lunedì 22 settembre 2025

Gerard Bolland: FILOSOFIA DELLA RELIGIONE — La religione nello spirito del superiore

 (segue da qui)


X.

La religione nello spirito del superiore. [1]

Ne Il Libro dei Proverbi, il professor Bolland ha osservato in 1:903 che il senso artistico non è tutto; esso è una superficialità universale, dice, mentre la religiosità è invece un approfondimento, un approfondimento unilaterale — verso “l'alto”.  

In effetti, il senso artistico rimane nella superficialità, anche se l'arte stessa, ai nostri giorni, è fortemente impregnata di erudizione. Ciò non toglie che si possano riconoscere diversi gradi di profondità anche nel sentimento estetico. Tuttavia, le osservazioni più istruttive possono essere ragionate in modo puramente intellettuale, e per cominciare, è piuttosto ovvio che nell'arte si possa fare esperienza di una certa profondità.  

Ma nel detto citato, ci troviamo a riflettere su questo concetto in rapporto ad altro che deve seguire. L'intenzione non è quindi quella di affermare che un amante dell’arte sia necessariamente una persona superficiale. Poiché nell’uomo non è incarnata una sola idea — in questo caso, l’idea della bellezza — e, d'altra parte, l'Idea nella sua pienezza non è così impotente da non potersi manifestare ovunque e in ogni cosa: ciò che si ha da dire nella dottrina della saggezza, apparirà ovunque.  

Non si tratta dunque di qualificare gli amanti dell’arte, ma di stabilire categorie, rubriche del pensiero, e allora possiamo dire che l’arte, in confronto alla religione, è una superficialità molteplice. Questo non significa che l’artista debba considerarsi inferiore rispetto alla ristrettezza dei religiosi, ma sebbene nell’arte si possa pensare a una relativa universalità, essa non si occupa della verità.  

Dal punto di vista estetico, infatti, la verità non è una questione rilevante. E un’immagine, un dipinto, cosa dicono di sé? Tutte le arti sono mute, eccetto la poesia. La musica forse un po’ meno, ma cosa può offrire a chi cerca un contenuto per la propria vita? È muta e armoniosa, pur non essendo più silenziosa come le altre arti. L’arte trova voce solo nella poesia, e già qui si può pensare alla verità; basti pensare alla cosiddetta poesia sublime su Dio e simili componimenti! Eppure, per il poeta, la questione primaria resta… la bellezza. E proprio per questa bellezza possiamo provare molto per la poesia, anche se raramente ci capita di vedere un’opera perfettamente rifinita in ogni suo aspetto. Ma anche ponendo i nostri standard molto in alto, cos’altro otteniamo, oltre a una piacevole sonorità, che resta sempre inferiore rispetto a ciò che ha valore per l’uomo filosofico?  

L’arte, nella sua forma migliore, appaga i sensi attraverso la visione o l’ascolto, e per quanto essa contenga un elemento essenziale per la vita, non può essere il più alto, poiché non si interroga sulla verità, nemmeno quando un problema filosofico può essere trattato in poesia. In casi del genere, il filosofo potrebbe ancora sorridere e chiedersi: Cosa c’è veramente dentro?

L’uomo è qualcosa di più dell’amore per l’arte. Ciò non implica disapprovazione, sebbene ciò che è solo una parte e si gonfia fino a diventare un fattore di vita, un oggetto di venerazione incondizionata, debba essere respinto. In questa generalità superficiale e priva di profondità (senza considerare tutto lo studio necessario, per esempio, agli studiosi di musica) c'è qualcosa di più. Certamente, l’arte nobilita a seconda del suo grado di elevazione, il che rende già di per sé i veri conoscitori d’arte rari, mentre migliaia e migliaia di persone, sia colte che incolte, vi si accostano semplicemente perché non devono affaticarsi mentalmente. Tuttavia, pur essendo un fattore di elevazione nella vita, l’arte non trasforma l’essere interiore, non converte. L’uomo non convertito è colui che non è giunto a una seria comprensione spirituale della vita. Per questo la cattiva reputazione morale degli artisti, in generale, non è priva di fondamento e non sorprende affatto il filosofo. Anche se il vero filosofo non si definirebbe mai un santo, comprende comunque che la santificazione, intesa come purificazione, ha il suo ruolo, laddove il senso artistico rimane indifferente. Naturalmente, questo non significa che il senso artistico debba essere considerato immorale; tuttavia, esso corre costantemente il rischio di cadere nell’immoralità. “L’arte rifugge dall’enfasi, dalla nobiltà artificiosa e retorica, dichiarando prima di tutto: 'Restiamo naturali!'”  

Questo comporta il pericolo di scivolare rapidamente nella volgarità. Si teme di illuminare l’arte con una luce superiore e così non è un caso che, già nella classificazione degli artisti, si pensi a una visione della vita poco solida. Questo dato di fatto non viene minimamente smentito dalle obiezioni secondo cui uomini come Tennyson sarebbero stati esempi di rettitudine.  

Dunque: il senso artistico non ha a che fare con la moralità, pur non essendo per questo immorale, ma nel suo naturalismo rischia facilmente di scendere in basso.  

Per i nostri nonni, tuttavia, che non erano così eruditi, l’arte era ancora accompagnata dalla religione, la quale forniva la profondità. Infatti, è proprio nell’uomo medio che questa profondità si sviluppa quando viene colpito da un raggio di vera religiosità, quando si converte.  

Bisogna comprendere che la verità, non essendo legata a una data, non viene intaccata dal tempo e può essere vissuta persino attraverso illusioni. Essa è un concetto di relazione e, come centro di tutto, è anche il centro delle dottrine erronee. È per questo che persino una teoria scientifica non è mai la verità assoluta e una teoria ormai superata aveva comunque un suo valore da un certo punto di vista.  

Allo stesso modo, nella religione—anche quando non possiamo più credervi—si può comprendere la verità attraverso le illusioni. Il professor Bolland ha spesso notato, nei suoi dialoghi con semplici riformati, nei quali assumeva in un certo senso una maschera, quanta profondità d’animo e quanta razionalità possa generare una mente religiosa che si converte alla luce dell’eternità.  

La religione è dunque relativamente profonda perché favorisce una visione seria della vita. L’animo spensierato potrà forse attraversare la vita con più leggerezza, ma rimane più lontano dalla verità. “La cosa più incomprensibile di noi è l’allegria”, diceva Nietzsche, [2] che nemmeno voleva essere considerato un pessimista. Se pensiamo alla sofferenza, alla malattia, al dolore e alla follia, all’ingiustizia, alla malvagità e all’immoralità, alla bruttezza, alla volgarità e al ridicolo, al diabolico, al peccato e alla menzogna, alla stupidità, alla disonestà e alla follia che riempiono e continueranno a riempire il nostro mondo, comprendiamo perché già Platone potesse dire: “Molti, dopo aver conosciuto la vita, affermano che l’umanità non sarà mai felice”. [3]  

H. Lorm canta: [4]

“Ovunque lo sguardo si spinge,  

vi sono colpa e sofferenza,  

e ciò che porta il tempo  

è fuga e separazione;  

in mezzo, il sogno  

di felicità e amore  

trova solo tanto spazio  

da dissolversi nel nulla”.  

E Hegel ha compreso che il negativo, la contraddizione, il conflitto appartengono alla natura dello spirito; in questo conflitto risiede la possibilità del dolore, che dunque non viene dall'esterno, [5] ma è intrinseco allo spirito stesso. La profondità della sofferenza è… un momento eterno dello spirito, ha detto il grande uomo. [6 

Anche se non potremmo attraversare la vita senza follie e sciocchezze, e anche se, per dirla con Democrito, una vita senza feste sarebbe come un viaggio senza soste, nell’atteggiamento serio risiede un grande valore. E questo valore viene introdotto dalla religione attraverso la profondità unilaterale; la religione, tuttavia, non è tutto, perché ci rende di mentalità ristretta. Un uomo religioso, infatti, difficilmente comprenderà che si può fare esperienza del divino anche al di fuori della chiesa, ed è per questo che crede di dover rimanere nella sua religione.  

Solo qui si inizia a cercare la verità, ma una verità da cui si vuole trarre vantaggio, proprio come accade nella filosofia indiana, che resta sempre soteriologica e per questo non può essere chiamata filosofia. Questa è la grande differenza tra la religiosità del filosofo e quella del credente, ed è anche il motivo per cui la religione si regge o cade con la fede nella vita dopo la morte. È l’egoismo che spinge il credente nella chiesa: egli vi entra per speranza e paura egoistiche, e solo successivamente viene sviluppato un senso più elevato che deve dare coerenza alla dottrina. Rispetto all’amore puro per la verità, qui si vogliono ascoltare verità piacevoli, ed è per questo che si dice: Dic nobis placentia (“Dicci ciò che ci è gradito”). E non è forse vero che anche il più pio tra i pii desidera un bel posticino in paradiso?

L’uomo vuole ricevere, come risposta alle domande filosofiche, la conferma che continuerà a esistere come individuo. E coloro che insistono maggiormente su questo punto sono proprio quelli che meno lo meritano. “Non si può spingere l’immodestia più in là”, osserva di nuovo Nietzsche. [7

E H. Leuthold ha ritenuto che “la più grande immodestia sia la fede nell'immortalità, la pretesa che la natura debba conservare per l’eternità questa misera creatura umana, anche nei suoi esemplari più mal riusciti”. In effetti! Per quanto possa sembrare pia, la fede nella permanenza della personalità è in realtà presuntuosa: l’uomo non è un fine ultimo, ed è arrogante non voler essere, per Dio, altro che un mezzo transitorio.  

La religione si esprime attraverso l’immaginazione, attraverso rappresentazioni cariche di sentimento, e se si rinuncia a questa immaginazione, persino nelle parole più emozionanti, allora non si è più religiosi né teosofici. Perché anche la teosofia, come filosofia bastarda, conserva il bisogno di consolazione. E per quanto sia vero che tutti, di tanto in tanto, necessitiamo di conforto, il filosofo, in quanto tale, vuole la verità, nient’altro che la verità, anche se essa è schiacciante.  

Ma il religioso non riesce a separarsi dalla rappresentazione immaginativa. Ciò si manifesta chiaramente nella consapevolezza della nullità delle cose terrene, che ci fa dire, a volte: “Qui in basso non è il luogo”, a cui il religioso aggiunge: “Guarda in alto, innalza il cuore!”. Ma cosa è “in alto” e cosa “in basso”? A Roma si comprese molto presto che, se la teoria copernicana fosse diventata di dominio pubblico, avrebbe significato la fine della religione. Per il cosmografo, in alto significa... in nessun luogo. Tuttavia, continuiamo a parlare, come uomini religiosi, della patria celeste sopra le nuvole, e sentiamo il bisogno di elevarci letteralmente verso l’alto, senza per questo pensare nulla alla maniera dei discepoli di Giamblico. Le meditazioni che questi compiva in solitudine, secondo Eunapio, [8] diedero origine alla voce che durante le sue riflessioni levitasse sopra la terra, circondato da un alone di luce. Ma quando i suoi discepoli gli chiesero spiegazioni, egli... li derise per la loro credulità.  

Ciò non toglie che la fede nella levitazione sia sopravvissuta fino ai giorni nostri, non solo tra i teosofi blavatskiani, ma perfino nella Chiesa cattolica. Il breviario romano, nella sua redazione neoplatonica posteriore al 1500, riporta il 26 maggio che san Filippo Neri (1515-1595), quando celebrava la messa o pregava con particolare fervore, si sollevava in aria, circondato da una luce miracolosa. Qualcosa di simile viene raccontato anche su san Tommaso d'Aquino.  [9]

Così la religione è ancorata all’immaginazione ed è, per questo, relativamente priva di riflessione, anche se esiste una forma di immaginazione educata, come in matematica. Ma chi comprende la propria immaginazione, ha già superato la propria fede in essa. Tuttavia, la religione non può esistere senza fede: non rivela una verità compresa, bensì esige credenza e ha bisogno di rivelazione.  

E questa rivelazione, in fondo, è necessaria a tutti, nella misura in cui contiene insegnamenti che, con la sola forza del pensiero, non avremmo potuto concepire. Ma può anche esserci un eccesso di rivelazione, come avviene ai nostri giorni, in cui l’umanità diventa sempre più malata a causa di essa.  

La coscienza filosofica, invece, non cerca rivelazioni da ammirare e venerare; essa tenta di comprendere ciò che viene udito in modo inatteso. Ma il religioso vuole credere senza studiare, per giungere poi a una fede intoccabile, che necessita di fiducia assoluta.  

In sintesi, si può dire che la profondità si manifesta inizialmente nella religione come un'angusta forma di egoismo, che chiede alla verità cosa aspettarsi e sperare. In questo senso, essa non realizza il più autentico spirito di ricerca della verità umana, che può essere molto sentito, ma mai completamente sincero.  

Perciò l’uomo religioso è l’essere più spirituale, che nella sua immaginazione si eleva al di sopra del visibile; nella misura in cui è autentico, è al di sopra della mera naturalità. Chi mangia la sua bistecca e beve il suo bicchiere di vino non è un vero religioso. E il professor Bolland, pur non predicando l’ascesi, guardava con tristezza al fatto che persino i riformati non rinunciassero più alle cose inferiori per documentare la loro purezza interiore: le donne vanno in chiesa vestite con la stessa sfrontatezza che si vede altrove. E l’originaria rinuncia ascetica alessandrina, che già intorno al 150 si comprendeva non potesse conquistare l’umanità, è diventata ridicola nella Chiesa cattolica: il venerdì non si può mangiare carne, ma si può mangiare salmone fresco! La Chiesa ha cercato di preservare gli ideali con compromessi, ma nella realtà concreta non ne è rimasto nulla: anche lì, come altrove, si chiede di “godere”.  

Eppure, secondo ripetute testimonianze, il professor Bolland non riusciva mai a pronunciare le parole “piacere” e “felicità” senza timore. Non perché fosse incapace di provare ciò che, in silenzio, avrebbe dovuto chiamare piacere, ma perché il saggio deve portare nel suo pensiero tutta la miseria del mondo, dove la vita è assassinio come sua inevitabile conseguenza. La parola “piacere” gli suonava come una maledizione, perché solo chi è privo di coscienza può godere in un mondo come questo. Ecco perché nel libro dei Proverbi si dice che solo gambe forti possono sostenere la saggezza. Ma qualcosa di superiore scende comunque sull’uomo nella sua semplicità e relativa innocenza, nella misura in cui si priva spontaneamente di qualcosa senza necessità. Questo qualcosa di superiore può poi essere confermato e rafforzato dalla Chiesa, perché la solennità della predicazione religiosa è poesia elevata, e l’amore che ne scaturisce è un preludio alla verità, così come la religiosità è un preludio alla saggezza; l’amore, quando viene sentito, è compreso nella saggezza.  

Così la religione è poesia in secondo grado, o poesia sublimata, che non è banale e agisce nobilmente, nella stessa carità cristiana con cui tanto ci si può annoiare. Essa offre la parola che coltiva in noi quell’amore trascendente. E se per l'amour non abbiamo bisogno di convertirci, quanto è difficile che sbocci, in quell’oscuro sottosuolo, come una fragile pianta da serra, l’amore domestico! Senza la religione, l’animalità riaffiora subito, tanto che oggi si pensa che... in casa si debba sempre essere innamorati e che si debba abbandonare ciò che non si desidera più. La religiosità ci insegna proprio quell’amore domestico con cui ci manda nella società, affinché possa essere ulteriormente sviluppato. E questo amore supremo, sessualmente neutro, rappresenta il vero surrogato della saggezza per coloro che possiedono una grande sensibilità e un’immaginazione profonda. Purtroppo, esso diventa sempre più raro; questo fragile filo d’erba sotto la possente quercia dell’egoismo quasi non viene più coltivato. Non si avverte più che, senza questo amore cristiano, non si è illuminati dai raggi dell’amore divino e si resta naturalmente inclini al male e all’odio verso il prossimo. Ciò che nel cristianesimo è stato coltivato come un presentimento della saggezza, l’amore trascendente, si sta oggi trasformando in ostilità, persino nei dibattiti pubblici.  

La religione ha sempre purificato i cuori. Ma… la pura devozione non è altro che un’ingenuità purificata; e la devozione viene resa saggia solo quando le si raccontano delle storie per farle credere in qualcosa.

Quando sentiamo una parola simile, percepiamo immediatamente una certa durezza. Ma senza questa durezza immediata, la verità non può farsi udire. Così, anche la pura ragione è una ragione purificata e, perfino la migliore lezione di logica che Bolland abbia mai tenuto, non è mai stata del tutto pura: la saggezza, in quanto realtà vivente, rimane saggezza nella sua naturalità ed è quindi inseparabile dalla follia; se astratta, essa non può realizzarsi.  

E se questo è ciò che dobbiamo dire della saggezza, cosa dovremmo allora dire della devozione? La devozione sta alla santità come la santità sta alla purezza. Anche se il calendario dei santi è popolato da figure strane, ciò non significa che la santità sia un’illusione; essa rappresenta il grado più alto di pulizia spirituale. Pulizia, purezza, castità e santità sono la stessa cosa, in rapporto sia alla natura sia allo spirito. La castità è purezza (come suggerisce il termine fiammingo), ma con un significato diverso: essa rappresenta la pulizia interiore di chi non vuole sempre indulgere nella volgarità. E la sensualità, nella sua massima purezza, diventa pulizia esteriore. [10] Tuttavia, la Chiesa ha spesso distinto la santità dalla pulizia in modo così netto da contraddire apertamente il principio di Bolland (che ovviamente essa ignora): tutto è distinto, ma inseparabile. Infatti, essa venera anche santi sudici, come quelli che non si sono mai lavati in vita loro.  

Eppure, la santità è purezza spirituale. Ma è anche verità? I veri santi sono sempre stati persone semplici, anche se non tutti coloro che figurano nel calendario lo sono stati. Ma proprio per questo, non erano veri santi.  

Non esiste santità senza una certa dose di ignoranza; essa può fiorire solo nell’ingenuità, e tuttavia conserva sempre il significato di un processo di purificazione interiore. E in fondo, tutta la filosofia è un processo di auto-purificazione del pensiero. In questo senso, la santità è imparentata con la saggezza come una forma di ignoranza purificata, e non appartiene certo alla massa, composta perlopiù da rozzi ignoranti.  

Ma la verità è una questione di relazione, e proprio nella Chiesa si può apprendere molta saggezza. Ed è qui che nasce l’ambiguità: il devoto diventa saggio perché si lascia convincere, ma bisogna tenere a mente che meno una persona si lascia persuadere, meno è capace di amore. La ragione non prova amore, e la generosità amorosa appare alla mente razionale come ridicola, come una follia; agli occhi della saggezza, invece, essa è una forma di addolcimento. 

D’altra parte, il bisogno religioso di “rivelazione” è uno stupido desiderio di saggezza, che non richiede... alcuno sforzo. E bisogna notare che esiste anche un bisogno non religioso di rivelazione, come si vede nelle università popolari. Ma l’uomo, che vorrebbe cadere verso l’alto, in cielo, lotta inconsciamente contro il senso di costrizione che avverte nella gravità, proprio come cerca di opporsi all’oppressione che sperimenta nel lavoro quotidiano. La beatitudine celeste è assenza di fatica, è ozio piacevole, l’opposto di ciò che la realtà impone alla maggior parte delle persone. E quando potrà l’uomo raggiungere tale beatitudine? Quando sarà caduto verso l’alto, in cielo.  

Per questo il credente dice: “Anche qui non sono abbandonato da Dio”, e vive il vero nella forma di una rappresentazione emotiva. Perché tutti noi siamo entità temporali dell’eterno, senza il quale nulla potrebbe elevarci. Così esiste un Deus philosophorum, anche se non è il Dio della fede religiosa. Eppure, egli compare anche nella Bibbia, per esempio in Atti 17:24 e seguenti, in quelle che sono tra le più belle parole mai rivolte all’anima umana: “Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che vi si trova, essendo il Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo e non è servito da mani umane come se avesse bisogno di qualcosa, perché è lui che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa. Egli ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra, avendo stabilito i tempi loro assegnati e i confini della loro dimora, affinché cercassero Dio, se mai, tastandolo, potessero trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. Poiché in lui viviamo, ci muoviamo e siamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: ‘Poiché siamo anche noi sua discendenza’”.  

Ma il credente vuole vedere Dio come un’altra persona, con cui poter parlare, vuole un rapporto tra un io e un tu, e così finisce per corrompere con il sentimento ciò che il filosofo cerca di comprendere razionalmente. Il deus philosophorum non consola, ma rende sereni, fa perdere il bisogno stesso di consolazione.  

Se ora ci si chiede di nuovo: “Si può dimostrare l’esistenza di Dio?”, bisogna riconoscere l’inconsistenza di questa domanda, perché pensare l’esistenza di Dio significherebbe ridurlo a un’entità limitata. Lo Spirito infinito trascende ogni esistenza, poiché Dio è il principio spirituale, il principio che innalza l’uomo comune al di sopra della sua quotidianità. Natura e Dio sono l’ignoto noto, nella relazione tra l’ordinario e il sublime. Ma allora sorge la domanda: la coscienza può dirsi veramente reale? La coscienza anela a dissolversi nell’inconscio. Non è forse la potenza dell’inconscio la vera essenza dell’essere e del desiderabile?  

Così tutto è relativo. Ma sempre, fin dall’inizio, lo Spirito è la verità, mentre la natura è paragonabile a un eterno sonno. Senza Dio, la massa è come il bestiame nei campi, che non conosce elevazione; una società senza Dio è una società bestiale. [11]  

E la verità, per l’uomo comune, non sarà mai una verità compresa. [12] La dottrina cristiana, infatti, racchiude il vero sotto forma di rappresentazione inconsapevole; essa è la follia della verità eterna. Questo concetto è espresso in 1 Corinzi 1:21: “Poiché, siccome il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio nella sapienza di Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti mediante la follia della predicazione”. [13

La sapienza riconosce nel Vangelo l’opposto di sé stessa; lo vede come una “vera” sciocchezza e una sciocca verità. 


NOTE AL CAPITOLO 10.

[1] I Libri dei Proverbi I: 903-918.

[2] Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, p. 51.

[3] Platone, Epinomide 973 e.

[4] Pseudonimo del disgraziato poeta H. Landesmann.

[5] Hegel, Enciclopedia, §382, aggiunta.

[6] Hegel, Filosofia della religione, ed. Bolland, p. 463.

[7] Nietzsche, Zur Genealogie der Moral³, p. 178.

[8] Eunapio: Philostratorum et Callistrati opera, ed. 1849, p. 458.

[9] De Groot, Tommaso d’Aquino, pp. 311 e 364.

[10] Cfr. Proverbi I, 736 e segg.

[11] Proverbi I, 914. In una nuova edizione “turba bestiale” sarebbe sostituita con “bestiame ragionevole”; bestiame che si comporta educatamente. Una turba empia deve aver usato la propria ragione... a proprio danno, e diventa bestiame.

[12] Plat. Repub. 6:8; Fedone 99b; Fedro 273b.

[13] Cfr. 1 Corinzi 3:19.

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