sabato 14 settembre 2024

ECCE DEUS — IL SEGRETO DEL CRISTIANESIMO PRIMITIVO

 (segue da qui)

IL SEGRETO DEL CRISTIANESIMO PRIMITIVO 

85. Ora possiamo anche vedere chiaramente perché la propaganda fu all'inizio un segreto. Pure ciò fu una necessità, ma una necessità di prudenza. Se i cristiani avessero proclamato fin dall'inizio la loro crociata contro gli dèi, non nell'orecchio, non nell'oscurità, ma alla luce e sui tetti delle case, essi si sarebbero estinti davvero presto; perché sarebbero entrati subito in conflitto con le autorità statali, che tolleravano con cura gli dèi in quanto forze conservatrici della società, e sarebbero stati soppressi rapidamente ed efficacemente. Da qui l'estrema prudenza che contraddistinse i primi sforzi dei missionari. Da qui anche le mirabili ingiunzioni di Matteo 10: un capitolo importantissimo, che nessuno può capire se non sull'ipotesi della segretezza primitiva del culto, e per giunta di un culto monoteistico di guerra santa contro l'idolatria. “Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi: siate dunque saggi come serpenti e innocui come colombe”. Questa massima gli antichi cristiani sembrano averla tenuta a cuore ed è realmente meraviglioso con quanto successo evitarono la collisione con le autorità statali; ciò costituisce un alto tributo alla loro intelligenza generale e alla saggezza dei loro metodi. Solo nel secondo secolo, quando il loro numero si fu grandemente moltiplicato, quanto cominciarono a nutrire una certa fiducia nella loro forza crescente, cominciano a mettere da parte i consigli di prudenza e ad attaccare il politeismo sempre più apertamente, e a coinvolgersi non innaturalmente in un aspro conflitto con la polizia e, alla fine, a far  ricadere su di sé una persecuzione sistematica. 

86. Sembrano essere state questa segretezza necessaria del culto e questa prudenza imperativa nella sua prima proclamazione a imporre ai propagandisti un dialetto distinto, un modo di parlare parabolico o simbolico, che è ancora preservato nel nostro Nuovo Testamento, specialmente nei Vangeli, ed è stato fonte di malintesi infiniti. È questo l'esoterismo che Wellhausen riconosce nei famosi quattro versetti (Marco 4:11, 12, 33, 34), e che ci viene incontro, di fatto, quasi ad ogni passo quando ci addentriamo attraverso la più antica letteratura cristiana. Questa è la spiegazione, e la sola spiegazione possibile, delle parabole, o quantomeno della loro prominenza sorprendente nel discorso del Gesù.  Anche se dovessimo concedere ogni altra cosa ai critici moderni, rimarrebbe per sempre incomprensibile perché un maestro dovrebbe impiegare la parabola in tale misura e grado così straordinari; soprattutto, perché dovrebbe insegnare intenzionalmente in una maniera che neppure i suoi discepoli intimi, tanto meno la moltitudine di estranei, avrebbero potuto capire. Dobbiamo ripetere con Jülicher: “O gli evangelisti o Gesù”: cioè il liberale “Jesusbild”. Quest'ultimo è assolutamente ed effettivamente inconciliabile con gli Evangelisti. Ma questi ultimi sono altrettanto inconciliabili con il senso comune, nella misura in cui siano intesi alla lettera. Devono allora essere intesi non letteralmente, ma simbolicamente, esotericamente, proprio come essi stessi richiedono in quei quattro versetti inestimabili. 

87. Più specificamente, ora vediamo perché i Vangeli non parlano mai di dèi pagani e del loro rovesciamento, ma così continuamente della cacciata dei demoni. Questa fraseologia fu parte integrante del dialetto parabolico che avevano ritenuto saggio usare. Sarebbe stato avventato, e avrebbe potuto essere disastroso, parlare o persino scrivere del rovesciamento di Zeus e Apollo e Artemide e Minerva e Giunone e Serapide e Iside e Attis e una legione di altri. Fu molto più sicuro, oltre che molto più efficace e poetico, parlare dell'Uomo come posseduto da una legione di demoni, che sono espulsi e annientati dalla parola onnipotente del Gesù, al che l'Uomo stesso, vestito e in buona salute, si siede (come discente e seguace) ai piedi del suo Salvatore. Che fosse la missione speciale del nuovo culto quella di sconfiggere l'idolatria dominante, è espresso in termini simbolici di vivacità sorprendente in Marco 1:24. Proprio all'inizio del suo ministero, al suo primo miracolo, a Cafarnao, il Gesù espelle il demonio che, parlando al plurale, grida: “Che ne è di noi e di te, Gesù Nazareno? Sei venuto per distruggerci. Noi sappiamo chi sei, il Santo di Dio”. Questo indemoniato, notate, è nella sinagoga, e molto opportunamente, perché fu tra gli Ellenisti, i greci semi-giudaizzati e gli ebrei semi-grecizzati, che il grande movimento prese la sua origine. 

88. Arriviamo ora alla spiegazione del nome Gesù, che ha trionfato su ogni altro nome sotto il cielo. La crociata originaria, anche nel corso del secolo, come testimoniano gli apologeti, fu contro il politeismo; e si potrebbe pensare che la nuda dottrina del Dio unico, il cui nome è Dio, sarebbe stata portata avanti, come in effetti è in Octavius. Ciò, però, non fu possibile senza sferrare un attacco più o meno esplicito agli innumerevoli dèi; e questo, come abbiamo appena visto, era ciò che la prudenza proibiva in quanto impraticabile. Se la nuova dottrina dovette essere espressa prudentemente e simbolicamente, allora nient'altro sembrò così adatto come definire l'errore infinito dell'umanità una malattia, una possessione ad opera di demoni, che furono considerati esseri reali e i principi attivi negli dèi stessi. L'incitamento a tale metafora, se mai ce ne fosse stato bisogno, fu dato dal linguaggio dell'Antico Testamento, dove il cedimento di Israele, il suo ritorno all'idolatria, è rappresentato come una malattia che Jahvé guarisce. Ma, in realtà, la metafora era così a portata di mano che difficilmente poteva essere stata evitata. Se ora questo paganesimo, questa possessione da parte di dèmoni, fu concepita come una malattia, allora chi rovesciò il paganesimo, espulse il demone, guarì la malattia, dovette essere concepito come un guaritore, un medico, un Salvatore. Naturalmente questo stesso potere fu realmente Dio o il culto di Dio; ma fu concepito personalmente e nel dialetto simbolico dovette essere designato con un nome proprio e rappresentato come un uomo, secondo l'uso universale. Ma quale dovette essere il nome? C'è bisogno di poche argomentazioni ulteriori per mostrare, come le considerazioni già esposte hanno chiarito, che il nome da preferire sopra tutti gli altri non fu nient'altro che il nome travolgente di Gesù. Sia nella sua forma greca che in quella ebraica esso fu perfettamente adatto al fine in vista: servire da nome della Divinità sotto l'aspetto o la persona, non di Re, né di Creatore, né di Giudice, né tantomeno di Padre, ma del Dio guaritore, salvatore; dd è proprio sotto questo aspetto, che è allo stesso tempo un aspetto di eternità, che egli appare sulla scena nei Vangeli, in particolare nel più primitivo, come Marco, e lì recita il grande rôle di salvezza, del trionfo su tutti gli dèi-demoni della terra. 

89. Non va supposto, tuttavia, che questa rappresentazione altamente pittorica sarebbe piaciuta ad ogni mente che fosse in sincera simpatia con l'idea generale. In alcun modo. La diversità delle nature individuali è fin troppo grande. Ci furono indubbiamente molti che non si sarebbero ritrovati pienamente con questa raffigurazione, proprio perché non fu originata da loro stessi. Noi tutti sappiamo l'enigma: Cos'è un professore? Risposta : Un uomo che ha qualche altra opinione. Indubbiamente ce ne furono molti sia tra gli ebrei che tra i greci, nel cui Talmud e nelle cui filosofie non poche opinioni sembrano avere come loro unica raison d'être la loro differenza da tutte le altre. A meno che, allora, non si supponga che la natura umana sia stata del tutto peculiare in quei primi circoli cristiani, dobbiamo essere pronti a trovare molte rappresentazioni diverse di questo stesso concetto centrale di Dio come Salvatore. Di fatto, tne roviamo una grandissima diversità, anche nell'ambito dello stesso Nuovo Testamento; e non appena oltrepassiamo questo canone, la diversità diventa quasi smisurata. È così grande, invero che quasi milleottocento anni di ferma coercizione ecclesiastica non sono riusciti a ridurla a qualcosa di simile all'armonia; e più di cento anni di sforzi instancabili, di apprendimento sconfinato e di acume penetrante non sono stati capaci di scoprire e mostrare la presunta unità originale di una personalità centrale. In realtà, le differenze penetrano fino alla stessa radice dell'intera dottrina e non lasciano assolutamente nulla su cui ci sia accordo, al di là dell'unica concezione del Dio unico, che viene in qualche modo e sotto qualche forma in soccorso dell'umanità afflitta ed errante. 

90. Queste profonde diversità sembrano mostrare da sé in modo convincente che ci fosse all'inizio non un unico cervello o una personalità carismatica e onnipresente, ma che molte menti di vario tipo, da quelle altamente sensibili, figurative e fantasiose a quelle profondamente pensose, sottilmente argomentative e cosmico-filosofiche, fossero fin dall'inizio al lavoro sullo stesso grande problema di una religione monoteistica universale.  Per la precisione, non ci furono semplicemente punti di vista indipendenti e ampiamente separati; ci sarebbero stati anche molti eclettici e sincretisti, che riconobbero una certa dose di bellezza o appropriatezza o verità in dottrine estranee e cercarono di armonizzarle: di fonderle insieme in una sola. Le nostre Scritture del Nuovo Testamento sono ampiamente il risultato di questi sforzi ben intenzionati. Un esempio lampante è offerto dal quarto Vangelo, che cerca di fondere in un unico testo le rappresentazioni del Dio-Salvezza come il Logos eterno e come il Gesù dei Sinottici — con quanto successo è inutile discutere. 

91. Va aggiunto che una forma di discorso era praticamente necessaria per la natura essenziale dell'intero movimento, intento al rovesciamento del politeismo e all'introduzione ovunque del culto del Dio unico. L'obiettivo dello sforzo fu far conoscere Dio, [1] rivelarlo agli uomini. Nel nuovo culto egli fu fatto conoscere, fu rivelato; in una parola, egli apparve agli uomini. Ma non solo apparve così agli uomini: in questa apparizione, in questa rivelazione, in questa nuova dottrina, si parlò di lui (per scopi puramente figurativi e simbolici e per le ragioni già esposte) come di un uomo, che andò di qua e di là a proclamare la nuova dottrina, che scacciò i demoni ed eseguì l'intera opera di salvezza che fu compiuta in realtà dal culto stesso. Così, per fare un'illustrazione sorprendente, quando i proseliti gentili furono ammessi nel Regno a pari condizioni con gli ebrei, sebbene alcuni conservatori più severi all'inizio si opposero, il Gesù è rappresentato mentre benedice i “piccoli” (come questi proseliti o convertiti furono chiamati) e dice: “Lasciate che i bambini piccoli vengano a me e non vietateli, perché di essi è il regno di Dio”. Che il riferimento qui sia esclusivamente a questi proseliti è provato altrove in questo volume. Ognuno deve ammettere che la dichiarazione simbolica di questo fatto, come un atto del Gesù, è incomparabilmente più impressionante di quanto potesse mai esserlo qualsiasi mera dichiarazione prosaica e letterale. 

92. Ma tali metafore recarono con sé un corollario importante: ossia che il Gesù apparve come un uomo, nella carne. [2] Questo corollario fu semplicemente un elemento di coerenza poetica o figurativa, e non ebbe ulteriore validità storica rispetto alla stessa frase-immagine originaria. Tuttavia, quando un'immaginazione riottosa iniziò un percorso del genere, non fu possibile dire dove si sarebbe fermata. Alcuni avrebbero potuto accontentarsi della dichiarazione che Egli apparse come uomo, apparse nella carne; altri avrebbero voluto sapere dove, come e quando, e le risposte sarebbero state fornite in vari modi e con diversi gradi di minuzia. Marco e Giovanni avrebbero potuto rassegnarsi a tacere relativamente a nascita e infanzia, mentre Matteo e Luca escogitarono antefatti mutualmente esclusivi. Ma non solo sarebbe potuto sembrare necessario dare un resoconto della nascita, certamente in ogni caso sarebbe  stato necessario dare qualche resoconto della partenza dalla terra e del ritorno al cielo, da dove egli fu rivelato in questa pienezza dei tempi. Su questo punto non ci sarebbe potuta essere così tanta diversità di fantasia, sebbene potrebbe  essercene stata una gran quantità. La nozione di un Sofferente Divino, persino di un Dio morente, era presente nell'antica mitologia, che questi studiosi di religione, quali furono i primi cristiani, avrebbero naturalmente conosciuto. Inoltre, il famoso passo isaianico sulla sofferenza e sulla morte del servo di Jahvé (Isaia 53:13-53:12) stette a portata di mano, e non poté e n mancò di impressionare la più antica coscienza e fantasia cristiana, come mostra chiaramente il caso di Filippo e dell'Eunuco (Atti 8:27-40). 

93. Ciò non fu tutto, comunque. Forse persino più determinante fu il passo meraviglioso della Repubblica (2:361 D), dove trovarono raffigurate vividamente la persecuzione e la crocifissione del Giusto ideale. Da qui il Gesù poteva essere chiamato direttamente il Giusto. Una volta che la morte sulla croce fu elaborata in questo grande quadro quasi storico, la resurrezione e l'ascensione non poterono trattenersi. Per esprimere questa resurrezione fu  usata la stessa parola, Anastasis, che era già stata impiegata  (sembrerebbe) per indicare l'instaurazione o l'inaugurazione [3] del nuovo Dio-Salvatore sul trono dell'universo. Naturalmente, la resurrezione e l'ascensione non furono concepite naturalmente come due cose, ma come una sola, come un sorgere e un'ascesa verso le altezze del cielo. L'uso precedente del termine Anastasis, nel senso di “innalzamento”, spiega perché la resurrezione fosse innaturalmente distinta dall'ascensione. Nel disegno precedente troviamo espressi o impliciti tutti gli elementi della fede primitiva trovati in quel credo più antico, 1 Timoteo 3:16: “Grande è il mistero della pietà: il quale si è manifestato in carne, è stato giustificato in spirito, è apparso agli angeli, è stato predicato tra le genti, è stato creduto nel mondo, è stato accolto nella gloria”. Ma va ricordato che coloro che cantarono per prima queste righe capirono cosa stavano cantando, e furono chiaramente consapevoli che il significato fosse simbolico. 

94. Non ci si poteva aspettare che una parabola elaborata potesse essere proseguita fino alla fine senza cadere in molte contraddizioni e persino assurdità. Tutti i retori ci avvertono di non insistere sulle metafore. Nei Vangeli la metafora è stata spinta molto a fondo, e con conseguenze tremende per la storia umana. 

95. Non va dimenticato in alcun modo che ci sono molte altre nozioni importanti nei Vangeli, come quella del Figlio dell'uomo, del Figlio di Dio e del Cristo, che finora non abbiamo introdotto per nome. Per alcuni aspetti queste nozioni sono abbastanza facili da capire, per altri non così facili. Nessuna loro discussione è necessaria al momento, perché si tratta sempre e in ogni caso di idee e nient'altro che idee, concezioni di esseri celesti. Qualunque fosse la loro genesi, e per quanto furono infine fuse, sebbene imperfettamente, con la nozione del Gesù, il Dio-Salvatore, ciò non può influenzare seriamente il nostro verdetto generale sulla questione già trattata. In particolare, il connubio tra il concetto del Gesù e quello del Cristo, che sembra in larga misura l'opera dello scriba ebreo Saulo, è un problema difficile di grande interesse. Ma la sua soluzione non può disturbare i risultati finora ottenuti. Possiamo allora posticipare la sua trattazione per il momento. 

96. Nello sviluppo del dramma di salvezza ci furono molti elementi mitologici a portata di mano, non pochi venerabili nella loro antichità, discesi da Nippur e da Babilonia, dal Tigri e dall'Eufrate, e forse anche dall'Indo e dal Gange. Sarebbe strano se questi non avessero suggerito o plasmato o caratterizzato alcuni degli episodi e descrizioni e persino degli elementi di pensiero elaborati nei Vangeli, nel Nuovo Testamento, nell'antica letteratura, fede e adorazione cristiana. Le approfondite ricerche degli assiriologi, in particolare, ne porteranno indubbiamente alla luce un numero sempre maggiore, e tale illuminazione è molto gradita e preziosa. Ma sarebbe un errore (a mio avviso) attribuire a questi elementi più o meno passivi un potere originante o attivamente formativo. Non erano essi stessi vivificanti; avevano bisogno di essere vivificati. Si prestavano facilmente all'attività creativa del nuovo spirito, del nuovo insegnamento, della nuova religione. Fu questa idea creativa a introdurli e ad assimilarli, e a trasformarli nel tessuto vivente del Vangelo, del credo e del rituale, proprio come l'idea formativa dell'organismo coglie e converte nella propria fibra organica il materiale nutritivo che rientra nella sua portata. Appare allora per sempre inammissibile spiegare il cristianesimo a partire dall'Epica di Gilgamesh o da Babilonia o dall'India o da altrove, sebbene tutto ciò possa aver contribuito in misura maggiore o minore a nutrire l'idea organica che si è dispiegata nella chiesa storica, nel credo e nelle scritture. Se non fosse stato per il germe, l'idea nascente, tutti questi elementi e altri milioni avrebbero continuato a giacere inerti e senza vita, come avevano fatto per mille anni. [4

NOTE

[1] Da qui i termini genuini protocristiani di Gnosi e gnostico. Conoscenza di Dio e adorazione di Dio sono le due stelle polari dei cieli protocristiani. 

[2] In realtà, l'idea del Logos o Verbo che dimora negli uomini era già stata naturalizzata in ampi circoli. “La dimora del Verbo è l'Uomo” (Odi di Salomone 12:11). Non importa dire con Harnack: “Qui non c'è nessun pensiero del Logos greco”: il passaggio dall'uno all'altro era troppo facile e allettante. 

[3] Confronta il saggio “Anastasis” in Der vorchristliche Jesus

[4] Confronta  le mie parole nell'American Journal of Theology (aprile 1911, pag. 265): “Mentre il pianeta si muove velocemente intorno al sole, raccoglie una pioggia di masse meteoriche, la polvere di mondi distrutti, e le incorpora nella sua crosta. Così pure, mentre la grande idea del Gesù, il Dio guaritore, salvatore, espulsore di demoni, circolò attorno alla coscienza circummediterranea, difficilmente poté mancare di attrarre e attaccare a sé molti frammenti vaganti di fedi smembrate, e l'identificazione di questi può ben impegnare l'attenzione dell'orientalista e del filologo comparato; Ma il nucleo e la massa centrale della “nuova dottrina” sembrerebbero risiedere più vicino a casa, e non devono essere cercati sulle rive del Gange o del Nilo, nell'Epica di Gilgamesh o nelle iscrizioni di Creta”. 

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