lunedì 27 ottobre 2025

Gerard Bolland: IL VANGELO — Un ‘rinnovato’ tentativo di indicare l’origine del cristianesimo 2:3

 (segue da qui)


La rettitudine di fede vale ancora più della moralità, afferma, nella persona di Epitteto, la più giovane Stoà (Ench. 31:1). E anche il cristiano alessandrino insegna che senza “fede” non si può piacere a Dio (Ebrei 11:6; cfr. Marco 16:16; Giovanni 8:24; Atti 4:12; Giovanni 6:40; Romani 4:9; 1 Clemente 32:4 ecc.). Presso i pitagorici e gli stoici, le massime o i principi erano “dogmata”, che richiamano immediatamente il dogma duplice della ekklesia, che in quanto “ciò che è parso bene”, “deliberazione” o “conclusione”, è insieme affermazione e prescrizione. Che il retto filosofare non consistesse nella molteplicità delle parole – cosa da “sofisti” – è un’altra osservazione di Musonio (Joh. Stob. Flor. 56:18); e Giustino Martire, più tardi, loda la brevità e concisione delle parole del Salvatore, osservando che Egli non era stato un “sofista” (Apologia 1:14,5). Marco Aurelio (121–180) in quel tempo richiedeva brevità e concisione nei dogmata necessari per la vita, affinché potessero sempre restare impressi in chi li riceveva: ciò non è lo stesso del consiglio evangelico di Matteo 6,7, ma mostra con esso un’affinità innegabile. Centro della dottrina sembra essere stato, nella più giovane Stoà, l'aspetto “paterno” della divinità, nel senso che con ciò “ai molti” veniva presentata, con intento pedagogico, la comunanza di essenza dell’uomo finito con l’invisibile infinito: “Quando si sappia aderire rettamente al dogma che noi tutti in modo eccelso proveniamo da Dio e che Dio è Padre di dèi [1] e uomini”, dice Epitteto (Diss. 1:3, 1), “si giungerà difficilmente ad assumere riguardo a sé stessi concetti ignobili o bassi”. E insieme si insegnava anche che noi uomini siamo per natura cattivi: la dottrina cristiana del peccato originale può pensarsi come un senso stoico di una fragilità umana che si ripete ovunque e sempre, applicato al racconto giudaico del paradiso. “Dovremo confessare di noi stessi”, dice Seneca, “che siamo cattivi, che siamo stati cattivi e – aggiungo malvolentieri – che resteremo cattivi” (De Beneficiis 10:3). “Non solo abbiamo peccato, ma fino alla fine del mondo continueremo a peccare” (De Clementia 1:6, 3). Ciò porta con sé naturalmente il bisogno di purificazione, di mediazione e di riconciliazione, che del resto già nell’antica Babilonia, per esempio, era vivamente sentito, e che tra l’altro è previsto anche in Levitico 5:1-6 e Neemia 5:5-7. Ma si leggano, riguardo all’esame della propria coscienza, Seneca (De Ira 3:36), Epitteto (Diss. 4:6,35) e il Carmen aureum vv. 40-48, e si scorga l’affinità con le pratiche della chiesa cristiana! Ma a un superstizioso come puoi rivolgerti? scrive già Plutarco (46–120). “Come puoi aiutarlo? Sta seduto fuori di casa vestito con un sacco o con degli stracci luridi, o addirittura si rotola nudo nel fango enumerando chissà quali errori o sbagli da lui commessi: che ha mangiato o bevuto questo o quello, che ha camminato su una strada proibita dalla divinità” (De Superst. 7).

NOTE

[1] “I filosofi sogliono chiamarli in generale demoni, ma la sacra scrittura li chiama angeli, dice Filone d’Alessandria nel suo trattato sui sogni ispirati (1:22). Anche in Plutarco, tuttavia, si fa talvolta menzione degli “angeli”: vedi § 22 del suo scritto sull’impossibilità, secondo Epicuro, di vivere felici. Agostino: “Essi dicono che esistono dèi e li chiamano amici del saggio; noi, invece, li chiamiamo semplicemente angeli” (‘La città di Dio’ 19:3). – La rappresentazione ebraica dell’angelo in Salmi 91:11 è di origine babilonese.

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