte, e vedere congiunti ed amici straziati ed uccisi». Prosegue lo stesso Giuseppe: «Appunto di questa pazzia cominciò allora la nazione ad ammalare. Giunse così essa lentamente a tal punto che, sopravvenuto il malgoverno di Gessio Floro (64 E.V.), si indusse a prendere le armi contro i Romani». Ed altrove completa così lo storico il suo pensiero (id. XVIII, I, 2): «Proprio Giuda, avendo introdotto presso di noi la sua scuola di sapienza, ed avendo avuto molti seguaci, non solo intorbidò la cosa pubblica per il tempo presente, ma, con un genere insolito, quale è quello della filosofia, sparse i semi di tutti i mali, che misero radici anche per l'avvenire».

Nessun dubbio dunque, che proprio la scuola di Giuda Galileo preparò e condusse tutti i movimenti messianici rivelatisi dall'anno 7 all'anno 70 E.V. Giacché la dottrina apocalittica, assimilata dalla scuola di Giuda Galileo, ed elaborata dai discepoli in conformità coll'apocalittica zoroastriana, costituiva una solida base, atta a mantenere viva la credenza nella messianità del «Maestro Galileo». Ed infatti, secondo tale dottrina, la prima apparizione del Maestro sulla terra rappresentava soltanto la sua prima comparsa (prima parusia), pari alla preconizzata prima comparsa preparatoria del Saosyant nell'analoga apocalittica zoroastriana. Presto però avrebbe dovuto far seguito la seconda e definitiva comparsa (seconda parusia), accompagnante la vittoria finale. 

Ed a proposito della seconda comparsa (che talvolta fu chiamata anche «risurrezione»), deve ricordarsi che agli inizi del movimento galileo non esisteva, in argomento, un'opinione sicura e stabilmente affermata. In base però alla credenza farisaica nella risurrezione dei corpi, l'elemento fariseo aderente alla dottrina del Rabbi pensava che primo a dover risorgere dovesse essere proprio il «Messia». La risurrezione comunque avrebbe dovuto aver luogo dopo che lo stesso Messia, salito — successivamente al proprio sacrificio in terra — al cospetto del Dio Padre, avesse nuovamente ricevuto licenza, per poter ritornare tra gli uomini ad attuare il proprio «Regno». In conseguenza si pensava agli inizi che la seconda parusia dovesse verificarsi nei giorni successivi alla morte. Per questo, appena la notizia della morte del Maestro si era comunicata a tutta la Palestina, a mezzo di fuochi, accesi sulle cime di determinate montagne, la grande sommossa era scoppiata, affinché il Maestro, ridiscendendo tra i suoi, potesse mettersene alla testa. Soffocato però dopo qualche tempo il movimento, senza che la seconda parusia avesse avuto materialmente luogo, avvenne il primo scisma tra i superstiti discepoli del Rabbi. E mentre alcune minoranze, emigrando nei territori della diaspora greca, conservarono la prima credenza (trasformandola però lentamente a carattere trascendente, e ritenendo che il Maestro fosse già risorto, essendo comparso a taluni suoi fedeli), i più accesi invece tra i seguaci del Rabbi, rimasti in Palestina nascosti, continuarono colà la scuola di quello. E proprio in quella scuola fu instaurata, in aderenza con l'apocalittica zoroastriana, una dottrina nuova, che doveva teorizzare i principi dell'ideologia galilea, in conformità coi fatti sopravvenuti.

Per necessità dunque di adattamento ai nuovi casi, gli elementi dell'apocalittica zoroastriana vennero ad integrare l'apocalittica giudaica. E poiché l'apocalittica zoroastriana prevedeva che la seconda parusia del Salvatore avrebbe avuto luogo dopo 57 anni dalla prima parusia (§ 14), i Messianici di Palestina (galilei) accettarono questa dottrina a completamento della profezia di Genesi, continuando in conformità la loro propaganda. 

Da notare adesso che nella Storia di Giuseppe Flavio non ricorre il nome «Galilei» riferito ai seguaci di Giuda Galileo. Giuseppe Flavio anzi non parla mai di «Galilei», preferendo parlare di «Zeloti», od anche di «Sicari»; ma ciò solamente quando vuole riferirsi alle fazioni più fanatiche tra i «messianici galilei». La ragione va individuata nel fatto che anche Giuseppe — come vedremo appresso — era stato per qualche tempo «galileo». I «Galilei» invece noi li troviamo nei territori della diaspora greca, e sono i medesimi che nel 47 E.V., secondo l'affermazione di Suida, avrebbero assunto l'ufficialmente l'attributo di «Messianici» (in greco Kristiànoi). 

Trascurando però i «Galilei» della diaspora — che sul momento non c'interessano — ed occupandoci dei continuatori in Giudea del movimento messianico facente capo a Giuda, ormai dovunque incombente, rileviamo che in conseguenza delle nuove credenze apocalittiche venutesi affermando dopo la repressione dell'anno 7, poche sono le novità che registra la Storia durante i 57 anni di attesa. Giacché solo in pochi casi si manifestarono in questo periodo movimenti eterodossi, condotti da falsi Messia: estranei cioè al Messia Galileo. In prevalenza la Storia registra arresti e condanne contro esponenti del movimento «galileo» o di movimenti collaterali. Così, verso l'anno 30-33 E.V. la Storia registra, incidentalmente (Antichità, XVIII, VII, 2), l'arresto e la morte di Giovanni detto il Battista; nel 46 (Id., XX, V, 1) registra un movimento eterodosso facente capo a Teuda, subito soffocato; nel 48 (Id., XX, V, 2) l'arresto e la crocefissione dei due principali discepoli e continuatori di Giuda Galileo, Giacomo e Simone, rimasti, dopo morto il maestro, a capo della scuola; [1] e poco dopo registra un altro movimento eterodosso, facente capo al cosiddetto «profeta egiziano». Si giunge così all'anno 63 E.V.

Frattanto, paragonando l'attuale stato di servitù alla cattività babilonese, i messianici d'Israele — che comprendevano le masse più irrequiete e invadenti — avevano cominciato a chiamare «nuova Babilonia» l'Impero Romano, chiamando «Bestia» l'Imperatore (cfr. Apocalisse di Giovanni). Ed era naturale che allo stesso modo che un tempo la cattività babilonese era cessata, con la distruzione della vecchia Babilonia ad opera dei Persiani, così adesso i Giudei si attendessero la propria liberazione da Roma, e l'inizio della loro dominazione messianica, in coincidenza con la distruzione della «Nuova Babilonia», ad opera degli stessi Persiani, diventati Parti. Ugualmente era naturale che i Giudei cercassero di affrettare un tale evento, mandando continue ambascerie ai Parti stessi (Guerra, VI, VI, 3).

In conformità con questi concetti, le molte «apocalissi» che in quest'epoca giravano tra le mani dei messianici — e delle quali l'esemplare più corretto rimastoci è l'Apocalisse di Giovanni — affermavano che presto (XI, 2), a preparazione dell'evento messianico imminente (seconda parusia del Salvatore), la dominazione romana sarebbe stata distrutta, e Roma, «la grande fornicatrice», sarebbe stata divorata dalle fiamme (XVIII, 8, 16, 20). Nel contempo, a completare lo sterminio purificatore, il Persiano avrebbe attraversato l'Eufrate a piedi asciutti (XVI, 12).

Ed ecco che gli eventi apocalittici preannunziatori cominciano realmente a verificarsi. Tiridate, infatti, fratello del Re dei Parti, rotti gli indugi, lancia la sfida contro il colosso, che i messianici affermano «dai piedi d'argilla», occupando l'Armenia, stato vassallo di Roma. E Nerone si scuote dal suo sogno di pace universale, rispondendo alla guerra colla guerra, e mandando contro Tiridate un esercito comandato da Cesenio Peto.

Al giungere frammentario di queste notizie, l'ansia dei Giudei, tanto in patria che nella diaspora, tocca il parossismo. «Ma dunque — si domandano ansiosamente — avremo questa volta l'attesa ricompensa? Potremo finalmente, sulle rovine del regno della Bestia, edificare il regno del nostro Messia? Oppure ancora una volta i nostri peccati c'inchioderanno al nostro passato tragico?». E l'attesa diventava sempre più spasmodica.

Le ulteriori notizie però sopraggiungevano più strabilianti che mai. Tiridate aveva rotto, distrutto, sbaragliato l'esercito della Bestia. Gli avanzi delle truppe di Peto fuggivano in disordine, atterrite dalle armi partiche, e si disperdevano cenciose, miseri resti umani. Era quindi senza dubbio ormai li principio della fine. 

Mentre queste novità, penetrate lentamente in Roma, venivano ansiosamente commentate dalla diaspora romana, in mezzo ad un ambiente di giudei sconvolto dalla nevrosi messianica, scoppiava improvviso, nei quartieri popolari adiacenti al Circo Massimo — laddove le comunità della diaspora giudaica erano numerose, e numerose erano principalmente le comunità dei «messianici» — il terribile incendio devastatore. Roma dunque stava per essere divorata dalle fiamme: le profezie apocalittiche si avveravano per intero, ed il Regno della Bestia stava per finire.

Era la spaventosa notte del 18 luglio 817 di Roma (64 E.V.). E non può far meraviglia se in mezzo alle donne scarmigliate, fuggenti affannate, in mezzo ai bambini imploranti spaventati, in mezzo ai vecchi gridanti qua e là per ricongiungersi ai propri cari, in mezzo ad una folla di terrorizzati, pigiantisi nella corsa folle onde salvare la vita, i messianici soltanto, riconoscendo che l'incendio era stato ordinato dal Signore e Padrone del mondo, stessero saldi. Ed era naturale che gli stessi, invece di spegnere il fuoco omicida, si affrettassero ad estenderlo, lanciando tizzoni ardenti — come scrisse Tacito — dove ancora il fuoco non era pervenuto, e divietando che altri volenterosi accorressero per estinguerlo. Né deve sorprendere se altri giudei, i quali ha in precedenza avevano ascoltato con scetticismo le predizioni apocalittiche loro illustrate dai messianici, vedendo adesso avverate le profezie, non osassero contrastare gli sviluppi dell'incendio, e rimanessero, davanti al fuoco, atterriti, come di fronte ad una fatalità, cui nulla potesse l'uomo opporre. [2]


NOTE

[1] Sul termine «figli» del testo greco. — A questo punto il lettore diligente ci osserverà che il testo greco non contiene il termine «discepoli di Giuda Galileo»; bensì il termine «figli di Giuda Galileo» («paides Juda tou Galilaiou»); ugualmente lo stesso lettore diligente ci osserverà, quando parleremo di Manaemo, che anche a quel proposito lo storico non dice «Manaemo discepolo o continuatore»; ma dice invece «Manaemo figliuolo di Giuda soprannominato Galileo» (Manaimòs tis, uiòs Juda tou koloumenou Galilaiou). Sull'argomento diremo al § 64. Qui chiariamo che nell'ebraico non esiste una parola che indichi esclusivamente il concetto di «figlio», od il concetto di «nipote», od il concetto di «parente», od in genere «appartenente», come invece esiste nei linguaggi moderni. Nel linguaggio giudaico esiste soltanto una particella (singolare «ben»; plurale «banim») che dovrebbe leggersi «di» e che indica tutti i concetti di appartenenza che potevano essere conosciuti in regime patriarcale. Giacché il linguaggio giudaico, così come la legge giudaica, riflettono ancora il regime patriarcale.

Nel patriarcato noi sappiamo che tutto quanto costituiva il complesso della famiglia patriarcale, uomini ed animali insieme, appartenevano al Patriarca. Pertanto la frase «Judas ben Israel», equivaleva al nostro «Giuda di Israele», e comprendeva tanto il concetto di «Giuda figlio di Israele», quanto il concetto di Giuda nipote, servo, ed, in genere, seguace d'Israele.

[2] Sull'incendio di Roma al tempo di Nerone. Sulla questione relativa all'incendio di Roma, scoppiato il 18 luglio 64, molto si è discusso. Tuttavia fino ad oggi gli studiosi non hanno potuto accertare quale delle tre ipotesi formulate dagli antichi sia la vera. Stando alla prima ipotesi formulata, l'incendio sarebbe stato appiccato d'ordine di Nerone; stando alla seconda, l'incendio sarebbe stato appiccato dai «messianici», e stando alla terza, l'incendio si sarebbe sviluppato contemporaneamente. Quale di queste tre ipotesi è esatta?

Tacito (Annali, XV, 38-41), afferma che l'incendio si sarebbe sviluppato spontaneamente «in quella parte del Circo che è contigua ai colli Palatino e Celio, da cui il fuoco, alimentato nelle botteghe dalle mercanzie combustibili che v'erano accumulate, d'un subito si propagò irresistibile, sospinto dal vento, per tutta la lunghezza del Circo». Aggiunge poi Tacito: «Né alcuno osava combattere l'incendio, di fronte alle minacce di molti che ne vietavano lo spegnimento, ed allo sfacciato scagliar di torce ardenti da parte di molti altri, che andavano gridando di farlo perché c'era chi lo aveva comandato».

Ma se l'incendio era scoppiato spontaneo, chi erano gli uomini che avevano impedito di spegnere il fuoco, e che avevano cercato invece di propagarlo?

I nemici dell'Imperatore accusarono Nerone di aver voluto quell'incendio per distruggere Roma, cosicché quegli uomini erano da ritenersi suoi emissari. Si disse persino che quell'incendio Nerone lo avesse ordinato, per poter cantare sulla sua lira «l'incendio di Troia». Sta di fatto invece che Nerone fu sorpreso dalla notizia dell'incendio mentre si trovava ad Anzio, ai bagni di mare, e subito si precipitò a Roma per organizzare i soccorsi ai molti colpiti dal disastro. L'accusa contro Nerone appare quindi storicamente assurda; senza neppure dover rilevare che Nerone (come tutti gli autocrati che vogliano ostentare una natura messianica) ci teneva al favore popolare. Non avrebbe quindi egli colpito il popolo così duramente. Giacché principalmente i quartieri popolari andarono distrutti. Per contro, gli amici di Nerone accusarono del delitto i «messianici» residenti in Roma. È possibile a distanza di due millenni dire una parola definitiva sulla questione? 

Come Seneca o come Pisone, anche noi viviamo oggi un torbido periodo di «messianismi», durante il quale i partiti di estrema sinistra accusano gli estremisti di destra, e viceversa, di un fatto delittuoso, conoscendone l'infondatezza. Può darsi benissimo quindi che l'accusa contro i messianici sia stata lanciata per colpire i nemici dell'impero; come può darsi che l'accusa contro Nerone abbia avuto quale scopo quello di colpire il prestigio che Nerone godeva in mezzo al popolo. 

Nerone però non era il mostro di brutture che ci viene presentato, specie dagli scrittori cristiani. Egli invece, pur avendo in sé tutti i difetti dei despota atteggiantisi a «Messia» e «Salvatori» (giacché anche Nerone era adulato quale «Salvatore del Mondo»), tuttavia possedeva dei tratti di umanità e di universalità. Basti ricordare la libertà concessa alla Grecia, colla riattivazione del foedus tra Grecia e Roma (ciò che pare intendesse fare Nerone anche per l'Egitto e le altre province). Né è fuori luogo ricordare che anche dopo la sua morte furono molti i popoli dell'impero che lo rimpiansero, desiderando per lui una «seconda parusia». Ed in ciò va individuato un nuovo motivo di avversione contro di lui da parte dei messianici di Giudea, i quali non ammettevano in opposizione al loro «Messia», un «Anti-messia» (cfr. Renan, L'Anticristo).

A parte comunque i meriti e i demeriti di Nerone, certo si è, come è ormai il giudizio della storia, che dell'accusa d'incendiario Nerone deve essere assolto. Per contro, possono della stessa accusa andare assolti i messianici di Roma?

Notiamo che oggi noi conosciamo, sulle credenze dei primi messianici, ciò che Tacito non conosceva. Tacito infatti — come tutti gli scrittori latini dell'epoca — disdegnava di penetrare in profondità la dottrina dei primi messianici. Egli pensava che quelle turbe «invise per il loro vergognoso procedere, e che il volgo chiamava Messianici, da un Messia che sotto Tiberio sarebbe stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato» non meritassero una qualche attenzione. Per questo motivo né Tacito né altri tra gli scrittori latini poteva parlare dei messianici con cognizione di causa. I dubbi quindi e le incertezze di Tacito sono dovute appunto alla mancata cognizione di causa. Noi invece sappiamo oggi, sul conto dei giudeo-cristiani di Roma di quell'epoca, molto più di Tacito. 

Venendo all'incendio, è indubbio che lo stesso si sia sviluppato inizialmente per combustione spontanea. Del resto gli incendi per combustione spontanea erano allora nell'impero più frequenti di quanto non siano adesso, tanto vero che lo stesso Tacito, poche pagine più avanti (XVI, 13), accenna all'incendio di Lione. In conseguenza l'accusa — contro Nerone o contro i Messianici di Roma — non va formulata nel senso di avere appiccato l'incendio; bensì nel senso di averlo esteso dopo che si era rivelato, e di averne impedito lo spegnimento. Ma chi poteva sfidare le ire del popolo, fino al punto di raccogliere i tizzoni ardenti e lanciarli nelle case vicine ancora incolumi onde propagare più sollecitamente il fuoco?

Poiché era canone di fede dei messianici che la nuova comparsa del Salvatore avrebbe avuto luogo quando il fuoco avesse divorato il mondo esistente, per preparare un mondo nuovo (solvet saeulum in favilla), era naturale che i messianici, vedendo l'incendio svilupparsi in coincidenza coll'epoca nella quale il Salvatore era atteso, ravvisassero in quello una manifestazione della volontà divina. Ciò stante, poiché era il Signore ad aver fatto esplodere l'incendio, era peccato opporsi alla volontà del Signore, ed era invece atto meritorio alimentare l'incendio stesso. Solo così e non altrimenti possiamo renderci conto delle circostanze di fatto tramandateci da Tacito.  

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