(segue da qui)
XII
Il Dio della fede ecclesiastica e il Deus philosophorum.
II.
In queste lezioni e dissertazioni bollandiste sulla religione, dobbiamo ovunque riconoscere la contraddizione, che è certamente insita in tutte le possibilità di pensiero, ma che qui emerge in modo particolarmente evidente, poiché si cela nella categoria. Abbiamo già riflettuto su come la religione si collochi tra l’arte, che non è ancora giunta alla verità, e la scienza e la filosofia, il cui scopo è precisamente la verità, con un senso di verità legato alla fede che in realtà desidera continuare a sentire riverenza. E ciò che è venerato non è mai ciò che è compreso, anche se possiamo apprezzarlo.
Abbiamo quindi considerato la vita religiosa come qualcosa di significativo e prezioso per l’uomo medio della società, qualcosa che egli non può perdere senza diventare inferiore, senza sprofondare, anche se ciò non accadrà a tutti. Tuttavia, ai nostri occhi, l’uomo comune ha perso la propria coscienza a causa della sua empietà. L’uomo è certamente destinato, attraverso i secoli, a rimanere malvagio e immorale—questi sono i nomi che alla fine devono essere dati all’egoismo, senza il quale, tuttavia, non saremmo nulla—ma, d’altra parte, noi esseri umani non siamo nulla nemmeno senza ideali. Tuttavia, questi ideali sono proprio possibilità di pensiero che, in un certo senso, si scontrano con la nostra realtà.
Ora, con la scomparsa di questi ideali, anche il tenue freno alla nostra malvagità fornito dalla Chiesa è venuto meno, e oggi vi è molto meno senso del dovere e buona fede rispetto ai tempi dei nostri nonni. L’interesse quotidiano ristretto veniva infatti periodicamente mitigato attraverso racconti che non dovevano essere presi alla lettera come verità, ma che permettevano un’espansione della mente. E quei pochi pii che ancora rimangono, sebbene parlino in un modo che può sembrare ridicolo da ascoltare, si sono comunque dimostrati ricettivi nei confronti del concetto di Dio, con tutte le sue possibilità di espansione dell’anima.
Nel Libro dei Proverbi, [1] Bolland ha scritto riguardo al concetto di Dio: “Come l’Infinito, che tuttavia deve essere qualcosa di più dell’Infinito, Dio è l’Infinito accolto nella rappresentazione finita, l'Illimitato per la ristrettezza mentale”. E così Dio, anche nella mente ristretta, è una ristrettezza relativamente espansiva. È facile liquidare questa idea come un’ostilità o fraintenderla come tale, ma non è questa l’intenzione. Ma quale altro nome dovrebbe avere, se il credente attribuisce a Dio ira e il castigo per i peccati? La maggior parte dei pii nutre una maggiore affinità per il Dio degli ebrei rispetto a Dio Padre, perché riescono a immedesimarsi meglio in lui. Trovano edificazione nell’intonare un salmo pieno di maledizioni sanguinarie. Tuttavia, il Dio della fede ecclesiastica è sempre espansivo, poiché la vendetta meschina si rivolge all’eterno. Tuttavia, chi concepisce Dio secondo la fede ecclesiastica non pensa semplicemente all’illimitato; desidera un Infinito contratto, una personalità o un’unità di naturalità, sentimentalità e spiritualità, non l’Infinito in quanto tale.
Il credente, al quale si presenta questo concetto, risponderà comunque con ciò che Bolland è stato più volte accusato di dire dai teologi: “La filosofia non può andare oltre l’Infinito; nel credere abbiamo l’Infinito personale.” Ed è allora un peccato dover applicare la critica razionale già menzionata: “Dio ha forse pudenda? Dio non è un uomo, e Dio non è una donna”. Anche se regolarmente si risponde che questo non è ciò che si intende, l’Infinito viene comunque chiamato Padre, il che, da un punto di vista antropologico, è proprio il punto nobile del cristianesimo. Ma qui non cerchiamo la verità in senso pedagogico e quindi Dio non è più Padre di quanto la Natura sia Madre. Il semitismo di Fenici, Babilonesi e Assiri, ossia la religione pre-asiatica, già secoli prima della nostra era aveva sentito il bisogno di assegnare a Dio, se pensato come maschile, una compagna non come concubina, ma come co-reggente. E Clemente Alessandrino ha scritto nel suo trattato sulla questione di quali santi siano salvati [2] che Dio Padre, nel suo amore, è divenuto femminile. Per molti anni della sua carriera accademica, Bolland ha saputo questo, senza comprenderlo. L’Eterno viene quindi sdoppiato nel concetto del maschile come iniziativa, decisione di generare, e del femminile come generazione stessa, che deve rimanere un parto per rendere l’Eterno una madre. Così si parla di Madre Natura, che tuttavia non è un Dio secondario, poiché Dio e natura sono la stessa cosa nel rapporto tra veglia e sonno, proprio come la nostra natura umana è l’aspetto della nostra realtà che appartiene all’azione inconsapevole.
La frase di Clemente significa quindi che non è sufficiente attribuire a Dio l’iniziativa; anche la generazione deve esservi inclusa. E da lui e lei, da Dio Padre e Madre Natura, dobbiamo ora arrivare a esso, che è ciò che intendiamo con l’impersonalità.
Bolland ha più volte parlato dell’assenza di scientificità nella filosofia; ha affermato che ciò che ancora si definisce scientifico è una filosofia erroneamente modesta o arrogante, che ancora crede di non dover essere altro che ciò che presuppone in sé stessa. Edmund Husserl a Gottinga, tra gli altri, ha ritenuto necessario separare rigorosamente la sua filosofia da quella delle concezioni del mondo. Ma la ragione pura è più della stretta scientificità e non può essere unilateralmente dettata dallo spirito del tempo. [3] A Groningen si è usato questo genere di affermazioni come argomento per dimostrare la non scientificità di Bolland; si è detto che egli stesso si sarebbe definito non scientifico. Eppure, per tutta la vita, il professore di Leida ha cercato di seguire la scienza, anche se non come specialista, almeno da lontano. E in questo ha compreso bene: la verità non è un oggetto della scienza. Perché la filosofia non è pura scienza, ma la supera.
Allo stesso modo, il Dio impersonale non è l’impersonalità che non appartiene alla vita, come quella di un ciottolo, ma l’impersonalità che trascende ogni personalità. Si può sempre chiedere nuovamente: “Può allora non avere coscienza?” La risposta deve essere che il regno delle possibilità di pensiero prive di significato è vasto. Si può nominare e in un certo senso pensare una coscienza universale; si può perfino crederci, e già Spinoza e Leibniz, seguendo Aristotele, sebbene in modi differenti, hanno ipostatizzato l’unità della conoscenza in Dio, come viene chiamata. Ma può esistere una coscienza universale? “Dio crea sé stesso e, tanto sicuramente quanto si crea, altrettanto certamente non è qualcosa di immediatamente pronto e dato fin dall’inizio,” ha osservato Schelling. Fechner, d’altra parte, parla di un principio comune, ma lo definisce “consapevole fin dall’inizio, ma non rivolto alla consapevolezza”; la consapevolezza del principio è quindi in fondo una consapevolezza senza riflessione, ovvero essenzialmente un’inconsapevolezza. Così anche Schelling ha parlato della coscienza originaria come di un pensiero libero e non consapevole, affermando in precedenza: “Questo eterno inconsapevole, per così dire il sole eterno nel regno degli spiriti, che si nasconde nel proprio inalterato splendore, è allo stesso tempo lo stesso per tutte le intelligenze.” Dio non è un Dio vivente. Una pietra non vive, un'ostrica o una cozza sì, e in questo senso è quindi più di tutte le pietre, più interessante dell’intero firmamento, come direbbe Hegel. Infatti, apparentemente, Hegel espresse disprezzo per il cielo stellato, paragonando le stelle sulla volta celeste a un'eruzione cutanea sull’uomo, il che suscitò molto scandalo. [4] Ma egli intendeva semplicemente dire che l’adorazione del cielo stellato, che agisce solo sul sentimento, era stata portata troppo oltre nel suo tempo sentimentale-romantico, in cui si disprezzava il pensiero umano. Più tardi, Nietzsche disse: “Finché penserete ancora le stelle come qualcosa al di sopra di voi, non avrete capito nulla”. In effetti: cosa è sopra e cosa è sotto? Dovremmo allora deridere le persone religiose per provare rispetto per le stelle, dicendo con Kant che solo due cose restano grandi e degne di rispetto: la legge morale dentro di noi e il cielo stellato sopra di noi? Solo se le stelle fossero spiriti stellari sarebbero degne di venerazione, ma chi parla di spiriti stellari dice sciocchezze. Esse sono innumerevoli. Tuttavia, questa innumerevolezza in milioni non impressionerà il filosofo; è, come l’infinità dell’infinito, la noia della sua stessa sublimità.
Naturalmente, questo è un modo di parlare forzato. Tuttavia, non bisogna lasciarsi influenzare dal numero nel valutare la categoria. L’innumerevolezza delle stelle non è la vera infinità che ci eleva e ci sublima; non suscita una vera esaltazione interiore al loro cospetto. L’essere vivente, in quanto tale, supera il firmamento stellato. Ma voler onorare Dio definendolo vivente significa vincolare lo Spirito alla Natura. Certo, l’eterno può esprimersi attraverso le nostre fugacità in altre fugacità, ma Dio trascende ogni fugacità. Per questo, la concezione della morte avvicina più a Dio che quella della vita. Nella morte troviamo Dio, e in Dio la morte: l’autoannullamento dell’infinità è la realtà dell’infinità. Perciò il filosofo non teme la morte. Essere morti non è nulla, e morire non è più terribile che addormentarsi, anche se nella vita stessa le malattie possono essere spaventose: morire significa diventare inconsapevoli, perdere la coscienza, o meglio, perdersi nell’inconscio, il che significa che nessuno sente o è consapevole di nulla nel momento della morte. Per quanto terribili possano essere la fame e la sete, nessuno è mai morto di fame o di sete in piena coscienza. E a ragione Feuerbach ha osservato nelle sue Lezioni sull’essenza della religione che molti desideri umani vengono fraintesi, se si crede che vogliano essere realizzati. Essi vogliono solo rimanere desideri, hanno valore solo nell’immaginazione; la loro realizzazione sarebbe per l’uomo la più amara delle delusioni. Un tale desiderio è anche il desiderio della vita eterna: se fosse esaudito, gli uomini ne sarebbero presto stanchi e anelerebbero alla morte. In verità, l’uomo desidera solo evitare una morte prematura, violenta e terribile. “Ogni cosa ha la sua misura”, dice un filosofo pagano. Alla fine, ci si stanca di tutto, persino della vita, e quindi l’uomo alla fine desidera la morte. La morte normale, naturale, quella dell’uomo che ha vissuto pienamente, non ha nulla di spaventoso; anzi, gli anziani spesso la desiderano. Il filosofo tedesco Kant non riusciva a trattenere l’impazienza di morire, tanto la desiderava, non per tornare in vita, ma per giungere alla fine.
Tuttavia, il timore della morte è l’inizio della filosofia; chi non ha mai temuto la morte non arriva alla saggezza, così come chi non riesce a superare questa paura. Perché la saggezza comprende il fatto che la morte non esiste, ma, al tempo stesso, essa si impone come l’unità in cui la molteplicità della vita scompare costantemente. [5] Tutto ciò che vive, in quanto tale, porta già la morte in sé. “La concezione corretta”, ha detto Hegel, “è che la vita, in quanto tale, porta in sé il germe della morte e, in generale, che il finito è in contraddizione con se stesso e quindi si annulla”. [6] E Bolland ha detto: “La notte della morte è l’alba dello spirito; l’annullamento della vita naturale presupposta è, nello spirito, una realtà.” Con parole simili possiamo edificare, che le si comprenda o meno. Tuttavia, la mentalità ristretta non accetta che ciò debba sostituire ciò che la critica della ragione ha demolito. E bisogna capire che il concetto di queste cose non diventerà mai patrimonio comune, anche se predicato dai tetti.
Così, la personalità di Dio, che Pio X ha enfatizzato in contrasto con le affermazioni di Tommaso d’Aquino e con la dottrina della Chiesa, la quale riconosce Dio come un’unica essenza e trino nelle persone (una pluralità di persone nell’unità dell’essenza, che fa sì che l’unità dello Spirito, in quanto Dio, trascenda la personalità), corrisponde, come abbiamo visto, a ciò che il credente desidera per l’immaginazione (metafora): il rapporto tra un “io” qui e un “Tu” là. Questo è il segreto del bisogno della personalità divina, della richiesta ristretta di un risarcimento per le sofferenze terrene.
Possa essere dunque compreso:
1°. La distinzione tra verità e valore, al di là della verità letterale, per cui la religione deve essere considerata come una categoria di transizione tra arte e scienza, in modo che ci si trovi a dover chiamare nero il bianco e bianco il nero, e lodare ciò che dovremmo condannare e condannare ciò che invece dovremmo lodare. Hegel ha detto che la religione è la verità per tutti gli uomini. Ma anche se avesse detto più correttamente “la vera dottrina per tutti gli uomini”, la sua affermazione sarebbe comunque rimasta imprecisa. Perché, innanzitutto, per lo stesso Hegel la religione non era la verità. Sul filosofo grava l’oneroso dovere di difendere la verità e di esprimerla nel modo più puro possibile. Tuttavia, l’uomo comune non viene aiutato né dalle negazioni né dalla verità: ha bisogno di autorità per quanto riguarda gli articoli di fede, tanto che già Clemente Alessandrino poteva dire: “Come i bambini temono l’uomo nero, così la folla (dei credenti) teme la filosofia, temendo che essa li porti via con sé”. [7]
2°. Che la concezione di Dio rappresenti una forma relativamente più ampia di ristrettezza per l’uomo comune, il quale altrimenti si limita a mangiare, bere, riposare e divertirsi, come dimostrano le attuali agitazioni per il salario. Anche i cristiani ne sono stati influenzati, ma se possiamo ancora aspettarci qualche fedeltà, è tra i riformati.
Così la pura ragione si esprime sulla religione attraverso l’autocontraddizione, come è sempre richiesto per mantenere l’ordine del progresso lungo tutto il cerchio del concetto. Dobbiamo sospettare di tutto nella riflessione: non è forse meno soddisfacente di quanto inizialmente sembrava? [8] Poiché il vero si contraddice e il reale si oppone a se stesso; concordia discors è ogni verità e realtà. [9] L’autocontraddizione della Ragione è la manna nel deserto dell’intelletto, proveniente dal cielo della divina saggezza stessa, che conferma il fatto che la verità non è unilaterale, né bilaterale, ma universale.
Tuttavia, se la limitatezza umana pensa il meglio che può pensare, allora pensa lo spirito divino. E chi di noi [10] è senza limitatezza? Così, non possiamo fare a meno del concetto di Dio.
Lo spirito è il vero. Dio è spirito e lo spirito è la verità, l’unità di tutti gli opposti naturali e innaturali. Se concepiamo questa unità come causalità infinita, allora Dio diventa per noi la causa del bene e… del male, e il detto di Schelling diventa comprensibile: “Affinché il male non esista, Dio stesso non dovrebbe esistere”. [11]
Ma se non concepiamo questa unità come causa, bensì come fine, in cui tutto è destinato a dissolversi, allora pensiamo a Dio come pace, soluzione di ogni discordia e conflitto. Così il grande tedesco H. Schell, considerato l’apologeta con cui la Chiesa cattolica romana poteva presentarsi più dignitosamente nel 19° secolo, scrisse nel 1895 nel suo libro Dio e Spirito: “Dio è la soluzione vittoriosa di ogni opposizione”. E in effetti, a questo si giunge, se almeno vi applichiamo questa etichetta. In realtà, si giunge alla pace di Dio, che supera ogni comprensione, la soluzione di ogni odio e lotta, perché le fugacità si dissolvono nell’eterno.
Ma Schell ha nascosto l’altro lato della questione. I religiosi, infatti, non possono mai ammettere ciò che anche i più riflessivi tra loro (in generale più i riformati che i cattolici) trovano problematico tanto quanto noi: la provvidenza assoluta di Dio o la predestinazione. Essi non ammettono che Dio abbia il diavolo dentro di sé. Eppure entrambe le cose sono ugualmente pensabili: lo spirito buono e quello malvagio si equivalgono. Si ritiene di poter dividere il tutto in due metà, negandone però una.
Già all’inizio della nostra era ci si chiedeva: Unde malum? Questa era la domanda che tormentava allora gli animi inclini al misticismo. Essi erano angosciati dalla questione fondamentale τίς ρίζα κακῶν, quae sit malorum radix, ovvero l’interrogativo sull’origine del male, che già Euripide, a suo modo, aveva posto. [12] Questa domanda ricompare come questione di principio nella teosofia in via di cristianizzazione, [13] sebbene non venga più posta da chi ha una comprensione più profonda della realtà. Poiché si potrebbe altrettanto bene domandare da dove provenga il polo opposto del magnetismo; e in un certo senso è ancora più enigmatico chiedersi da dove provenga il bene in questo mondo di malvagità. Tuttavia, secondo il modo di pensare razionale, non si potrà mai dare una risposta definitiva: nel bene è sempre implicito il suo opposto, così come ogni determinazione include il contrario della sua negazione. [14] Il bene e il male sono opposizioni che emergono dalla polarizzazione dell’unità della realtà, intese rispettivamente come desiderabilità e indesiderabilità, come bene e male, ma nello spirito si rivelano essere un’unità di opposti. Non possiamo quindi semplicemente accumulare il bene da una parte e il male dall’altra per poi eliminare quest’ultimo; il bene rimane esso stesso il male e viceversa, già da subito, per persone diverse. Non esiste male senza bene, né bene senza male. Già nell’antichità, Timone sosteneva (Sextus adv. Matth. 11:140) che non esiste né bene né male, ma che è solo il giudizio umano a stabilire questa distinzione, mentre le Omelie Clementine (19,18) affermano: “Il male non è male e il bene non è bene; l’uno produce l’altro”. [15]
Tuttavia, la domanda sull'origine del male può essere considerata la radice stessa del cristianesimo, poiché portò gli ebrei alessandrini, teosofici o gnostici, a una relativa rinuncia al Dio ebraico. Nell'Antico Testamento la bontà assoluta non compare; Dio è adirato ogni giorno. E se egli disse: “Io sono colui che sono, e fuori di me non c'è nulla”, gli ebrei gnostici risposero: “Egli non è sapiente, perché non ha conosciuto il Padre”. Ippolito ci informa che i basilidiani dicevano: “Il grande sovrano ha creduto di essere l’unico Dio e che al di sopra di lui non ci fosse nulla; ecco il segreto che alle generazioni precedenti non era stato rivelato”. [16] E nel 2° secolo della nostra era il Dio degli ebrei è stato talvolta chiamato un Dio maledetto. [17]
Infatti, quegli ebrei alessandrini avevano appreso dai filosofi greci che l’essere supremo doveva essere buono. Come vice-deus, il Signore aveva creato molte cose, ma non era buono, e perciò non poteva essere il vero Dio. Si presupponeva un principio buono, anche se una mente lucida avrebbe trovato molto più naturale pensare che il male, la crudeltà, la malvagità e il fraintendimento regnassero ovunque e sempre, e avrebbe potuto chiedersi con uguale validità: da dove proviene il bene in un mondo in cui vivere significa uccidere?
Eppure, questa è la verità: così come esiste l'impersonalità di Dio, esiste anche una mascolinità e femminilità impersonale in Dio, che rimane neutrale anche rispetto al bene e al male. In questa luce dobbiamo interpretare l’affermazione di Calvino secondo cui la cosa migliore che possiamo fare, al di fuori della redenzione in Cristo Gesù, è comunque peccato davanti a Dio.
Ma da dove viene allora la peccaminosità dell’uomo? Esiste perché siamo stati creati così, e Dio si trasforma in diabolicità in questo mondo. Poiché l’intero mondo giace nel male, dobbiamo chiederci da dove esso provenga. Così Dio finisce per essere ricondotto al male, anche se lo Spirito infinito trascende il bene e il male. Perché né Dio né lo Spirito possono essere catturati in una definizione separata.
Bolland ha detto a uno dei più celebri giuristi di Leida che il più grande crimine della parte dell’Intesa era stato ordito come un complotto di mediocrità contro il cuore dell’Europa. Gli fu risposto che allora aveva un senso del diritto errato. “Collega”, replicò Bolland, “finché si crede ancora nella giustizia, non si è ancora giunti alla verità”. Perché anche la giustizia può essere demolita con il ragionamento, poiché lo spirito della società non può essere racchiuso in una definizione, né separato in un compartimento stagno.
Può sembrare blasfemo ad alcuni, ma: Dio non è tutto, il diavolo partecipa anch’egli. Lo spirito buono di questo mondo non è privo di malvagità. E viceversa! Qui pensiamo Dio come l'unità delle cause, e quindi dobbiamo accostare a quanto citato da Schell la frase di Vittorino, il quale fornì una traduzione di Plotino letta da Agostino: “Dio deve essere trovato anche come origine dei contrari” (contrariorum etiam origo Deus debuit inveniri). E la parola Dio ha significato come nome dell’essere spirituale che si manifesta nella natura. Ma non dobbiamo divinizzare questa natura; essa non è divina, bensì demoniaca. Se la Natura proviene da Dio, allora appartiene anche al Diavolo. [18] Lo spirito di questo mondo è uno spirito di malvagità. Dio si è abbandonato al mondo, e tuttavia rimane l’unità invisibile verso cui gravitano gli spiriti, il centro di gravità dello spirito, l’Io infinito, la coscienza totale, che tuttavia non è presente. Il centro di gravità dello spirito! Nietzsche parlò dello spirito della gravità, intendendo con ciò la convivialità. E in effetti, più si frequenta club e società, più si discende e si viene trascinati verso il basso. Ma Nietzsche avrebbe anche dovuto riflettere sul fatto che i migliori tra noi non potrebbero esistere senza la società. Essa spiritualizza la nostra animalità, anche se al contempo ostacola la spiritualizzazione, e per questo deve arrivare il momento in cui l’uomo si distacca gradualmente dalla società; alla lunga, deve rinunciarvi. “Tout notre mal vient de ne pouvoir être seul”, disse La Bruyère. [19] E infine, secondo Schopenhauer, si arriva a capire che, “salvo rari casi fortunati, non si incontreranno altro che esemplari molto difettosi della natura umana, che è meglio non toccare”. [20] Chi rimane legato alla convivialità è probabilmente intellettualmente inferiore, nella misura in cui non si eleva al di sopra dei suoi simili, che Nietzsche altrove definì animali da gregge. Dunque, lo spirito della gravità, lo spirito della convivialità, è una metafora per la gravità umana intesa spiritualmente.
Si è pensato quanto segue riguardo a un sole centrale: da Copernico in poi si è creduto che il sole fosse fermo e la terra girasse intorno ad esso. Ma ben presto si giunse a concepire ciò che la ragione pura poteva già anticipare: la posizione del sole non è fissa, e per l’immaginazione questo significava che anch’esso si muoveva. Il che è perfettamente plausibile. Poiché la gravitazione era un concetto noto, si supponeva che anche il sole dovesse gravitare, e così si iniziò a cercare in cielo il sole che doveva essere il sole del sole. È interessante notare come l’astronomia, senza abolire la gravità, abbia capito che anche questa stella centrale doveva gravitare, sebbene ciò potesse avvenire anche rispetto a un punto centrale incorporeo. Così si arrivò all’idea di un punto celeste verso cui tutto gravita. Si credeva veramente in esso? È una supposizione relativamente indispensabile, un punto centrale senza realtà.
E allora, con questo stesso pensiero, chiamiamo ancora una volta Dio l’unità invisibile verso cui gravitano gli spiriti, il centro di gravità dello spirito! E ricordiamo: La religion est la poésie du civisme; essa eleva la società alla luce dell’eternità. Anche se alcuni la considerano una questione privata, in realtà essa è intensamente sociale. Oltre la società, dobbiamo ancora ritrovarci nello spirito per una convivialità umana alla luce dell’eternità.
Dio non è un punto, così come l’Io non è il nulla perfetto della soggettività, proprio come il punto è il nulla perfetto dell’oggettività. L’Io è dunque un punto? L’Io, nella sua nullità, fa pensare al punto nello spazio ed è di nuovo un’inevitabile possibilità di pensiero, senza che si debba credere nella sua esistenza. E se l’Io viene concepito come punto o come nulla, allora Dio diventa l’infinito delle nostre nullità, che non può essere cercato nello spazio. Dove, allora? Dio non è presente; possiamo accettare la realtà divina nel concetto, senza credere nella sua esistenza.
E se si nega alla teologia il nome di scienza perché, si dice, Dio non esiste, allora dobbiamo chiedere cosa si intenda con la parola Natura. Perché Dio e Natura si rapportano come il giorno e la notte, come l’uomo e la donna, come il vero e il falso.
Per questo, credere in una coscienza onnipervasiva è un fraintendimento. Vi sono filosofi che sorridono della fede religiosa, mentre a loro volta credono in una coscienza universale. [21] Ma la coscienza deve riflettersi su sé stessa, il che significa che l’inconscio non può essere abolito. Tutto diventa comprensibile attraverso i contrasti, e la vera realtà si rovescia costantemente, prima di tutto come vera e operante divinità.
NOTE AL CAPITOLO XII.
[1] I Libri dei Proverbi II: 283. Inoltre II: 880, 295, 881, 309, 274, 275.
[2] Quis dives salvetur 37. “Orfeo pensava che Dio fosse insieme maschio e femmina, poiché non avrebbe potuto generare altrimenti, se non avesse avuto la forza di entrambi i sessi: quasi che o si fosse congiunto con se stesso, o non avesse potuto procreare senza unione sessuale. Ma anche Ermete (l’Alessandrino) fu della stessa opinione, quando lo chiamò αὐτοπάτορα καὶ αὐτομάτορα [=“padre di sé stesso e madre di sé stesso”]... Trismegisto, che quasi tutta la verità non si sa come abbia investigato”. Lattanzio, Divinae Institutiones 4:8.9.
[3] Spreuken, p. 244. 224.
[4] Cfr. ad es. la Lettera aperta al Prof. G. J. P. J. Bolland di Dr. G. Jelgersma, Leida 1906, p. 42. E inoltre la Risposta al Prof. Jelgersma di Dr. J. M. Fraenkel.
[5] “La vita è così strettamente unita alla morte, che non si possono disgiungere, scartare l’una e trattenere l’altra; per chi contempla dall’alto l’insieme delle cose, la vita e la morte si confondono.” L. Bourdeau, Le problème de la mort³, p. 212.
[6] Hegel, Enciclopedia §81, aggiunta 1.
[7] Clemente Alessandrino, Stromati VI, 665 Sylb.
[8] Spreuken, pp. 45 e 140.
[9] Ibid. I:140 con nota.
[10] Non un pluralis majestatis, ma un pluralis humilitatis. Non si afferma nulla, si... domanda soltanto.
[11] Schelling, Werke I, 7:403.
[12] Clemente Alessandrino, Stromati 5:71.
[13] Epifanio 24:6.
[14] Crisippo presso Plutarco sulle contraddizioni degli stoici 35 e Lattanzio sull’ira di Dio 13.
[15] Tuttavia si potrebbe rispondere: il male nasce dalla divisione della nostra realtà. E poiché nulla sussiste senza autoconservazione, dobbiamo pensare subito anche a questa, e troviamo così come radice del male l’autoconservazione della divisione nella pulsione sessuale. Così il fondamento sessuale è una spinta diabolica a perpetuare la perversione, sebbene già subito come fiore dell’amore naturale si osservi la reciproca relazione dell’egoismo. La pulsione sessuale è quindi da un lato il culmine della naturalità della malvagità, dall’altro il punto di partenza per il più nobile misticismo della naturalità, cioè una disposizione affettiva che sogna un’unione capace di illuminare la molteplicità.
[16] Ippolito 7:25.
[17] Origene contro Celso 6, 27.
[18] “L’amicizia con il mondo è inimicizia contro Dio.” Giacomo 4:4. “Non amate il mondo né ciò che è nel mondo; se qualcuno ama il mondo, in lui non è l’amore del Padre”, 1 Giovanni 2:15. “Il mondo giace tutto nel maligno”, 1 Giovanni 5:19. — “Il demonio è Dio rovesciato, il diavolo è l’ombra di Dio, afferma il principio cabbalistico universale.” H. P. B., Isis Unveiled I:560.
[19] Caractères, Chapitre de l’homme, Parigi 1880, p. 259.
[20] Schopenhauer, ed. Deussen, IV, 474.
[21] Così il Prof. Heymans, che considera i corpi celesti come esseri coscienti. Einführung in die Metaphysik³, pp. 330–333.
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