martedì 2 dicembre 2025

Gerard Bolland: IL VANGELO — Un ‘rinnovato’ tentativo di indicare l’origine del cristianesimo 3:18

 (segue da qui)


“Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra” — così dice il Vangelo in Matteo 11:25 — “perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli; sì, Padre, perché così è piaciuto a te”. “Poiché” — esclama apertamente la Gnosi (1 Corinzi 1:21) — “dal momento che il mondo, mediante la sapienza di Dio, non ha conosciuto Dio attraverso la propria sapienza, è piaciuto a Dio salvare i credenti per mezzo della stoltezza della predicazione! “Tutto” — dice ancora il Figlio evangelico stesso — “mi è stato dato dal Padre mio (cfr. Matteo 28:18), e nessuno ha conosciuto il Padre se non il Figlio, né il Figlio se non il Padre e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Giustino, Apologia 1:63; Hom. Clem. 17:4; 18:4.13.20; Clemente, Strom. 7:18; Ireneo 1:20.3; 2:6.1; 4:6.3; Tertulliano, De praescriptione haereticorum 21; Matteo 11:27; Luca 10:22; Giovanni 1:18). “Costoro lo interpretano” — dice Ireneo (4:6, 1) — “come se, prima della venuta del nostro Signore, il vero Dio non fosse stato conosciuto da nessuno, e non riconoscono come ‘Padre’ di Cristo il Dio annunciato dai profeti”. E che Matteo 11:25–27 fosse considerato dagli gnostici come la suprema prova e il coronamento delle concezioni gnostiche, egli stesso riferisce (1:20.3). Nella sua forma “non corretta” esso è infatti un detto tipicamente alessandrino, in cui la dottrina era esposta in funzione diretta tanto per gli “animali” quanto per gli “spirituali”Che non “il Signore” di Mosè, ma soltanto “il Padre” di Gesù fosse il Dio vero, retto e buono — questa era una dottrina rivelata in quel Figlio anche ai più semplici, sebbene non compresa da loro: una dottrina che gli antichi sapienti palestinesi non avevano concepito, ma che solo un intellettualismo dei “minim”, uscito da Alessandria, aveva cominciato a predicare. E lo faceva come vangelo della Croce, che consisteva in un linguaggio simbolico pieno di senso, anche se non era possibile dire apertamente che l’intera buona novella in quanto tale fosse essa stessa una parabola. Quando nelle parabole, che sono dette essere state pronunciate a Gerusalemme, leggiamo del Figlio che non si trattiene (Matteo 21:37), della Città che viene incendiata (22:7) e del Signore che tarda a venire (24:48; 25:5), vi si scorge, tuttavia, una teologia greca di epoca posteriore, contraria alle aspettative giudaiche — una teologia che ha concepito le parabole stesse per suggerire tali allusioni e indicazioni. E chi si domanda se nella terra di Giudea il regno di Dio sia stato predicato come imminente (Matteo 3:2; 4:17; 10:7; 16:28) — per essere poi subito paragonato a un granello di senape che cresce (13:31), a un lievito che fermenta gradualmente (13:33), e alla vegetazione che cresce in un campo, il mondo (13:38) — la terra che diventerà l’eredità dei miti (5:5) — dovrà ammettere che questa dottrina, predicata dopo la distruzione di Gerusalemme, ripensava in chiave conciliatrice e “mondana” le concezioni religiose, in contrasto con le attese di vendetta giudaiche, sino a ricondurle in Galilea. Non c’è dunque più posto per una parabola che possa dirsi residuo stabile e duraturo di un nucleo di tradizioni provenienti dalla Galilea. Si è interpretato il riferimento al simbolismo gnostico in Matteo 18:10–13.34–35 (cfr. 7:6–7) come una aggiunta posteriore, e la parabola del seminatore (Matteo 13:4–9; Marco 4:3–9; Luca 8:5–8) come un insegnamento uscito dalla bocca di Gesù stesso. Ma nulla è meno galilaico e più ellenistico di questa parabola programmaticamente evangelica, letta dai Naasseni di origine alessandrina nel vangelo degli “Egiziani”; e così, fin dall’inizio, le parabole del Vangelo contengono un insieme di elementi che non possono essere stati tratti o introdotti dalla terra di Giudea. Che la Buona Novella nel suo insieme sia essa stessa una parabola esemplare — ciò è affermato a sua volta, anche se non esplicitamente, perché non si poteva dirlo apertamente: cfr. Matteo 10:38; 16:24; Marco 8:34; Luca 8:23; 14:27. Ciò che poteva essere detto, è stato detto: il Figlio evangelico — che, secondo le lettere paoline, è egli stesso immagine — secondo i racconti anche degli evangelisti romani parlava costantemente per immagini alle folle. “Con molte parabole annunciava loro la parola, secondo come potevano udirla; e senza parabole non parlava loro, ma spiegava ogni cosa in privato ai suoi discepoli” (Marco 4:33–34). “Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti” (Barnaba 4:14; Hom. Clem. 8:4; Matteo 20:16; 22:14). E la moltitudine può immaginare e rappresentarsi molto, anche se non potrà mai comprendere molto né a fondo: così, per essa, la dottrina della ragione, con la sua distinzione tra ciò che è corporeo, animico e spirituale nell’uomo, diventa una esposizione in forma di parabola, nella quale la parola predicata alla moltitudine parla soltanto della … parola predicata. “I discepoli si avvicinarono a Gesù e dissero: perché parli loro in parabole? Egli rispose: perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato... Per questo parlo loro in parabole, perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono né comprendono” (Matteo 13:10–11.13). “Non date le cose sante ai cani, né gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con i piedi e, voltandosi, non vi sbranino” (Matteo 7:6). [1] “E senza parabole non parlava loro” (Matteo 13:34).

NOTE

[1] “Come già nella teologia alessandrina di un Filone la Gnosi ottenuta mediante l’interpretazione allegorica della lettera della scrittura assume un carattere esoterico, così — secondo Matteo 13:11 — la comunità messianica (?) si distingue dal giudaismo comune per la conoscenza dei misteri del Regno dei cieli”. H. Holtzmann & R. Zöpffel, Lexikon für Theologie und Kirchenwesen (1888), 349b. “L’evangelista ha in vista una sorta di mistero cristiano che non è la semplice dottrina del Vangelo”. A. Loisy, “Les évangiles synoptiques” 1:627.

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