mercoledì 17 febbraio 2021

Dalla fede all'incredulità

 

«Questi dèi che l'uomo ha fatto e che non hanno fatto l'uomo».

Cyrano de Bergerac

La mort d'Aggripine


«Non credete una cosa perché ve l’hanno fatta credere dalla vostra infanzia. Ad ogni cosa applicate la vostra ragione; quando l’avrete analizzata, se pensate che sia buona per tutti e per ciascuno, allora credetela, vivetela, e aiutate il vostro prossimo a viverla a sua volta».

Buddha


«Dio è il solo essere che, per regnare, non ha nemmeno bisogno di esistere».

Charles Baudelaire


INTRODUZIONE

Dalla fede all'incredulità


In principio era mio padre.

Uomo semplice e pio, onesto e buono, era ricolmo della fede del carpentiere. Gli devo le mie solide conoscenze bibliche e il desiderio ardente di saperne di più su Gesù.

I miei genitori erano membri della comunità darbista,* congregazione evangelica di origine anglicana chiamata anche Assemblea dei Fratelli. Mio padre vi predicava tutte le domeniche. 

Discreta e riservata, mia madre vegliava con sollecitudine sui suoi quattro figli. Non la credo veramente pia: è più emotiva che convinta e più conformista che ortodossa. Contrariamente a suo marito, non parlava mai della sua relazione intima con le divinità circostanti.

Ho ricevuto nel cuore del ventesimo secolo l'educazione timorosa di un angusto calvinismo. Come una cappella portatile, la Bibbia era il centro del focolare. La si chiamava la Parola. Riferimento morale supremo, ispirato dallo stesso Creatore, era necessario leggere, studiare e meditare il Libro Sacro con deferenza e applicazione ogni giorno che Dio fa.

Hanno riempito i miei neuroni di un solido bagaglio religioso secondo il metodo intensivo che ha fatto le sue prove nella Chiesa: culto domenicale, scuola domenicale, incontri di preghiera, di edificazione, di umiliazione; studi teologici, campi biblici, seminari stellati, lodi e vacanze ardenti con il Signore.

L'insegnamento dispensato ai bambini dà alle chiese un prezioso credito per l'avvenire: il timbro precoce è indelebile. Ma la mia fede giovanile non ci vedeva affatto tanta malizia.

Durante i mesi estivi, uno dei centri darbisti di educazione cristiana di Montcherand, Jura Rosaly o La Bessonnaz, nella Svizzera protestante francofona, divenne la mia scuola di acrobazia intellettuale.

Degli istruttori autorizzati con lo zelo di angeli custodi erano responsabili di plasmare la mia intelligenza e la mia volontà. Posizione invidiata da chi ha la colonna vertebrale flessibile e il ginocchio pieghevole. Questi iloti del vangelo confondono sempre pedagogia e cieca sottomissione.

L'educazione religiosa non fiorisce ma spiana: vi guarda dall'anchilosi e dalla vertigine per la cecità. L'intelligenza sottomessa fa l'eresia, il ragionamento è spirito malvagio: va quindi incatenato. La grande astuzia era di far credere che ci si può smarrire seguendolo.

Riflettendoci, ora credo che la saggezza consiste nello scegliersi i propri errori. E anzi, preferisco la ribellione chiaroveggente all'obbedienza cieca.

Finanziati e commissionati da qualche ricca famiglia del clan, questi campi sottratti all'evangelismo hanno catechizzato migliaia di bambini candidi e docili. Molti provenivano da tutto il mondo, preferibilmente di modesta estrazione.

Non è detto nelle Scritture che è più facile al povero diavolo e al bambino piccolo accedere al Regno dei cieli?

Imparare ad allontanarsi ha le sue regole: la mente sbatte contro le pareti girevoli e scompare attraverso una botola. Alcuni istruttori prendevano il retro dell'armadio per il retro delle cose: costoro non hanno mai trovato la via d'uscita.

In questi ghetti del vangelo, si esercitava con metodo l'indottrinamento delle giovani menti. Cinquant'anni più tardi, la mia disapprovazione è intatta di fronte al potere dannoso della Chiesa e delle sette sui membri più vulnerabili della società.

Ma ritorniamo ai miei dodici anni.

Non molto studioso ma dotato di una buona memoria, mi sono dedicato allo studio della Bibbia. Sotto l'occhio vigile di mio padre, esperto in questioni del cielo, ho memorizzato facilmente oscuri e noiosi capitoli arcaici. Presto ho potuto leggere intere sezioni del libro divino senza problemi.

L'Antico Testamento era il mio libro preferito per le sue armi e le sue rudi epopee guerriere. Non vedevo ancora gli abominevoli massacri di innocenti perpetrati dal popolo eletto di Dio su istigazione dello stesso Jahvé.

A 15 anni avevo fatto il pieno. Ero pieno di liturgia, pieno di buoni precetti, ebbro di paradiso, ero maturo per il culto.

Veneravo il Dio di mio padre con un tale fervore che pensavo che la mia devozione sarebbe salita fino al cielo.

Ho creduto con tutte le mie forze: ero abituato a credere che il Padrone dell'universo governasse ogni momento della mia vita. Queste parole di un Gesuita, tratte dal Vangelo, mi avevano galvanizzato: l'Eterno Dio Onnipotente, Creatore della terra e del cosmo, Principe del cielo, miliardario di stelle, contava anche i miei capelli.

Se fossi stato cattolico, mi sarei senza dubbio gettato anima e corpo nel noviziato prima di prendere la tonaca, quella strana livrea che testimonia, secondo Mallarmé, che si è divenuto la propria moglie.

Crisi mistica della giovinezza, esaltazione dei sensi alle prese con la falsa estasi delle sue emozioni: quante vocazioni sacerdotali sono nate da quella euforica adolescenza? 

«Io sono la Verità», disse Gesù (Giovanni 14:6). Essendo la Verità una persona divina, non è più da scoprire ma da adorare.

Così bisogna «assoggettare ogni pensiero all'obbedienza a Cristo» (2 Corinzi 10:5).

Ma l'intelligenza è critica per natura e tende a confutare l'improbabile. Ogni uomo intelligente è un potenziale eretico: il cristiano che osa pensare non è più cristiano.

La Chiesa sopporta male il chierico eloquente e la logica del suo ragionamento: «Dei preti istruiti», gridava il cardinale de Bonald, «cosa volete che ne faccia? Vogliamo schiene flessibili e non teste pensanti» (citato da Houtin, Evêques et diocèses, volume I, 75).

«L'intelligenza è malvagia se contraddice la fede, inutile se la ripete, indesiderabile se la conferma» aveva decretato san Gregorio, approvato dal Concilio di Trento.

Poiché non la si può distruggere, va smarrita: è la teologia che se ne occupa. Il suo ruolo è quello di occupare la mente con falsi problemi per distrarla da quelli reali. Così questa si impallidirà sulla resurrezione del Cristo senza studiare se egli sia vissuto o meno.

I miei primi seri dubbi sorgeranno nel corso dei miei studi. All'università ho scoperto i punti deboli del cristianesimo, le sue incoerenze, la menzogna istituita, l'immoralità dei dogmi, la loro perversione.

Soprattutto, mi aveva colpito l'incapacità della morale cristiana nel migliorare la condizione umana: la sua impotenza nel bene era per me un enigma. 

Ben deciso a guardarvi più da vicino, mi rivolsi alle opinioni contrarie alla fede. Uno dei miei insegnanti, ardente voltairiano, discepolo di Bousset e allievo di Jean Rostand, mi aprì la mente. La sua retorica di un'altra età, luminosa e insolente, affinava i miei istinti ragionatori:

«Teologo certamente», diceva, «che depose la terra su un uovo di struzzo, l'uovo su una tartaruga, questa su un elefante e ammassò il tutto nella mano divina. Ma un uomo senza teologia provò che la terra poggia sul nulla». I teologi di Salamanca avevano dimostrato l'impossibilità di un'America, poi Cristoforo Colombo la scoprì.

Trascinato dal suo lirismo, questo bravo tutore continuava: «L'ignoranza e la stupidità complicano le cose: la scienza semplifica. La cosmografia dei primitivi è terribilmente ingarbugliata con i suoi draghi che mangiano i pianeti. Einstein ha ridotto tutto ad una formula: E = MC2. È semplice, ma bisognava pensarci!»

L'illustre fisico, ebreo ateo, aveva peraltro compreso perfettamente la natura dell'Uomo: «Due cose sono infinite», diceva, «l'universo e la stupidità umana, ma riguardo l'universo non ho la certezza assoluta».

Non mi era mai presentata la religione cristiana dal punto di vista della critica razionalista. Questo approccio mi soddisfaceva e ho rivisto integralmente la mia copia. I miei compagni di studio erano miscredenti altrettanto poco frequentabili per un cristiano come Rabelais, François Villon, Balzac, Bossuet, Verlaine e molti altri.

Lo confesso senza falsa vergogna: l'irriverenza sovversiva di un Diderot mi incantò e mi deliziai dell'acidità mordace di un Voltaire. Per natura portato all'umorismo insolente, ne gustai tutto il sapore caustico e il suo scintillante fascino letterario.

Feci anche una strana constatazione: la loro messa in discussione del cristianesimo si congiungeva alla mia. 

Il problema della moralità mi preoccupava: come accettare la nozione del peccato originale e quella della redenzione? Questi due dogmi, pilastri essenziali della dottrina cristiana, sono pertanto due grandi ingiustizie incompatibili con le esigenze della morale contemporanea.

Diderot, scettico, aveva già ironizzato: «Com'è il Dio dei cristiani? Egli condanna l'Umanità intera quando gli mangia il frutto proibito, ma perdona a quella stessa Umanità quando gli assassina suo figlio unico, il che prova», conclude «che questo Dio tiene più alle sue mele che ai suoi figli».

Voltaire, con il suo acuto senso della sintesi, riassume la questione: «E tutto riposa insomma sul furto di una mela e sull'assassinio di un dio».

La critica colorita di questi illustri pensatori mi sembrava bussare all'angolo del buonsenso.

Questi testi, gioiosamente sovversivi, portavano in loro i germi della mia incredulità: non disturbavano la mia mente. Al contrario: queste pagine splendide mi procuravano una gioia intensa; esse furono il preludio della mia «nuova nascita».

Molto presto, il problema dell'esistenza terrena di Gesù Cristo mi preoccupò. Mi sembra che la mia ricerca della verità dovesse cominciare da là: questo personaggio fuori dal comune, l'essere più importante della storia, l'uomo-dio di Nazaret, condivide davvero la condizione umana?

Avendo a malapena formulato la domanda, ero convinto di poter trovare facilmente una risposta soddisfacente sia nella teologia che nella letteratura laica, tra l'abbondanza di testi e di documenti laici. 

Il mio stupore fu grande nel constatare lo strano vuoto storico che circonda Gesù.

Studiai gli autori razionalisti moderni, in particolare Guy Fau, J. N. Bezançon, M. Dieuguez, A. Drews, B. Dubourg, M. Goguel, i quali si sono dedicati a serie ricerche sull'uomo Gesù: essi fecero una grande impressione su di me, stimolando la mia curiosità e confermando il mio desiderio di approfondire l'argomento.

I ricercatori più rappresentativi attirarono la mia attenzione: Daniel-Rops, Ernest Renan, Alfred Loisy e Charles Guignebert. Provenienti dal serraglio, cresciuti dalla Chiesa nel rispetto dei vangeli, i loro studi sulla vita di Gesù li avevano condotti a ripudiare la tradizione ortodossa.

Riservai nondimeno il mio più vivo interesse e la mia tenerezza filiale a Georges Las Vergnas. Egli fu per me un maestro attento, un importante riferimento culturale, un amico sensibile, una guida sicura.

Vicario alla cattedrale di Limoges, si «spretizzò» nel 1944 per riallineare la sua vita alla sua coscienza. Essendo retta la sua coscienza, la sua vita lo fu. I suoi studi e la sua testimonianza affrettarono la mia liberazione: sono ammirevoli per la loro logica e per la chiarezza. Gli valsero la più alta distinzione della Chiesa: la grande scomunica maggiore, con tutti i suoi diritti e privilegi.

Così Las Vergnas saliva al rango dei Cesari e degli Eresiarchi, ma egli portò l'anatema con modestia. La sua scomparsa, sopraggiunta troppo presto, ci ha privato di un'opera importante, ricca e accattivante, ahimè incompiuta.

Glielo devo enormemente, e questo libro si riferirà costantemente ai suoi lavori, alla sua straordinaria erudizione gioiosamente illustrata con un umorismo sottile e rinfrescante.

Nelle pagine che seguiranno, numerose citazioni e riferimenti sono ispirati ai suoi scritti, che sono autorevoli per ogni ricercatore che ami la verità storica. 

Non ho alcuna autorità in Storia e il mio diploma universitario in optometria non mi autorizza ad agire da storico. Non ho nessuna qualità particolare, se non un approccio fatto di naturale curiosità per una questione che ha segnato profondamente la nostra cultura giudaico-cristiana da più di duemila anni: il mito di Gesù Cristo.

Che si voglia ben perdonarmi per aver riflettuto su uno dei problemi più sconvolgenti della storia dell'umanità e per avervi apportato un tocco personale, attingendo al ricco e abbondante materiale raccolto durante vent'anni, materiale necessariamente incompleto, criticabile in anticipo.

 La questione della verità di una religione è una cosa, la sua utilità è un'altra. Fermamente convinto, come Bertand Russell, della nocività del pensiero religioso, considero senza eccezione le grandi religioni del mondo — il buddismo, l'induismo, il cristianesimo, l'islamismo e il comunismo — false e nefaste.

La constatazione è facile: nessuno di loro ha mai migliorato l'umanità. Ben al contrario: basta guardare, per convincersene, la storia del mondo degli ultimi duemila anni: l'idea di un Dio unico — ogni società ha rivendicato il proprio — ha giustificato le guerre e i conflitti più sanguinosi.

Perché l'atteggiamento religioso oppone le persone e le divide, induce all'intolleranza, all'odio, all'ingiustizia e alla stupidità. Ornandosi di nozioni impalpabili di eternità e di infinito, essa sfugge alla ragione; l'irrazionalità, la superstizione e il misticismo generano allora i peggiori eccessi.

Il fanatismo ne è il corollario e la rivalità tra i popoli, alimentata da una fede cieca, paga il suo tributo all'orrore: scontri comuni in Irlanda tra protestanti e cattolici, fondamentalismo islamista in Afghanistan, Iran e in Algeria, terrorismo di Stato in Israele, rivolta sanguinosa dei Palestinesi oppressi, ne sono la drammatica dimostrazione quotidiana.

Da migliaia di anni, Dio è l'alibi degli antagonismi nazionali e individuali più esasperati: si legittimano in suo nome gli atti più vili e più bassi.

Gli atti di guerra di una portata inaudita, perpetrati negli Stati Uniti l'11 settembre 2001, con le sue migliaia di vittime, hanno segnato una radicalizzazione senza precedenti del terrorismo fondamentalista musulmano. Eroi funesti di un totalitarismo barbarico, i fanatici talebani hanno perfettamente illustrato la deriva perversa dell'indottrinamento religioso — che sia islamista o di ogni altra obbedienza — condotto al suo parossismo.

«Tu amerai il tuo prossimo come te stesso», avrebbe ordinato Jahvé a Mosè. Prescrizione amabile ma insensata, perché l'amore non nasce da un decreto, anche se divino.

Questo sentimento prodigioso che infiamma i nostri sensi e sconvolge le nostre vite è un'inclinazione istintiva, spontanea; l'amore se la ride degli ordini che riceve e non fiorisce per semplice prescrizione.

Quella ingiunzione del Decalogo è irrealistica: così non ha fatto carriera nella sua forma di obbligo contrattuale.

Il «Non uccidere» ha conosciuto la stessa sorte: il Cristo dei vangeli non seppe come imporlo agli uomini, né ha abolito la schiavitù.

La moralità cristiana è una impostura: solo la coscienza degli uomini è il garante universale di una giustizia accettabile.

La pace del Cristo è un'illusione: è stata fin troppo illustrata dalle guerre fratricide e dalle lacerazioni.

Io non voglio la pace del Cristo, ma la Pace.

Per coloro che si credono figli di Dio, l'eretico è figlio del diavolo: cristianesimo, giudaismo e islam si combatterono per secoli. Il Talmud mette all'inferno i Cristiani che replicarono con il forno crematorio. 

Gerusalemme, crocevia delle sette, allinea i cadaveri da millenni: ciascun Dio ha i suoi; hanno dato i loro nomi alle divisioni del mondo.

Selvaggina da crociata, il Cattolico fu un cane per il Musulmano.

Le religioni sono portatrici di odio: con l'assolutezza delle loro dottrine legittimano il razzismo intellettuale e si affermano solo prevaricando.

Hanno inoltre provato il loro fallimento sociale: una società più giusta non avrebbe bisogno di tanta carità.

«Gli uomini si intenderanno», diceva Heine, «quando nessuno avrà la pretesa di detenere la verità».

«Immaginarsi che con l'aiuto delle parole», scriveva Diderot ne La Prière, «cioè agitando l'aria con la punta della propria lingua, si cambieranno le leggi dell'universo e quelli che si nominano i decreti della provvidenza, non è forse follia?».

Si deve elevare la Ragione più in alto di tutti i dogmi, perché essa sola è capace di unire l'universale. 

Così ho attraversato l'abisso vertiginoso dalla pietà all'incredulità. Alcuni hanno opposto alle mie opinioni attuali le mie certezze passate. È un sofisma: non ho mai avuto certezze, ma una fede. Spezzando le catene che mi furono imposte, non nego nulla, mi libero.

Scienziato per disciplina, razionalista per gusto, ottimista di cuore, fiducioso nel progresso di un mondo laicizzato, credo nel miglioramento dell'individuo attraverso lo sviluppo del sapere e della conoscenza.

Perché, in definitiva, tutto dipende dall'uomo, perfino gli dèi. 

Possa questo modesto saggio, a dispetto delle sue imperfezioni, suscitare una sana riflessione e contribuire a rendere la nostra società migliore, più giusta e più fraterna. 


 * John Nelson Darby

Teologo inglese, nato a Londra nel 1800, morto a Bournemouth nel 1882. Avvocato, entrò, malgrado l'opposizione di suo padre, nel clero anglicano. Si unì presto ai dissidenti di Dublino, nel 1832, che professavano un'opinione scismatica alla quale la sua adesione fede dare in seguito il nome di «darbismo».

Viaggiò parecchio e riuscì a provocare in alcune chiese protestanti delle discussioni e perfino degli scismi. Ha pubblicato l'interpretazione della bibbia, in particolare delle profezie, e numerose opere legate al suo sistema ecclesiastico.

Una versione della Bibbia, tradotta da Darby direttamente dai testi antichi, reca il suo nome.

Darbismo

Setta protestante (si scrive anche darbismo).

Malgrado il suo nome, il darbismo ebbe per fondatore non J. N. Darby ma A.-N. Groves che, nel 1829, aveva cominciato a riunire attorno a lui, a Dublino, persone pie, le quali, senza uscire dalla Chiesa anglicana, si occupavano di missioni interiori.

L'idea del sacerdozio universale prese, in queste conventicole, una tale importanza che si arrivò a domandarsi se la successione apostolica, sulla quale riposa la Chiesa anglicana, non avesse subito interruzioni.

Non si tardò a dichiarare che la Chiesa aveva fatto apostasia e che nessun uomo aveva il diritto di dirsi Ministro ad esclusione di altri.

Il movimento prese una grande importanza da quando Darby gli ebbe data la sua adesione nel 1832. Il suo centro principale fu Plimouth. Darby riteneva che la Chiesa visibile fosse disciolta e che non vi erano più che «assemblee» rientranti unicamente nell'ambito del sacerdozio universale.

Vi sono ancora comunità darbiste in Svizzera, in Francia e in Italia. Le profezie bibliche sulla fine del mondo vi sono molto studiate. 

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