lunedì 15 aprile 2024

Gli scritti di San Paolo — PRIMA EPISTOLA AI TESSALONICESI (L'ira ha colpito gli ebrei fino alla fine)

 (segue da qui)


2. L'ira ha colpito gli ebrei fino alla fine

Il panegirico del ministero di Paolo è seguìto da un brano bizzarro (2:13-16) dove si parla successivamente della docilità con la quale i Tessalonicesi hanno ascoltato la predicazione di Paolo, le persecuzioni che sono state loro inflitte da loro compatrioti; l'analogia che, in seguito a queste persecuzioni,  esiste tra la loro situazione e la situazione delle chiese di Giudea perseguitate dagli ebrei; i crimini incessanti commessi da questi ebrei che hanno messo a morte il Cristo e i profeti, che sono nemici di tutti gli uomini, che impediscono perfino a Paolo di evangelizzare i pagani; infine l'ira che li ha colpiti per sempre. Ho detto che questo brano è strano. Lo è innanzitutto per il suo contesto che sovrappone i pensieri più diversi, senza che possiamo sapere, se non per divinazione, quale sia il pensiero principale. Lo è soprattutto per il pensiero finale che fa riferimento all'«ira» di cui gli ebrei sono stati vittime «per sempre». Ma quell'«ira» che dapprima ci confonde, non tarda ad illuminarci. Un esame serio ci convince, infatti, che essa non corrisponde a nulla nella vita di Paolo e che, per trovarle qualche senso, occorre rivolgersi agli anni che hanno seguìto la morte dell'apostolo. L'«ir che ha colpito gli ebrei «per sempre» li ha colpiti solo dopo la morte di Paolo e, di conseguenza, il brano che la menziona non è di Paolo: ecco un primo risultato acquisito. Immediatamente abbiamo la spiegazione di 16a dove leggiamo che gli ebrei impediscono a Paolo di parlare ai pagani. Questo testo risale ad un'epoca in cui la predicazione cristiana si rivolgeva ai pagani; ma esso non si comprende sotto la penna di Paolo che, salvo ad Atene, si è sempre rivolto o ad ebrei o a proseliti del giudaismo, e che d'altronde non ha dovuto essere tentato dal rinnovare l'esperienza di Atene il cui insuccesso fu completo (Atti 17:24 che tenta di attenuare il fallimento è un ritocco contraddetto da 32). 

Nell'anno 70, gli ebrei sperimentarono una catastrofe che i cristiani attribuirono all'ira di Dio, ed è del tutto naturale pensare che il testo 2:16b faccia allusione a questo evento. Ma vi è una seria difficoltà. Il versetto 14 menziona le persecuzioni che gli ebrei hanno inflitto alle chiese di Giudea: «Voi siete diventati gli imitatori delle chiese di Dio che sono nella Giudea, perché avete sofferto da parte dei vostri compatrioti i mali che esse hanno sofferto da parte dei giudei»Nell'ipotesi che adottiamo provvisoriamente, questo ci informa come, intorno al 100 o 120, ci si rappresentava la situazione delle chiese di Giudea negli anni che precedettero la rovina di Gerusalemme: si credeva che queste chiese fossero state allora perseguitate dagli ebrei. Ma Eusebio ci porta un testo che ci informa anch'esso sullo stesso punto, che a sua volta ci dice ciò che i posteri pensavano della situazione delle chiese di Giudea nel 66. Ma questo testo (Historia ecclesiastica 3:5, 3) ci dà una tutt'altra versione della storia. Secondo esso, i cristiani lasciarono, nel 66, la Palestina e si recarono nella Perea. Era per sfuggire alla sorte insostenibile che riservavano loro gli ebrei? Per niente. Essi lasciarono la Palestina per sfuggire all'esercito romano che si apprestava a venire, per sfuggire a mali futuri,  mali che non avevano ancora provato, ma che avrebbero dovuto soffrire se fossero rimasti. Si attribuiva addirittura la loro fuga ad un intervento celeste, si diceva che un oracolo li avesse ingiunto di fuggire, oracolo al quale nessuno avrebbe pensato se il male fosse già stato presente:

Un oracolo rivelato ai notabili della chiesa di Gerusalemme avvertì il popolo di quella chiesa di lasciare quella città prima della guerra e di recarsi in una città della Perea chiamata Pella. I cristiani uscirono da Gerusalemme, si recarono in quella città, così che i santi abbandonarono la metropoli dei giudei e la Giudea tutt'intera. 

Le chiese della Giudea non sono state affatto perseguitate dagli ebrei intorno al 70, o se si vuole — è l'unica cosa che importa qui — i posteri non hanno affatto creduto ad una persecuzione delle chiese di Giudea da parte degli ebrei negli anni che precedettero la rovina di Gerusalemme. Aggiungo che i «santi» che, a quella data, abitavano la Palestina erano — salvo che a Gerusalemme — in piccolissimo numero perché potessero rifugiarsi tutti a Pella, e «le chiese di Giudea» non esistevano prima del 70. Sapevamo già che il testo 1 Tessalonicesi 2:14, con le sue chiese di Giudea perseguitate dagli ebrei, non poteva essere di Paolo. Siamo ora in grado di affermare che esso non ha in vista gli eventi del 70, ma che intravvede un'altra situazione. 

Quale? Per trovarla non ci resta che aprire la prima apologia di Giustino (31;6) dove leggiamo questo: 

Nella guerra recente di Giudea, Bar-Kokhba, il capo della rivolta, infliggeva ai cristiani e ai cristiani soli terribili supplizi, se non consentivano a rinnegare e a bestemmiare Gesù Cristo.

Si vedrà presto (pag. 55) perché Bar-Kokhba ha voluto obbligare i cristiani a rinnegare Gesù Cristo. Per il momento ci basta constatare che questo personaggio, che si è rivoltato contro Roma all'epoca di Adriano, ha perseguitato i cristiani e che questi cristiani risiedevano nella Giudea, poiché le operazioni di Bar-Kokhba si sono svolte tra Beter e Gerusalemme. Il versetto 2:14 diventa comprensibile solo quando lo si applica agli eventi del 132-135.  

Il brano 2:13-16 è stato scritto dopo la rivolta del 132. E di conseguenza l'«ira» (divina) di cui parla 16b designa i terribili castighi (ritenuti derivati da Dio) con cui la nazione ebraica ha pagato quel tentativo di indipendenza. Ma perché il testo dice che quell'ira ha colpito gli ebrei «per sempre»? Applicata agli ebrei massacrati o venduti come schiavi, l'espressione «per sempre» sarebbe una stupida ingenuità. Ma gli ebrei passati a fil di spada o ridotti in schiavitù non furono gli unici castigati. Proprio coloro che conservarono la vita e la libertà furono crudelmente colpiti dal divieto impartito loro sotto pena di morte di avvicinarsi a Gerusalemme (Eusebio 3:6, 3). Ecco l'«ira» che ha colpito «per sempre». — «Per sempre», vale a dire fino al giorno in cui questo brano è stato scritto. L'autore nota che al momento in cui egli scrive, gli ebrei non sono ancora autorizzati ad avvicinarsi a Gerusalemme. Una tale osservazione non si comprenderebbe nemmeno all'indomani stesso della punizione. Essa ci avverte che il castigo è antico e che, malgrado la sua antichità, è sempre in vigore. Concludiamo che il brano 2:13-16 è stato scritto molto tempo dopo la vittoria romana del 135. Di chi è? Del cattolico del 165 circa che ha scritto 2:1-12. È lo stesso autore che, dopo aver censurato gli apostoli del montanismo, denuncia l'odio con cui gli ebrei perseguitano il nome cristiano. Perché questo è il pensiero dominante dell'istruzione 2:13-16, pensiero al quale gli altri servono da transizione o da introduzione. L'autore si lamenta della malignità degli ebrei nei confronti dei cristiani (ritroviamo peraltro la stessa lamentela sotto la penna di Giustino 1 Apologia 36:3; Dialogo 16:4; 131:2; dell'autore del martirio di Policarpo 13); ma egli è visibilmente soddisfatto di vedere che l'ira di Dio ha colpito per sempre questi uomini perversi. 

In sintesi, la versione paolina comprende la maggior parte della nostra epistola, proporzione che non raggiunge da nessun'altra parte. Essa tratta non della colletta per i santi di Gerusalemme o di un incidente comune, come ciò ha luogo nelle altre epistole, ma del regno del Cristo. Ad eccezione dell'epistola ai Romani, è nella nostra epistola che si trova il contributo più importante alla storia del pensiero di Paolo.

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