martedì 30 settembre 2025

Gerard Bolland: FILOSOFIA DELLA RELIGIONE — Le aspettative riguardo all'aldilà

 (segue da qui)

XVII.

Le aspettative riguardo all'aldilà.  

Agostino, vescovo di Ippona, nei pressi dell'antica Cartagine, intorno all'anno 400, disse che in realtà si era cristiani solo in vista della vita eterna.  

Questa affermazione è piuttosto unilaterale, anche se in essa vi è molta verità. Dal punto di vista dell'egoismo naturale, l'uomo è effettivamente spinto verso la Chiesa dalla speranza di una ricompensa e dalla paura della punizione. Ma non è solo questo il punto: vi è anche il desiderio, di tanto in tanto, di essere diversi, di elevarsi al di sopra della banalità quotidiana e delle miserie terrene, per percepire più che comprendere la verità eterna e universale, il che porta con sé una certa elevazione spirituale.  

Ciò significa che vi è un bisogno di edificazione, anche se tale bisogno è solo parzialmente consapevole rispetto alla speranza e al timore. E ciò che è rimasto completamente inconscio è il bisogno involontario di ammorbidire e purificare i costumi. Questi sono, insieme, i tre veri fattori della religiosità, grazie ai quali gli uomini sono stati effettivamente addolciti; un bruto che credeva nel catechismo non continuava a vivere semplicemente come un bruto qualsiasi. Purtroppo, il bisogno di purificazione da solo non è mai stato abbastanza forte da spingere gli uomini verso la Chiesa; ecco perché, ai nostri giorni, essa rimane così vuota.  

Ora, le dottrine di fede che si ascoltano in chiesa possono avere un significato più o meno nascosto, in modo che attraverso metafore e immagini vengano espresse verità che, prese isolatamente, non reggerebbero. Così si deve distinguere tra la verità che non può essere accettata alla lettera e il significato simbolico e silenzioso dei dogmi predicati. Ma anche lasciando da parte questo significato più profondo, rimane una differenza tra la verità della dottrina e il suo valore, che risiede nell'addolcimento dei costumi e non deve essere sottovalutato.  

Lo scopo principale resta comunque l'edificazione, ovvero un innalzamento emotivo al di sopra della quotidianità; nella Chiesa ci si ritrova insieme alla luce dell'eternità, e nella misura in cui si riesce a far sì che l'uomo comune la frequenti regolarmente, si compie qualcosa di buono e di grande per l'umanità.  

Chi, nel proprio cuore, non si considera abbastanza buono e può dire con convinzione di essere meschino e malvagio? Piuttosto che ammettere questo, si è più disposti a riconoscere un bisogno di edificazione. Ciò non toglie che Kant abbia completamente sbagliato quando ha ridotto la religiosità alla morale, identificandola con essa: “L'essenza di ogni religione è la morale”. [1] Proprio in questa identificazione la religione si dissolve. Ma tra la morale e il desiderio di salvezza eterna si pone il bisogno di edificazione, che è abbastanza consapevole da essere riconosciuto, ma sul lungo periodo non è abbastanza forte da spingere le persone in chiesa, dove parlano uomini che non si avvertono come superiori. Il predicatore medio purtroppo non è più in grado di soddisfarci; l'uomo moderno è diventato esigente: oggi ognuno si sente degno solo del meglio e si comporta come se avesse fatto tanto per meritarsi e possedere la verità eterna. Anche senza una profonda formazione spirituale, sull'uomo moderno grava la maledizione di riconoscere la mediocrità di un oratore e, col tempo, si va solo da coloro che si elevano molto, immensamente, sopra il loro uditorio.  

Gli antichi non avevano questo problema, e così Agostino, per il suo tempo, ha in un certo senso perfettamente ragione. Esiste infatti un bisogno umano di edificazione e di conforto che la filosofia non è in grado di soddisfare, così come esiste una speranza sincera in una vita dopo la morte, che il filosofo deve considerare come un fattore sempre presente nell'animo umano. E in questo senso dobbiamo riconoscere che il cristianesimo è la religione del conforto.  

Questo emerge già nel vangelo, quando il Salvatore si rivolge al buon ladrone dicendo: “Oggi sarai con me in Paradiso”. Lì, accanto al Salvatore, pende un ladro che si pente all'ultimo istante della sua vita, mentre l'altro, pur avendo la morte di fronte, continua a schernirlo. Il pentito dice: “Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”, e il Salvatore gli risponde immediatamente: “In verità ti dico, oggi sarai con me in Paradiso”. Chi viene accolto con Cristo nella beatitudine eterna, in questa vita sta già bene, perché si prende cura della propria anima.

E Paolo dice ai Filippesi: “Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia con la mia vita, sia con la mia morte. Infatti, per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il continuare a vivere nella carne può essere fruttuoso per il mio lavoro, allora non saprei cosa scegliere. Sono stretto da due lati: ho il desiderio di essere sciolto dal corpo e di essere con Cristo, perché questo è di gran lunga il meglio; ma rimanere nella carne è più necessario per il vostro bene.” [2] Chi non comprenderebbe che tale convinzione porta con sé serenità? Si può cercare la morte in modo riprovevole e ci si può attaccare perversamente alla vita, ma questo è il vero spirito del cristianesimo.  

Quale è la posizione degli ebrei su questo argomento?  

L’ebraismo, sotto questo aspetto, è simile a una cipolla: se si cerca il nocciolo, alla fine non rimane nulla. Esternamente ha ricevuto un'enorme stratificazione, ma in origine non credeva affatto nella resurrezione. Questa credenza fu portata dai Farisei dall’esilio, influenzati dal Parsismo persiano; né Giobbe né l’Ecclesiaste ne parlano. L'autore del primo libro osserva che chi scende nella tomba non risale più e che la sua sorte è simile a quella della nube che svanisce. [3] “Non tornerà”, dice Davide parlando del figlio morto. [4] E Gesù Ben Sira esclama: “Nessun ritorno!” “Nessuno torna indietro”, insegna anche la saggezza alessandrina, [5] e il Qoelet afferma: “I morti non sanno nulla”. [6]  

I Sadducei, infatti, sostenevano che la credenza nella resurrezione non fosse ortodossa e che non potesse essere derivata dalla Torà. In effetti, era una credenza zoroastriana: Teopompo, contemporaneo di Aristotele, ci riferisce che i Persiani credevano in una rinascita dopo la morte. [7] Se quindi questo articolo di fede compare successivamente nel cristianesimo, è indirettamente derivato dai Persiani.  

Riguardo all’ebraismo, le Scritture non affermano che dopo la morte non resti nulla, ma dobbiamo considerare l'antico insegnamento ebraico, quello pre-farisaico di circa il 300 A.E.C., come fortemente influenzato dalla cultura babilonese, quasi una succursale di Babilonia o, meglio, una sua anticamera. Ciò non significa che fosse migliore o peggiore, e anche la cultura babilonese subì un’elevazione; tuttavia, proprio su questo punto la dottrina ebraica si babilonizzò: dopo la morte resterebbero delle ombre. A Babilonia, il mondo dei morti era semplicemente chiamato “la terra del non ritorno”, e le ombre vi abitavano. Dopotutto, chi può davvero immaginare l'annientamento assoluto? Nei sogni rivediamo i nostri defunti e possiamo interagire con loro; questo accade molto spesso. Pertanto, l’idea che un’ombra possa sopravvivere alla decomposizione del corpo è del tutto comprensibile. Ma dove andava questa ombra? Scendeva sotto terra, abitava sotto la superficie terrestre e non provava né pensava nulla. Questa era la credenza babilonese ed ebraica.  

Le Scritture non offrono alcun fondamento per le aspettative che gli ebrei vorrebbero condividere con i cristiani; potremmo dire che è stato il destino del cristianesimo quello di rimanere ancorato alla tarda dottrina ebraica della resurrezione. Se la concezione originaria fosse rimasta invariata, la situazione sarebbe forse diversa, ma così com’è, cristianesimo ed ebraismo falliscono insieme su questo punto.  

Eppure, nelle scritture della Sinagoga e della Chiesa vi è una differenza tra Daniele 12:2 e Matteo 25:32 da un lato, e 2 Maccabei 7:14 e Luca 14:14 dall’altro, dove i malvagi non risorgono e si parla solo della resurrezione dei giusti. Ad esempio, secondo le scritture clementine, le anime degli empi vengono punite con l'annientamento, e ancora Lattanzio, come abbiamo visto, insegna che l'immortalità non è una proprietà naturale dell'uomo, ma una ricompensa della virtù. Di fatto, secondo l'antica fede cristiana, solo Dio è immortale. [8] Dio è l'Essere, dice Filone, mentre tutte le creature sono, in quanto tali, τὰ μὴ ὄντα, ovvero il non-essere relativo, ciò che è mutevole e transitorio; [9] la speranza, tuttavia, è che ciò che è mortale possa rivestirsi di immortalità. Questo dono viene ricevuto nel battesimo (Romani 6:4, 8, 9) come grazia di Dio, che prima ha creato ma ora dona l’Essere. [10] E coloro che ne sono degni sono chiamati οἱ ὅντες, coloro che sono. [11] “Non è immortale, uomini greci”, scrisse Taziano intorno al 165, “l’anima in sé stessa; essa è mortale, ma è anche possibile che non muoia”. E il suo maestro Giustino aveva scritto: “Filosofare significa imparare a conoscere ciò che è, convincersi della verità, e la beatitudine è la ricompensa dell’amore per la conoscenza e la saggezza”. [12] Ciò fa pensare non solo all’osservazione successiva di San Tommaso d'Aquino, secondo cui l'essenza della beatitudine risiede nella realtà della conoscenza, ma anche a un'affermazione precedente di Crisippo, secondo cui solo i saggi sopravvivono dopo la morte. [13]

Tuttavia, tutti desiderano la beatitudine nell’aldilà; per questo si vorrebbe tanto rendere l'immortalità personale una realtà dimostrabile, come già si nota in Gregorio di Nissa. Egli riteneva che le parole divine della Sacra Scrittura assomigliassero a comandi, attraverso i quali la fede in una vita eterna dell’anima ci veniva imposta come un dovere: “Non siamo giunti a tale convinzione tramite argomentazioni, ma sembra quasi che il nostro spirito accetti il comandamento per timore interiore, in modo servile, senza aderire spontaneamente alle affermazioni stesse”. [14] Tommaso d’Aquino, tuttavia, sostiene che un desiderio naturale non può essere vano, sebbene ammetta che, se questa fosse la volontà di Dio, ogni cosa potrebbe essere annientata. Con ciò, si riconosce implicitamente che l’anima umana non può essere definita naturalmente immortale e che, in ultima analisi, la sua immortalità non è dimostrabile. [15] Ma chi desidera l’immortalità di un’esistenza individuale dopo la nascita, nonostante la morte – dunque, una vita che prosegue dopo la vita – desidera un piano senza il suo rovescio, l’ombra priva di corporeità, un inizio senza fine, l’infinità di una finitezza. Espressa in termini ecclesiastici, tale aspirazione è quella di resistere dinanzi a Dio, per essere testimoni, in tutta l’eternità, dell’opera dell’Infinito come entità finita. Ma il finito non è l’Assoluto; è solo tale in quanto è destinato a dissolversi e a diventare infinito. Il finito non è altro che questo: nel generale, tornare nell’accidentale; nella sostanza, ritornare all’universale. Così il finito scompare nell’Infinito, e la morte priva l’uomo di ciò che in lui è temporaneo e transitorio, cosicché la frase della Genesi: “Polvere sei e in polvere ritornerai” deve essere considerata come un’espressione del più crudo materialismo. In realtà, non è nemmeno un modo di parlare adeguato a una rivelazione.  

Un’anima senza corpo è un’idea concepibile ma priva di verità, così come un corpo senza anima; “nella sfera sensibile, in quanto tale, non c’è verità” (Hegel, Enciclopedia, § 76). L’uomo non è ciò che possiede, eppure possiede il suo corpo. Che cosa rimane, dunque, dopo la morte? Il nulla completo, un’infinità errata. La coscienza presuppone un corpo proprio e ne percepisce fin troppo chiaramente l’influenza naturale. Ma ciò che Platone afferma come verità è che la coscienza, in sé, è l’essenza e la vita divina della ragione; e quindi, la verità è che l’essere, che si incarna nella purezza dell’Io, in questa realtà idealizzata e in questa idealità realizzata, muore e allo stesso tempo non muore. “Dio”, in definitiva, conserva ciò che merita di essere conservato. La Ragione pura stessa, che è la Verità infinita, non si dissolve, ma rimane immutata in ogni cambiamento. La Verità è eterna, e ciò che è verità per l’Io non cessa di esistere con il corpo e con l’anima. Nell’ambito della pura razionalità, l’Io è esso stesso la verità, una particolarità determinata e singolare, ma che rimane comunque un’universalità infinita, una particolarità universale, la cui Idea non può perdere il suo valore. Nella sua razionalità, l’Io si eleva al di sopra della unilateralità della mortalità; essendo pensiero dell’Infinito, esso è al contempo l’Infinito stesso. Ecco perché, come ha detto Hegel, [16] non si deve immaginare l’“immortalità dell’anima” come qualcosa che si realizza solo in futuro: essa è una proprietà presente. Lo spirito è eterno, e dunque già presente; lo spirito, nella sua libertà, non è racchiuso nel cerchio della limitatezza. Per esso, come ente pensante e conoscente in purezza, l’oggetto è l’universale: questa è l’eternità, che non è semplice durata, come la permanenza delle montagne, ma è conoscenza.  

L’essenza dell’uomo è spirituale, e sebbene “l’indistruttibilità della nostra vera essenza attraverso la morte non equivalga a una sua continuazione dopo la morte” (Schopenhauer 2:99), è comunque riduttivo affermare semplicemente: “Polvere sei e in polvere ritornerai” Per il mercoledì delle Ceneri, la Chiesa cattolica romana invita i fedeli a presentarsi davanti all’altare per ricevere, accompagnato dalle parole “Cinis es et in cinerem reverteris”, un segno di croce sulla fronte con la cenere. Fin da bambino, Bolland si sentiva insoddisfatto di queste parole, percependo in esse un’umiliazione. E in effetti, dovremmo ricordare ciò che un autore cinico ha detto, ossia che un cadavere non è più un essere umano. Accanto alla celebre affermazione di Agostino “Deus et anima mea”, emerge nella predicazione un aspetto fondamentale: il fatto che i Greci intorno al 300 A.E.C. non consideravano più i cadaveri come esseri umani. Per Aristotele, l’anima era distinta dalla coscienza, [17] e, una volta scomparsa, era ritornata alla sua vera patria. [18] Ci si chiedeva da dove provenisse l’essenza immateriale dell’uomo. Ebbene, essa proveniva da dove realmente apparteneva: era giunta dal cielo per, se tutto fosse andato bene, farvi ritorno e diventare una stella, senza alcuna sofferenza o dolore.  

Questa antica fede, di radice orfica, risuona ancora in una delle più nobili strofe del grande poeta Wordsworth, la quinta della sua Intimations of Immortality from Recollections of Early Childhood:  

“La nostra nascita è solo un sonno e un oblio;  

L'anima che sorge con noi, la nostra stella della vita,  

Ha avuto altrove il suo tramonto,  

E viene da lontano:  

Non in un totale oblio,  

Non in assoluta nudità,  

Ma portando con sé nubi di gloria veniamo,  

Da Dio, che è la nostra casa”. [19]


NOTE AL CAPITOLO XVII.

[1] Kant, Opere, Hartenstein 7:516.

[2] Filippesi 1:21–24.

[3] Giobbe 7:9.

[4] 2 Samuele 12:23.

[5] Sapienza 2:25.

[6] Ecclesiaste 9:5.

[7] Cfr. sopra p. 77, nota 11.

[8] Giacomo 1:17 e 1 Timoteo 6:16.

[9] Filone, Sugli offerenti 9; 1 Corinzi 1:28; 1 Pietro 3:15; 1 Corinzi 15:53.

[10] Ireneo 3:20,2 e 2:34,2.

[11] Romani 1:7 ed Efesini 1:1 senza glosse. Cfr. Origene 1:116 Lomm. e inoltre Filone giudeo, che l’inferiore insidia al superiore 46, Plutarco, De E. 18–19, Epifanio, Haer. 42, p. 354, ecc.

[12] Taziano, Adversus Graecos 13, cf. Teofilo 2:27. – Giustino Martire, Dialogo 51.

[13] Tommaso, Summa Theologiae I-II, 3. – Diogene Laerzio 7:156–157.

[14] Gregorio di Nissa, Sull’anima e sulla resurrezione 183c.

[15] Summa Theologiae I:75,6; I:104,3. — Giovanni Duns Scoto: “Non si può provare che l’anima sia immortale” (In Sent. 2:27,1).

[16] Hegel, Opere 12², 268.

[17] Per primo qualcuno come Francesco Bacone intende talvolta con “spirit” “the human mind”; questi distingue, in De Augmentis 4:3, spiritus e anima, per fare del primo lo spirito umano nel nostro senso di coscienza; là dunque si chiama spiritus o spirito ciò che per gli antichi era detto νοῦς e “mens”. (Spedding I 607). Nella Chiesa Romana (Tommaso, Summa Theologiae I:76,3) la distinzione tra anima (umana) e coscienza era stata respinta.

[18] Espressioni simili non provengono dunque dal giudaismo.

[19] “È dio in noi e vi sono commerci con il cielo; da sedi eteree quel soffio è venuto”, Ovidio, Ars Amatoria 549–550. — “Questa è una caduta dell’anima”, Plotino 1:8,14. — Shakespeare: “Ora son morto, ora sono fuggito; la mia anima è nel cielo” — Platone: “Ritornato alla dimora della stella affine” (Timeo 42b). — Euripide: “Il corpo è morto, l’altro guarda” (Framm. 1002).

Nessun commento: