(segue da qui)
ADDENDUM II.
Poiché l'articolo precedente ha suscitato naturalmente critiche ostili, è bene ricordarne alcune tra le più importanti e, allo stesso tempo, introdurre alcune prove aggiuntive.
È stato sostenuto, ad esempio da Kampmeier (The Monist, gennaio 1911, pag. 112), che “il brano di Tacito è copiato da Sulpicio Severo” (Neque ulla re Nero efficiebat, quin ab eo jussum incendium putaretur. Igitur vertit invidiam in Christianos, actaeque in innoxios crudelissimae quaestiones; quin et novae mortes excogitatae ut ferarum tergis contecti laniatu canum interirent. Multi crucibus affixi aut flamma usti, plerique in id reservati, ut cum defecisset dies, in usum nocturni luminis urerentur. — Cronache 2:29). Si vede che, sebbene nessuno dei due autori abbia copiato “quasi alla lettera”, tuttavia le concordanze nella frase (qui in corsivo) sono in almeno due punti così marcati da escludere l'idea di un'origine indipendente. Ma quale è la dipendenza? Non c'è motivo di supporre che Sulpicio abbia preso da Tacito (a parte il fatto che la sua datazione è vicina al 400 E.C.). Anzi, sembra molto più probabile che l'autore del brano tacitiano abbia semplicemente elaborato il passo di Sulpicio, o forse ancora più probabile che ognuno dei due attinga da qualche fonte comune sconosciuta. A questo punto nulla può essere provato in modo decisivo.
È vano insistere sul fatto che Sulpicio abbia attinto apparentemente da Tacito nel descrivere le nozze innaturali di Nerone. Dice Tacito in Annali 15:37: “Ipse per licita atque inlicita foedatus nihil flagitii reliquerat quo corruptor ageret, nisi paucos post dies uni ex illo contaminatorum grege (nomen Pythagorae fuit) in modum solemnium conjugiorum denupsisset. Inditum imperatori flammeum, visi auspices, dos et genialis torus et faces nuptiales, cuncta denique spectata, quae etiam in femina nox operit”. E Sulpicio (Cronache 2:28, 2): “Adnotasse contentus sum hunc eo processisse ut Pythagorae cuidam in modum solemniorum conjugiorum nuberet; inditumque imperatori flammeum, dos et genialis torus et faces nuptiales, cuncta denique quae vel in femina non sine verecundia conspiciuntur spectata”.
Le coincidenze sono sottolineate in corsivo e si vede ancora più chiaramente che i brani non sono indipendenti. Tuttavia, non è affatto detto che Sulpicio stesse citando da Tacito. Infatti, Tacito stesso aveva le sue fonti (siccome scrisse a quasi due generazioni di distanza da Nerone), che ci sono del tutto ignote, ma che quasi certamente dovettero contenere alcune specifiche come quelle che appaiono ora nei due storici. Non c'è quindi alcuna buona ragione per cui i due non possano citare da una fonte comune. Fenomeni di questo tipo si incontrano ad ogni passo nell'indagine storico-letteraria.
Ma anche se si ammettesse che Sulpicio stia citando da Tacito in questo caso, non potremmo concludere che anche nell'altro caso stesse citando da Tacito. Si tratterebbe di una vera e propria inferenza da particolare a particolare che nemmeno Mill permetterebbe. Se, invece, sapessimo che Sulpicio aveva citato da Tacito in un caso, e se sapessimo che il brano tacitiano esisteva al tempo di Sulpicio nell'altro caso, allora potremmo concludere con probabilità che Sulpicio stesse citando il brano come se provenisse da Tacito nell'altro caso. Perfino allora non potremmo concludere (in presenza delle considerazioni già addotte) che il brano fosse stato effettivamente scritto da Tacito, se non fossimo sicuri che Tacito non fosse stato interpolato: e sicuri non possiamo mai esserlo. Alla luce di tutti questi fatti, e soprattutto di questi tre se, pare impossibile trovare in Sulpicio una prova valida contro la tesi qui sostenuta. In effetti, sembra strano chiamare in causa testimoni come Sulpicio Severo e i falsificatori del carteggio Paolo-Seneca. Quando tutti i testimoni più antichi sono muti, romperai il silenzio con parole pronunciate solo 300 anni dopo l'evento in questione? Stabilirai da un oscuro cronista odierno qualche aspetto importante dell'incendio di Londra del 1666, qualche momento drammatico supremo non attestato da Pepys o da ogni altra autorità? Questo non è il metodo della critica storica.
Alcuni, disperati, hanno fatto riferimento ad alcuni versi di Giovenale, di Seneca, di Marziale; ma non sembrano degni di nota. Al meglio e al massimo possono attestare ciò che non è in discussione, ossia che tali punizioni crudeli e inusuali non furono così inusuali come potremmo desiderare o supporre. Ma ciò non è contro, ma a favore dell'ipotesi che il brano tacitiano sia fabbricato. Infatti, l'inventore avrebbe naturalmente inventato lungo le linee della conoscenza comune e non si sarebbe inutilmente opposto alle probabilità.
Alcuni anni fa fu richiamata con enfasi l'attenzione alla presunta testimonianza di quel notevole mosaico, l'“Ascensione di Isaia”, sul presunto martirio di Pietro sotto Nerone, e ora è richiamata, ad esempio da Kampmeier e da altri. Senza discutere il “Beliar” di questa “Ascensione”, può essere sufficiente citare il giudizio recentissimo di Weinel, che mostra notoriamente poca simpatia per la nuova critica (Neutestamentliche Apokryphen di Hennecke, pag. 205): “Sarebbe davvero molto interessante se avessimo qui una testimonianza più antica del martirio di Pietro a Roma; ma ciò non si può certificare”.
È un grave errore supporre che i primi scrittori cristiani non avessero avuto la tentazione di citare testimonianze profane sulla storicità di Gesù, perché “quella fu un fatto assodato” presso i “loro lettori cristiani”. Essa non fu “un fatto assodato” nemmeno per tutti i “lettori cristiani”. L'esistenza dei Doceti e di altri gnostici ancora più illuminati, come pure la feroce polemica di Tertulliano, di Ireneo ed altri, mostra chiaramente che questo cosiddetto “fatto” fu messo in discussione, e persino rifiutato, in numerosi ambienti cristiani. Inoltre, questi scrittori cristiani non scrissero affatto solo per “lettori cristiani”. Spesso avevano in mente un pubblico pagano. Le loro frequenti “Apologie” ed “Esortazioni” furono rivolte esclusivamente ai “gentili” o ai “greci”. Inoltre, il loro estremo bisogno di attestazioni storiche è testimoniato inequivocabilmente dalla loro ripetuta invenzione di proprio siffatte attestazioni, ad esempio in Giuseppe e in Tertulliano (già citati, pag. 243), in Giustino e in altri.
Il punto importante, anzi decisivo, dell'intera questione, che forse non è stato sufficientemente sottolineato nell'articolo originale e che non può essere sottolineato con troppa forza, è questo: Non si nega ora, e non si è mai negato, che Nerone possa aver perseguitato cristiani, possa averne addirittura giustiziati alcuni, forse Paolo o Pietro, o entrambi. Su questo punto non possediamo nessuna prova decisiva. Il sottoscritto non ha alcun interesse a mettere in discussione troppo severamente le presunte testimonianze di una persecuzione neroniana. È la persecuzione tacitiana, descritta nel famoso capitolo quarantaquattresimo, ad essere messa in discussione, in quanto certamente inspiegabile, e non solo non suffragata da testimonianze, ma praticamente esclusa da un silenzio ininterrotto in ogni luogo, anche laddove la sua fama avrebbe risuonato più forte e più a lungo. Ecco il nocciolo della questione. È vano accumulare accenni ad una semplice persecuzione neroniana, anche se fossero del tutto inequivocabili e non così irrimediabilmente equivoci; tutto ciò è irrilevante. È la persecuzione tacitiana che richiede una verifica, e nessuna si profila. Quando il cranio di un uomo è rotto, è inutile fissare l'attenzione sulla frattura del suo braccio. Ma poiché non si pretende che Tacito avesse inventato la storia in questione, screditandone l'autenticità screditiamo anche l'autenticità così com'è. Su ciò che potrebbe esserci alla base è inutile fare congetture. — Che questo resoconto tacitiano difficilmente possa essere accettata così com'è sembra sempre più chiaro anche alla coscienza critica liberale. Lo testimonia il recente lavoro di Geffcken, Aus der Werdezeit des Christentums.
Poiché è stato avanzato un documento apocrifo (“Ascensione di Isaia”), potrebbe essere opportuno ammetterne altri. Nel “Martirio di Paolo” (Lipsius, Acta Apocrypha, I, 102-107), riferito da Zahn al 150-180 E.C., troviamo l'Apostolo giustiziato da Nerone nel mezzo di una persecuzione feroce a Roma, la quale però è del tutto scorrelata all'incendio; il brano e il motivo tacitiano non solo non sono menzionati, ma sono chiaramente esclusi. Naturalmente l'intera storia è finzione; ma se il quarantaquattresimo capitolo, oppure qualunque tradizione coerente con quel capitolo, fosse stato noto all'autore dell'apocrifo, difficilmente è possibile che egli lo avrebbe contraddetto inutilmente mediante un'allusione necessaria. Ancora, negli Atti di Pietro (Lipsius, A. A., I, 45-103), secondo Schmidt risalenti al 200-210 E.C., troviamo questo Apostolo pilastro a sua volta giustiziato sotto Nerone, ma dal prefetto Agrippa e per ragioni personali, avendo la sua predicazione allontanato molte mogli e concubine dai loro mariti e signori. [1] Al che Nerone si adira, avendo voluto punire Pietro ancora più severamente, rifiuta di parlare con Agrippa e medita lo sterminio di tutti i confratelli discepoli di Pietro, ma è dissuaso da una visione, e resta soddisfatto del solo sacrificio dell'Apostolo. Anche qui il resoconto tacitiano, insieme ad ogni tradizione simile, è decisamente escluso. A dire il vero, questo martirio è immaginario, almeno nei suoi dettagli; ma la semplice immaginazione mostra in modo convincente che la grande persecuzione neroniana in relazione all'incendio, come dettagliata nel quarantaquattresimo capitolo, non aveva posto nella coscienza cristiana di quell'autore, e quindi di quell'epoca. Quando passiamo agli Atti di Giovanni, vediamo quanto questi romanzieri fossero ansiosi di collegare le loro fantasie a fatti storici. Se un tale collegamento fosse stato possibile nel caso dei martiri di Paolo e di Pietro, sarebbe stato effettuato con zelo. L'assenza totale di questa persecuzione tacitiana dalla coscienza cristiana attestata, nella quale essa si sarebbe radicata indissolubilmente, non può essere compresa senza mettere in discussione la realtà della persecuzione stessa.
Infine, l'intera storia presenta tutte le caratteristiche di una finzione, di una espansione graduale nel pensiero cristiano. Quanto più ci avviciniamo all'evento in questione, tanto più vago e più oscuro diventa. Mentre lo tocchiamo, ecco! si dissolve nell'aria. Per cento anni dopo il suo presunto evento, la potente persecuzione non è menzionata. Gli scrittori cristiani più antichi, quelli che certamente avrebbero avuto una conoscenza personale o quasi personale della presunta esecuzione (dei cristiani come incendiari), non tradiscono alcuna consapevolezza che qualcosa del genere fosse mai avvenuto. Essi parlano fluentemente delle sofferenze e dei martiri dei loro confratelli. Alcune allusioni al presunto olocausto neroniano si trovarono direttamente sul loro cammino. Perché lo evitano tutti quanti? Nel secondo secolo l'idea di Nerone come persecutore comincia a presentarsi sempre più frequentemente, e i dettagli della sua crudeltà si moltiplicano sempre più. Eppure non c'è traccia di alcuna persecuzione tacitiana, di alcuna correlazione con il grande incendio; al contrario, una correlazione è implicitamente esclusa in maniera categorica. Alla fine, nel quarto secolo, è suggerito, in una corrispondenza fabbricata, che cristiani ed ebrei fossero stati puniti come incendiari. Infine, nel quinto secolo, leggiamo i dettagli nel laconico Sulpicio, “il Sallustio cristiano”. Nel famoso quarantaquattresimo capitolo degli Annali di Tacito troviamo un'elaborazione ancora maggiore. Sembra irresistibile il suggerimento che il capitolo rappresenti una fase avanzata di un processo che era andato lentamente avanti per un centinaio di anni. Tali evoluzioni non sono familiari allo studioso di Storia? Esita a riconoscerli quando sono rivelati molto meno chiaramente in documenti profani? Non abbondano i precedenti di tali interpolazioni? Non ci fu forse il motivo più forte e perfino la tentazione di dare una vernice storica all'intera dottrina cristiana, soprattutto al suo concetto centrale, il Gesù? Non osa forse pure Tertulliano (nel brano citato) raffigurare Tiberio convinto da “informazioni dalla Siria Palestina”? Giustino (Apologia 1, 35, 48) non si appella forse ancora prima ad un rapporto ufficiale fittizio del processo di Gesù? [2] In effetti, a meno che io non abbia torto, questa tensione verso la storicizzazione, soprattutto nella Chiesa occidentale, è stata il principale fattore determinante degli scritti e dei dogmi cristiani antichi.
È allo stesso tempo interessante e importante notare che Windisch (Theol. Rundschau, aprile, 1912, pag. 117), pur recensendo senza simpatia Ecce Deus, sembra ammettere praticamente in pieno le affermazioni di questa Parte IV, dicendo: "L'inautenticità dei brani su Cristo in Giuseppe è dimostrata eccezionalmente; altrettanto pienamente degne di attenzione mi paiono le sue deduzioni (Ausfuchrungen) riguardo Tacito”.
NOTE
[1] È questa un'eco delle parole di Clemente Romano: “La gelosia allontanò le mogli dai mariti” (6)?
[2] ἐκ τῶν ἐπὶ Ποντίου Πιλάτου γενομένων ἄκτων.
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