(segue da qui)
IL SILENZIO DI TACITO
Il riferimento successivo a Cristo da parte di uno scrittore profano si trova in Tacito: [1]
Sed non ope humana, non largitionibus principis aut deum placamentis decedebat infamia quin iussum incendium crederetur. Ergo abolendo rumori Nero subdidit reos et quaesitissimis poenis affecit quos per flagitia invisos vulgus Christianos appellabat. Auctor nominis eius Christus Tiberio imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat; repressaque in praesens exitiabilis superstitio rursum erumpebat, non modo per Iudaeam, originem eius mali, sed per urbem etiam, quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque. Igitur primum correpti qui fatebantur, deinde indicio eorum multitudo ingens haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt. Et pereuntibus addita ludibria, ut ferarum tergis contecti laniatu canum interirent aut crucibus adfixi aut flammandi, atque, ubi defecisset dies, in usum nocturni luminis urerentur. Hortos suos ei spectaculo Nero obtulerat, et circense ludicrum edebat, habitu aurigae permixtus plebi vel curriculo insistens. Unde quamquam adversus sontes et novissima exempla meritos miseratio oriebatur, tamquam non utilitate publica, sed in saevitiam unius absumerentur (Annali 15:44).
Riguardo a questo famoso passo, dobbiamo osservare innanzitutto che, se è autentico, fu scritto nel primo quarto del secondo secolo, verso la fine dell'ultima opera del grande storico, molto probabilmente dopo la morte di Traiano (117 E.C.). Al massimo, quindi, riporta solo un resoconto accettato a quel tempo tra i cristiani. Ma non è affatto strano che la finzione (se di finzione si tratta) della morte sotto Pilato fosse diffusa a quella data, quasi tre generazioni dopo il finto evento. Se un tale resoconto ebbe origine, si originò (gradualmente, a dire il vero) in un momento molto probabilmente del primo secolo: potrebbe quindi facilmente essersi diffuso e aver raggiunto le orecchie di Tacito prima del 110 E.C. La sua riproduzione per mano di Tacito, quindi, attesta semplicemente la sua esistenza a quella data, ma in nessun modo la sua correttezza.
Fin qui sulla base della supposizione che il brano provenga da Tacito; non abbiamo bisogno di fare altre supposizioni ai fini della nostra argomentazione. Che sia autentico, se vuoi, esso non prova nulla che sia degno di discutere. Poiché non ha mai attribuito alcuna importanza argomentativa al brano, si può ragionevolmente supporre che il pensiero del sottoscritto sia in una certa misura priva di pregiudizi, e per una mera questione di candore critico egli non deve nascondere al lettore di dubitare fortemente della sua autenticità. In effetti, di recente si è asserito in modo pretestuoso che Poggio Bracciolini fosse l'autore degli Annali, [2] ma ci sono ragioni molto convincenti contro questa asserzione. L'intero paragrafo, però, sembra molto simile a una fabbricazione, o almeno a un'emendazione, di una mano cristiana. Tra altre circostanze sospette si possono notare le seguenti:
(a) Una persecuzione così rilevante come quella qui descritta, e un siffatto brano di un siffatto autore, avrebbero colpito profondamente il pensiero cristiano antico. Non c'è nient'altro di analogo nella storia e nella letteratura pagana di quel secolo. Dovremmo aspettarci che risaltino vistosamente nei ricordi e nelle memorie delle generazioni successive. Sappiamo quanto zelantemente i casi di martirio fossero custoditi e persino inventati in un primo periodo. È inconcepibile, allora, che un evento così supremamente memorabile sia sfuggito a ogni documentazione e a ogni riferimento. Eppure quale è la situazione? La tradizione antica è assolutamente muta sia sulla persecuzione neroniana sia sulla testimonianza tacitiana. Sembrerebbe che Paolo si trovasse a Roma intorno a quel tempo (64 E.C.). Sicuramente sarebbe stato coinvolto in qualche modo nelle persecuzioni. Tuttavia non c'è alcuna allusione ad un ruolo da lui svolto nella tragedia. È vero, in 2 Timoteo 4:6-8, leggiamo: “Quanto a me, sto per essere offerto in libagione, e il tempo della mia dipartita è vicino. Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho serbato la fede. Per il resto, mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il Giusto Giudice, mi assegnerà in quel giorno, e non solo a me, ma anche a tutti quelli che hanno amato la sua apparizione”. Ma nei versetti 16 e 17 la scena cambia bruscamente: “Nella mia prima difesa nessuno è stato al mio fianco, ma mi hanno tutti abbandonato; questo non venga loro imputato. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha fortificato, affinché per mio mezzo la predicazione fosse portata a compimento e tutti i gentili l'udissero; ed io sono stato liberato dalle fauci del leone. Il Signore mi libererà ancora da ogni opera malvagia e mi salverà fino a portarmi nel suo regno celeste”.
Ancora, al versetto 11 tutti l'hanno abbandonato tranne uno: “Soltanto Luca è con me”. Ma nei versetti 19-21 egli è circondato da una numerosa compagnia: “Eubulo, Pudente, Lino, Claudia e tutti i fratelli”. Da queste contraddizioni non si può ricavare nulla, se non che non c'è alcun accenno a qualcosa di analogo alla persecuzione neroniana. L'autore o gli autori sembrano non aver conosciuto alcuna tradizione al riguardo da poter inserire in queste pastorali.
La prima Epistola di Pietro, indirizzata agli eletti della diaspora nell'Asia Minore settentrionale, si occupa molto della persecuzione e dell'“incendio di persecuzione” che li ha colpiti; ma, sebbene apparentemente scritta da Roma (“Babilonia”, 5:13), non contiene il più remoto riferimento all'“incendio di persecuzione” attraverso la quale si suppone che la chiesa fosse passata. Un qualche riferimento, però, in tali circostanze, sembrerebbe così naturale da essere quasi inevitabile.
Neppure nell'Apocalisse troviamo un'allusione chiara o anche solo probabile a un evento che avrebbe avuto un peso così grande nella coscienza cristiana antica. Su questo punto non abbiamo bisogno di dilungarci; basta riferirsi alle opere di Mommsen e di Neumann; anche Furneaux ammette che “i presunti riferimenti......sono certamente in gran parte da spiegare in altro modo”, seppure egli ritiene ancora che ci “siano punti in cui tali allusioni possono difficilmente essere escluse”: un'opinione che sembra essere l'ultimo residuo di un pregiudizio a priori. Perché, allora, l'autore dell'Apocalisse non si riferì a questa tremenda persecuzione in maniera distinta, o almeno inequivocabile, se ne ebbe sentito parlare?
Passando ora a Clemente di Roma, lo troviamo (capitolo 5) a porre con grande naturalezza davanti agli occhi dei suoi corrispondenti “gli esempi validi della nostra epoca”. La persecuzione feroce descritta da Tacito gli sarebbe stata perfettamente nota, eppure sembra che non ne abbia mai sentito parlare. Le sofferenze di Pietro le attribuisce a “gelosia ingiusta”. “Per invidia e discordia Paolo mostrò il premio della pazienza. Per sette volte portando catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo nell'oriente e nell'occidente, ebbe la nobile fama della fede. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, giunto al confine dell'occidente e resa testimonianza davanti alle autorità, lasciò il mondo e raggiunse il luogo santo, divenendo il più grande modello di pazienza”. Non pretendiamo di sapere il significato esatto di queste parole: sembra dubbio che Clemente stesso lo sapesse. Ma sembra certo che esse non facciano alcun accenno alla persecuzione neroniana descritta negli Annali; anzi, sembrano implicare inequivocabilmente che il loro autore non avesse mai sentito parlare di un siffatto “incendio di persecuzione”.
Passando alle lettere di “Ignazio”, troviamo la lettera ai Romani scritta in uno stile e in uno stato d'animo di estrema esaltazione. “Ignazio” agogna ardentemente il martirio, brama essere macinato come frumento dai denti delle fiere. Sicuramente, se avesse mai sentito parlare della terribile esperienza dei Romani stessi, un tale retore si sarebbe lasciato sfuggire qualche accenno. Ma non lo fa, e il suo silenzio sembra ammettere un'unica e sola spiegazione.
È inutile passare in rassegna gli altri scrittori cristiani di quest'epoca. Essi sono costantemente muti sull'argomento in esame e la loro omertà collettiva rende l'argomentazione del silenzio tanto convincente quanto, nella natura del caso, possa mai esserlo.
In fondo alla storia, a più di cento anni dalla data dell'incendio, troviamo finalmente, in un frammento citato da Eusebio (Historia Ecclesiastica 4:26) da un Libello indirizzato ad Antonino (Aurelio) da Melitone, vescovo di Sardi (verso il 170 E.C.), la prima allusione cristiana a Nerone come nemico dei cristiani. Esso dichiara: “Non è mai capitato prima d'ora che sia perseguitata la stirpe di quanti venerano Dio e sia cacciata per l'Asia da nuovi editti......La nostra dottrina si impose infatti prima tra i barbari, ma fu nelle tue nazioni poste sotto la grande autorità di Augusto, tuo antenato che giunse al culmine e divenne auspicio di bene soprattutto per il tuo principato. Una grandissima prova che la nostra dottrina si sia imposta a fin di bene insieme con il principato nel periodo del suo felice inizio, è il fatto che dall'impero di Augusto non incontrò alcun male......Unici fra tutti solamente Nerone e Domiziano, persuasi da uomini malevoli, hanno voluto diffamare la nostra dottrina, e da loro, per assurda consuetudine, si è riversata contro i Cristiani la falsità di questa calunnia ('sicofantìa')”. Ci soffermiamo un attimo a notare che il buon vescovo fa risalire al regno di Augusto l'origine della “nostra dottrina”, che era già esistita tra i “barbari” (cioè tra gli ebrei: Taziano definisce “barbari” gli Scritti ebraici), [3] e che doveva essere stata allora essenzialmente monoteismo: e allora osserviamo che apparentemente lui non ha conoscenza e non ha idea della persecuzione neroniana come descritta ora da Tacito, e che sta sostenendo che gli imperatori buoni hanno tollerato il cristianesimo, mentre solo i malvagi lo hanno screditato. Qui aggiunge: “Ma i tuoi pii antenati hanno posto riparo alla loro ignoranza, giacché spesso hanno biasimato molti per iscritto, quanti, cioè, osarono prendere nuove misure riguardo ai Cristiani”: a riprova di ciò rimanda all'Epistola di Adriano a Fundano e a molte altre.
Non c'è bisogno di scavare un nuovo solco nel campo così ben curato da Keim, Overbeck, Mommsen, Schiller, Lightfoot, Ramsay e altri. È sufficiente che Melitone, che sembra essere stato così ben informato sulla relazione tra il cristianesimo e lo Stato, non faccia alcun accenno a qualcosa che rassomigliasse alla persecuzione tacitiana. Eppure, farlo sarebbe stato molto utile ai fini della sua argomentazione. Con grande forza avrebbe potuto dire: “Nerone il matricida, il peggiore degli uomini, Nerone invero ci perseguitò atrocemente, per nascondere la propria iniquità, come testimonia il vostro storico Tacito; ed ecco quale rapida, giusta e terribile vendetta lo colse!” Come avrebbe potuto Melitone non fare un'osservazione così eloquente ed ovvia?
Un'altra strada ci porta a Tertulliano, il quale ammise di conoscere e di aver fatto uso dell'opuscolo di Melito nel proprio Apologetico. La sua argomentazione è la stessa, cioè che il buon governo favoriva i cristiani e il mal governo li sfavoriva, ma è molto più avventato nelle asserzioni. Egli dichiara (capitolo 5) che “Perciò Tiberio, al cui tempo il nome cristiano apparve nel mondo, ricevute informazioni dalla Siria Palestina che rivelavano là l'esistenza di questa divinità, portò la cosa al senato dando per primo il suo voto (praerogativa) favorevole. Il senato, non avendo esso stesso appurato quei fatti, respinse la richiesta imperiale. Cesare restò del suo parere, minacciando di pena quanti avessero accusato i cristiani”. Il lettore non si stupisca di questa storia fatta su misura. “Consultate i vostri annali (commentarios), e vi troverete che Nerone per primo infierì con la spada imperiale contro questa setta che andava propagandosi soprattutto a Roma. Noi addirittura ci gloriamo di aver avuto un simile iniziatore della nostra condanna; chi, infatti, lo conosce può comprendere che da Nerone non poteva essere condannato se non un grande bene. Aveva tentato di farlo anche Domiziano, una porzione di Nerone quanto a crudeltà; ma in quanto uomo rinunciò presto a quanto aveva iniziato, richiamando anche gli esiliati che aveva relegato. Tali sono sempre i nostri persecutori: ingiusti, empi, abietti; che voi stessi siete soliti condannare, e i cui condannati siete soliti riabilitare”.
Qui si comincia a sospettare che a Nerone venga fatto recitare il rôle di persecutore solo perché egli fu perfettamente adatto alla parte. Ma anche Tertulliano non rivela alcuna idea di una persecuzione neroniana come quella di cui leggiamo in Tacito. Eppure egli era a conoscenza di questo storico, le cui Historiae egli cita estesamente (capitolo 16), sul cui nome ironizza, e che odia profondamente per avere lui diffamato gli ebrei. Se avesse letto di Nerone che bruciava vivi i cristiani, avrebbe usato illustrazioni così vaghe e banali come “infierì con la spada imperiale” e “seminarono volentieri il sangue cristiano a causa della crudeltà di Nerone”? Ricorda che Tertulliano fu un consumato retore. Avrebbe mai trascurato un'occasione così eccezionale per l'esibizione della sua arte tanto prediletta?
Sembra inutile discutere testimonianze ancora più tardive, come quelle di Lattanzio (De mortibus persecutorum 2), di Origene (Eusebio, Historia Ecclesiastica 3:1), di Eusebio (Historia Ecclesiastica 2:25) e di Girolamo. Questi ultimi scrittori hanno appreso infine, dopo due secoli o più di ignoranza, che Pietro e Paolo caddero vittime della furia neroniana; ma non hanno ancora idea del fatto che Nerone accusò falsamente i cristiani di aver appiccato il fuoco alla città, né accennano al fatto che una “ingente moltitudine” illuminò la notte romana con le fiamme dei loro corpi arsi sul rogo. Solo nel quarto secolo, nell'Epistola 12 della corrispondenza fabbricata tra Paolo ed Seneca, leggiamo che “Cristiani e Giudei, purtroppo, sono continuamente mandati al supplizio come organizzatori dell'incendio”. Ma anche qui l'allusione alla persecuzione neroniana, se ce n'è una, è estremamente vaga.
Va aggiunto che gli ebrei sono qui associati ai cristiani; che difficilmente poterono essere stati separati nettamente a Roma nel 64 E.C; che essi, molto più dei cristiani, furono esposti all'accusa di odio verso la razza umana (“Un odio ostile contro tutti gli altri” — Tacito, Historiae 5:2); che avevano già provato due volte a Roma (sotto Tiberio e sotto Claudio) il peso della mano imperiale; che Lucano, Plinio, Persio, Seneca — tutti scrittori di quell'epoca — parlano degli ebrei con asprezza, mai dei cristiani — e apparirà praticamente impossibile che essi potessero essere scampati a una persecuzione come quella tacitiana. Ma se non scamparono, se soffrirono, ciò dovette essere stato noto al loro grande storico e difensore, Giuseppe, che al tempo era un giovane uomo.
Ma questo scrittore, nelle sue Antichità (20:8, 3), protesta contro le grossolane imprecisioni e falsità dei biografi di Nerone, sia favorevoli che sfavorevoli, pur negando ogni intenzione di correggerli o integrarli in generale. “D’altra parte la nostra esposizione della vicenda del mio popolo, i Giudei, non è semplicemente accidentale; [4] e nella mia esposizione non esito a dare una narrazione piena sia delle nostre sfortune sia dei nostri errori”. Se, dunque, anche solo alcuni ebrei fossero caduti vittime nella capitale della calunnia e della ferocia neroniana, non c'è dubbio che Giuseppe ne avrebbe saputo e ne avrebbe preso nota. Eppure egli non dà il minimo indizio che una simile voce fosse mai giunta alle sue orecchie.
Siamo allora in presenza del silenzio ininterrotto e universale di oltre duecento anni riguardo un presunto evento di capitale importanza, avvenuto nel centro del sapere, dell'informazione e del pettegolezzo, eppure mai menzionato da nessuno dei tanti il cui interesse particolare sarebbe stato quello di raccontarlo spesso e di soffermarsi a lungo su di esso. Né si può suggerire la minima ragione per questo silenzio, per questa studiata soppressione di un avvenimento altamente epocale e drammatico in un regno che costituiva uno dei soggetti preferiti della delineazione storica e che si prestava particolarmente a raffigurazioni intense e a esagerazioni pittoresche. Tali considerazioni sembrano sufficienti a far pendere la bilancia pesantemente contro l'autenticità del brano in questione.
(b) Osservando più da vicino l'intero contesto tacitiano, troviamo che esso suggerisce in modo del tutto indipendente molti dubbi simili e difficilmente meno seri. Il resoconto del grande incendio si estende per sei capitoli, cominciando dal trentottesimo: “Seguì poi un disastro, non si sa se dovuto al caso o alla perfidia del principe”. Ne viene data una vivida descrizione. Il capitolo 39 racconta di come Nerone non tornò da Anzio finché le fiamme non si avvicinarono (e alla fine divorarono) la sua casa. Egli prese misure immediate e popolari per soccorrere i profughi e gli indigenti, ma “non gli giovarono, poiché si era sparsa la voce che nel momento stesso in cui la città bruciava egli fosse salito sul palcoscenico del palazzo e si fosse messo a cantare la caduta di Troia, assimilando le sciagure presenti agli antichissimi lutti”. Il capitolo 40 racconta della fine dell'incendio ai piedi dell'Esquilino e della sua seconda recrudescenza, con un minor numero di morti ma una distruzione più estesa. Il capitolo 41 enumera alcuni degli elementi della spaventosa catastrofe. Il capitolo 42 racconta come “Nerone si valse delle rovine della patria e si costruì una dimora” in cui il genio e l'audacia di Severo e Celere avrebbero sfidato la prodigalità della Natura stessa. Sembra evidente che le immense realizzazioni e le immense concezioni di questi architetti e giardinieri paesaggisti dovettero richiedere anni per la loro elaborazione e anche parziale esecuzione. Il capitolo 43 racconta della ricostruzione di Roma stessa, non nella vecchia maniera irregolare, ma “con isolati ben allineati e strade più aperte; fu limitata l'ampiezza degli edifici, vi si aprirono cortili, vi si aggiunsero portici, destinati a proteggere la facciata delle case (insularum)”. Questa descrizione è elaborata ed è sottolineata la parte che Nerone ebbe nella ricostruzione. Questi cambiamenti piacquero in generale sia per la loro utilità che per la loro bellezza, sebbene ci fossero alcuni che dicevano che il vecchio disegno della città era migliore.
Una città non può essere ricostruita in modo così sostanziale (“con pietra di Gabi o di Albano, una pietra che resiste al fuoco”) in un giorno o in un mese o in un anno, non senza un'enorme dispendio di denaro; e l'erario imperiale sembra aver sopportato il peso della spesa. Non è strano, allora, ma quasi inevitabile, che il capitolo successivo continui così: “Intanto, per accumulare denaro, l'Italia era devastata, sconvolte le province e le nazioni alleate, e quelle città che si chiamano libere. In quel saccheggio furono coinvolti anche gli dèi”, i loro templi furono spogliati dell'oro e delle offerte votive, e persino delle immagini degli stessi dèi.
E proprio così si apre il capitolo 45, come continuazione naturale e quasi inevitabile del capitolo 45, illustrando le necessarie conseguenze dei metodi e degli obiettivi di Nerone ivi esposti. Tra questi due capitoli, così strettamente uniti nel pensiero, leggiamo ora il capitolo 44, che non ha alcun legame intimo con nessuno dei due.
“Questi (la graduale ricostruzione neroniana) furono i provvedimenti adottati dalla saggezza degli uomini. Poi (mox) si ricorse a riti espiatori, si consultarono i libri sibillini, in ossequio ai quali furono rivolte preghiere a Vulcano, a Cerere, a Proserpina, a Giunone, cerimonie espiatorie da parte delle matrone, prima sul Campidoglio, poi sulla spiaggia marina più vicina, e il tempio e l'immagine della dea furono aspersi dell'acqua ivi attinta; le donne sposate poi celebrarono banchetti sacri e veglie di preghiera. Ma né l'aiuto degli uomini, né le largizioni del principe, né le cerimonie espiatorie offerte ai numi valevano a dissipare l'opinione infamante che l'incendio fosse stato comandato. Nerone, pertanto, per eliminare il vociare, presentò come rei e colpì con raffinatissimi supplizi coloro che il volgo, odiandoli per i loro delitti, chiamava crestiani. Autore di questo nome, Cristo, sotto l'impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal governatore Ponzio Pilato; e repressa per il momento l'esiziale superstizione, erompeva di nuovo, non solo per la Giudea, origine di questo male, ma anche a Roma, dove da ogni parte confluiscono e si esaltano tutte le cose atroci e vergognose. Pertanto, furono anzitutto arrestati quelli che confessarono; poi, su indicazione di costoro, furono condannate (o arrestate, convicti o conjuncti) una moltitudine immensa di persone che risultarono ree non del crimine dell'incendio, quanto invece di odio verso il genere umano. Ai condannati alla morte in più si infliggevano scherni; coperti di pelli ferine li si faceva dilaniare dai cani, o venivano crocifissi o si bruciavano come fiaccole, affinché, col calar della notte, ardessero a guisa di luci notturne. Nerone aveva offerto i suoi giardini per questo spettacolo e celebrava giochi nel circo, mischiandosi alla plebe in veste di auriga e, in piedi sul carro, prendeva parte alle corse. Benché si trattasse di rei, meritevoli di pene d’un’atrocità senza precedenti, sorgeva nel popolo la pietà per quegli sventurati poiché venivano uccisi non per il bene di tutti ma per la crudeltà di uno solo”.
Il lettore di questo capitolo così tradotto letteralmente, giudichi se esso si adatta al capitolo 43 o al capitolo 45, che cadono così naturalmente insieme. Si noti che l'intera storia è intrinsecamente inverosimile; che implica una chiesa antichissima, stabilita da lungo tempo e numerosa a Roma, e un odio da parte del popolo che sembra a quel tempo del tutto incredibile; che non si può attribuire un significato appropriato a “confessarono”: confessarono cosa? Arnold risponde naturalmente: l'accusa di aver “incendiato la città”. Ma ciò sembra del tutto incredibile. Sicuramente essi non avevano appiccato il fuoco e non avrebbero mentito contro sé stessi. Ramsay pensa che essi confessarono di essere cristiani; Von Soden traduce addirittura così! Senza dubbio. Ma il cristianesimo non era allora un reato capitale; era solo il crimine di aver bruciato Roma che poteva far ricadere su di loro una punizione così crudele. Inoltre, questi “arrestati prima” non solo confessano, ma coinvolgono una “moltitudine immensa”. In che cosa? Nell'incendio della città? Impossibile! Non furono colpevoli. Nell'essere cristiani? Altrettanto impossibile. A Roma non ci fu una moltitudine immensa di cristiani; e anche se per moltitudo ingens intendiamo solo una ventina di persone, sembra impossibile che quei pochi catturati per primi avessero tradito l'intera comunità cristiana presso un mostro come Nerone. Non sarebbe stato né saggio come un serpente né innocuo come una colomba. Qui, dunque, la storia è incredibile. Nota, inoltre, che lo spettacolo deve essere durato a lungo, altrimenti sicuramente la folla romana, abituata a tali spettacoli, non avrebbe provato pietà per un gruppo di odiati criminali che avevano bruciato due terzi di Roma e causato rovina e dolore indicibili. E perché Svetonio (Nerone 38) e Dione Cassio (62, 16:1) e Plinio (Naturalis Historia 17:1, 1, 5), che non hanno dubbi sul fatto che Nerone stesso avesse ordinato l'incendio, e che dovettero aver saputo di una strage di innocenti così prolungata, perché non accennano mai nemmeno lontanamente a una vicenda così tremenda? Infine, quando ebbe luogo questa persecuzione? Naturalmente, si potrebbe supporre che la denuncia fosse scattata subito, mentre la mente degli uomini era in preda all'eccitazione, come la diceria su Nerone che smaniava sulle fiamme di Roma. Ma nessuno può farsi un'idea del genere dal capitolo 44, che menziona la denuncia dopo il resoconto della ricostruzione architettonica di Nerone, e indica che egli prese misure severe non, come sarebbe stato naturale, nello stato di eccitazione dell'opinione pubblica, ma solo molto tempo dopo, e perché la denuncia non accennava a placarsi. Ciò non è certo incredibile, ma certamente lascia perplessi.
E quale può essere la forza o il riferimento di “intanto” (interea), con cui si apre il capitolo successivo (45)? Se omettiamo il capitolo 44, il riferimento è ovvio, il termine è così appropriato da essere quasi inevitabile: Nerone stava ricostruendo Roma su una scala di grandezza ineguagliabile, con un dispendio incalcolabile di tesori imperiali. “Che abisso di spese! Da dove venivano i fondi necessari?”, esclama involontariamente il lettore. L'autore risponde: Intanto l'Italia, le province, gli alleati, le città libere, gli stessi santuari degli dèi furono devastati per far fronte al costo prodigioso. Inseriamo ora il capitolo 44. Di colpo il nesso si spezza, il pensiero rimane sospeso nell'aria, questioni estranee e remotamente correlate distraggono l'attenzione, e quando l'argomento è ripreso nel capitolo 45 non si trova nulla nel capitolo 44 a cui l'espressione “intanto” possa riferirsi, perché è irragionevole dire “Nerone bruciava i cristiani e il popolo era mosso a compassione, intanto l'impero veniva saccheggiato”. Dobbiamo risalire al capitolo 43 per trovare l'aggancio naturale al capitolo 45: un chiaro indizio che il capitolo intermedio è stato interpolato.
(c) Qualcuno (come Von Soden) obietta che lo stile è fin troppo tacitiano per non essere autentico? Noi rispondiamo che imitazioni altrettanto valide sono abbastanza frequenti. Nelle sue Letters to Dead Authors il signor Andrew Lang ha riprodotto mirabilmente una dozzina di stili molto diversi, nessuno dei quali assomiglia affatto al suo. Un simile tour de force è eccezionale, ma dimostra che i limiti della possibilità in queste materie sono ampissimi. Inoltre, siamo sicuri che lo stile sia davvero così simile a quello di Tacito? Forse non è ancora stato fatto un esame accurato, ma ci sono certamente controindicazioni. Tralasciamo i fatti ben noti che il testo è qui particolarmente ambiguo; che è strano che Tacito parli di Ponzio Pilato solo come procuratore, senza specificare di cosa, mentre tale modo di dire sarebbe stato più naturale per l'interpolatore; che il giudizio estremamente duro contro i cristiani è sconcertante nell'amico intimo di Plinio, da cui quasi sicuramente lui avrebbe appreso meglio; che la “moltitudine immensa” è un'esagerazione più che tacitiana, e per nulla corrispondente all'espressione iacuit immensa strages di Annali 6:19, [5] e noi vorremmo fissare l'attenzione solo su una considerazione puramente stilistica, l'espressione humani generis. L'intera espressione ha tormentato l'ingegno dei commentatori, ma soprattutto queste parole. Muret (seguendo Faerno?) elimina audacemente la parola humani e intende per generis la razza cristiana! Acidalius vede che ciò non può essere, e di conseguenza modifica humani in Romani: essi furono condannati per odio della razza romana! In effetti, sembra quasi impossibile che Tacito abbia scritto humani generis. In ogni altro punto egli scrive generis humani. [6] È improbabile in definitiva che uno scrittore consumato come Tacito si discosti per una volta dalla sua abitudine di sempre, tanto più che l'ordine inverso produce con la suddetta parola uno sgradevole iato: odio humani. Non occorre un orecchio molto delicato per capire che odio generis è una formulazione molto più gradevole. Inoltre, l'intero peso dell'uso tacitiano relativo depone contro l'inversione. È consuetudine costante dello storico modificare genus con le parole che seguono e non con quelle che precedono. Così genus hominum (tre volte, quasi lo stesso di genus humanum), genus animalium, belli, militum, mortalium, mortis, questus pensi, orandi, maiorum, telorum, spectaculorum, studiorum, pugnae, Arsacis, vitae, e generis regii. Le eccezioni apparenti a questa regola sono riconoscibili facilmente in quanto dovute a considerazioni retoriche, soprattutto al desiderio di mantenere l'ordine preferito: aggettivo, genitivo (modificato), sostantivo, come in omne mortalium genus (Annali 16:13), novum officii genus (Historiae 1:20), e per enfatizzare, come in oppidanum genus (Annali 6:15), pernix genus (Historiae 2:13). Possiamo affermare, allora, con molta sicurezza, che l'inversione in questione di per sé contraddistingue il brano come probabilmente non opera di Tacito.
. . . . .
Tramite tre linee di indagine del tutto indipendenti siamo condotti proprio allo stesso risultato. Valutalo come vuoi, il capitolo ha l'aria di essere interpolato. In effetti, deve esserlo, non a meno che uno di questi indizi fallisca, ma a meno che falliscano tutti, a meno che tutti siano simultaneamente e nello stesso senso fuorvianti. Perfino se il dubbio sollevato da ciascuna di queste indagini separate non fosse fortissimo, anche se lasciasse ancora le probabilità di due contro uno a favore della autenticità, tuttavia la probabilità che tutte e tre ingannino simultaneamente sarebbe solo di otto su ventisette; le probabilità sarebbero diciannove contro otto a favore dell'interpolazione. Non abbiamo scelta allora. Costretti da questa concomitanza di risultati, noi dobbiamo considerare il brano probabilmente interpolato, a meno che non ci sia qualche forte ragione a priori a favore della autenticità e contro l'interpolazione.
Esiste una ragione di questo tipo? Certamente no. L'intera storia della letteratura post-apostolica e patristica mostra che l'interpolazione era una pratica molto diffusa. In effetti, sembrerebbe piuttosto strano se tale opportunità fosse stata trascurata. Concludiamo, allora, che questo famoso capitolo, come sta ora, è con ogni probabilità da attribuire a una mano diversa da quella di Cornelio Tacito. Ma anche se fosse del tutto autentico e non corrotto, esso sarebbe comunque privo di valore probatorio, poiché si limita a riportare una diceria circa un presunto evento di quasi cento anni prima. Di conseguenza, il brano è con ogni probabilità inammissibile in tribunale; ma anche se fosse ammesso, esso non potrebbe dimostrare nulla di rilevante.
NOTE
[1] Per la traduzione e il contesto si veda infra, pag. 246.
[2] Tacitus and Bracciolini. The Annals Forged in the Fifteenth Century. Londra, 1878.
[3] Nel descrivere la propria conversione (Discorso ai greci, capitolo 29).
[4] οὐ παρέργως.
[5] La strage è definita immane perché colpì “tutti” (cunctos) gli amici di Seiano, senza tener conto dell'età, del sesso o di altre condizioni; ma una moltitudine è enorme solo per il suo numero.
[6] Come in Annali 3:59; 12:14; Historiae 1:30; 3:68; 5:25; Agricola 2. Gli editori in genere non fanno caso a questo fatto. Dopo aver completato questo studio, il sottoscritto ha osservato il commento di Nipperdey: “humani generis, Sonst sagt Tac. stets in der gewöhnlichen Ordnung genus humanum”.
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