sabato 6 aprile 2024

Gli scritti di San Paolo — EPISTOLA AI FILIPPESI (VERSIONE PAOLINA)

Il Dio di Coincidenza

Può qualcuno negare che

Una cosa dopo l'altra

In sequenza e logica

Mai vista prima

Non può essere che la

Interferenza di un Dio

Determinata a provare che

Ognuno che pretende

Di conoscere ora

Una cospirazione è

Demente?

(Kent Murphy)

«Fa' finta di venerare un dio morto e la gente ti lascerà in pace».

(Zami)


Le lettere paoline sono autentiche? Se non lo sono, perché dovrebbero importare più delle lettere ignaziane, delle “lettere” di Pietro, delle pastorali? Forse per una ragione: sono nate tra i Simoniani, i Cerdoniti e i Marcioniti. Poi sono state cattolicizzate goffamente. Ma i Simoniani, i Cerdoniti e i Marcioniti erano storicisti? Sì, lo erano. 

Dunque, se le epistole di Paolo sono totalmente fabbricate, allora la conclusione è inevitabile: i loro autori credettero in Gesù che, per quanto divino, operò sulla terra (se per morirvi o per predicarvi non importa qui). Ma da dove attinsero quel credo? Non dalla “Storia ricordata”. Dopotutto stiamo parlando di Simoniani, di Cerdoniti, di Marcioniti. Cosa c'è mai tra loro e la “Storia ricordata”? No, essi attinsero quel credo da un vangelo. Più precisamente, da un proto-vangelo. Il più antico di tutti.

Per esso valga il verdetto di Bruno Bauer:

Abbiamo risposto alla domanda di cui il nostro tempo si è tanto occupato, ossia se Gesù sia il Cristo storico, mostrando che tutto quello che il Cristo storico è, tutto quello che di lui viene detto, tutto quello che noi sappiamo di lui fa parte del mondo della rappresentazione, e proprio della rappresentazione cristiana, e quindi non ha nulla a che fare con un uomo che appartenga al mondo reale. La domanda riceve così una risposta ed è eliminata per tutto il tempo futuro.

(Critica della storia evangelica dei sinottici, pag. 308, mia traduzione)

Contano le probabilità qui. Una storiella è all'origine di tutto. Quella storiella contiene tracce precise di un Gesù storico? La risposta è no. 

Quella storiella contiene almeno tracce implicite, occultate e nascoste, per quanto non più riconoscibili, di un Gesù storico? La questione è indecidibile. Non lo sapremo mai. 

E se si scomodassero le probabilità? Bene, pure le probabilità depongono contro l'ipotesi della storicità di Gesù. Prendi la classe delle figure mitologiche o mitologizzate che si conformano al paradigma dell'Eroe divino.

Di quella classe, ben 2/3 sono figure mitologiche, il restante 1/3 sono figure storiche che sono state miticizzate. 

Quindi c'è poco da fare: se le epistole sono del tutto inventate, si può solo speculare se qualche figura menzionata da Flavio Giuseppe sia il Gesù storico. Ma sempre col dubbio lancinante intorno alla verità dell'identificazione proposta. Non c'è verso per eludere il dilemma.

Se invece le epistole sono autentiche, almeno per la maggior parte, il verdetto è definitivamente negativo: un Gesù storico non è mai esistito sulla terra. 

Se gli “accademici” sono tanto ottusi e ciechi da non vederlo, allora non meritano, semplicemente, di venire ascoltati. Probabilmente stanno mentendo. Probabilmente continueranno a farlo.

GLI SCRITTI DI SAN PAOLO

IV

L'EPISTOLA AI FILIPPESI

LE EPISTOLE AI TESSALONICESI, LE EPISTOLE PASTORALI, L'EPISTOLA AGLI EBREI 

traduzione nuova con introduzione e note

di

JOSEPH TURMEL

INTRODUZIONE

EPISTOLA AI FILIPPESI 

Paolo evangelizzò Filippi nel corso della sua seconda missione (47-48). Dopo un breve soggiorno, che non sembra aver superato qualche settimana, egli ne fu espulso dalla polizia di Roma. Malgrado il poco tempo di cui dispose, raccolse diverse adesioni. Prima di partire egli «riunì ed esortò i fratelli» nella casa di Lidia, donna di origine pagana ma affiliata al giudaismo, a cui il Signore aveva «aperto il cuore perché fosse attenta a ciò che diceva Paolo» (Atti 16:12-40).

Pochi anni dopo (58), sul punto di terminare la sua terza missione, Paolo passò di nuovo per Filippi (Atti 20:1, 6) senza che noi potessimo dire quanto tempo vi restò. Questa è la chiesa alla quale si rivolge la parte dell'epistola ai Filippesi che è di origine paolina.


I. — VERSIONE PAOLINA. 

Ciò che, nella suddetta epistola, appartiene a Paolo, si riduce a una trentina di versetti divisi in cinque gruppi con i quali dobbiamo dapprima fare conoscenza. 

Il primo gruppo comprende, oltre ad 1a e 2, i versetti 1:12-18. Paolo «informa» i Filippesi della sua situazione. È prigioniero a Roma. Nel pretorio, e anche altrove, si vuole sapere perché è privato della sua libertà. E, quando si apprende che è a causa del Cristo, ci si informa su questo personaggio. È vero che le informazioni fornite non sono sempre dettate dalla simpatia, e che tendono talvolta a creare difficoltà all'apostolo. Ma quest'ultimo vede solo una cosa: che la sua prigionia ha fatto conoscere «la causa del Cristo» a una folla di gente che non la conosceva ancora e che, insomma, si è «volta al profitto del vangelo»

Quale è quella «causa del Cristo» che è menzionata qui solo per via di allusione? Altri testi ce lo hanno detto. [1] Paolo annunciava agli ebrei che la promessa di Dio ad Abramo sarebbe stata prossimamente realizzata dal Cristo; spiegava che, conformemente a quella promessa, il popolo ebraico sarebbe stato presto liberato dal giogo romano e che l'antico regno d'Israele sarebbe stato restaurato. Questa è la causa del Cristo di cui si discute ora a Roma, che si giudica diversamente, ma che non si ignora più. 


Il secondo gruppo si compone dei versetti 1:25-26, nei quali Paolo dichiara di essere convinto che la vicenda della sua prigionia prenderà una buona svolta e potrà ritornare a Filippi. 

Il terzo gruppo si estende su 2:19-3:1, ad esclusione di 2:20-21 che saranno studiati più oltre. Vi si parla soprattutto di Epafrodito. Questo «apostolo», vale a dire questo delegato messo dai Filippesi a disposizione di Paolo, si è attenuto coscienziosamente al suo incarico; egli ha servito Paolo fino ad affrontare la morte. Ma ha appena avuto una malattia grave, in seguito alla quale è stato preso da nostalgia. Paolo lo rimanda nel suo paese e chiede che gli si faccia buona accoglienza. Egli annuncia nello stesso tempo ai Filippesi che conta di inviare presto tra loro Timoteo per avere loro notizie. Ed esprime ancora una volta la convinzione di poter recarsi a breve lui stesso a Filippi. 


Al quarto gruppo appartengono i due versetti 4:2-3. Nel primo Paolo esorta le due donne Evodia e Sintico a cessare il loro litigio e a riconciliarsi. Nel secondo si rivolge ad un intermediario e gli domanda di accingersi a quell'opera di riconciliazione. 

I versetti 4:2-3 sollevano due domande. Innanzitutto una questione di data. Quando Paolo li ha scritti, aveva appena insegnato recentemente sulla situazione della chiesa di Filippi, poiché si preoccupa della disputa tra due donne di quella chiesa e consiglia di farla finire. Ma in 2:19-3:1 scrive per raccomandare Epafrodito ai suoi compatrioti, annuncia ai Filippesi che invierà da loro Timoteo per avere loro notizie. Egli dunque non ne aveva ricevute da molto tempo. Concludiamo che i due frammenti 2:19-3:1 e 4:2-3 appartengono a due lettere diverse e sono state raccolte artificialmente dagli editori in modo da formare un'unica epistola. 

Seconda domanda. Quale è l'intermediario al quale Paolo si rivolge in 4:3? L'espressione di cui si serve per designarlo, gnèsie sunzughé, significa, a credere alle traduzioni, «fedele compagno». Ma Clemente di Alessandria, facendo allusione al nostro testo, diceva (Stromata 3:52): «Paolo non esita in un'epistola a salutare la propria moglie». Ed Eusebio (Historia ecclesiastica 3:30) cita questo estratto come un'autorità. Clemente ed Eusebio, lo si vede, sono convinti che la parola sunzugos, anche accompagnata da un epiteto al maschile, indichi una moglie. Essi conoscevano il greco. Si può dunque pensare che la loro interpretazione sia in regola con le rivendicazioni della filologia. se lo si accetta, non si sarà imbarazzati a identificare la «fedele sposa» di cui parla il testo. Raccogliamo le informazioni che ci danno gli Atti 16:14-15 sul primo soggiorno di Paolo a Filippi:

Una donna, di nome Lidia, mercante di porpora della città di Tiatira, timorata di Dio, ascoltò e il Signore le aprì il cuore affinché si legasse alle parole di Paolo. Quando era stata battezzata, lei e la sua casa, ci fece quella proposta: Se voi mi giudicherete fedele al Signore, entrate nella mia casa e dimorateci. E lei ci costrinse, parébiasato émas. 

Che sia il Signore o qualsiasi altra causa che abbia «aperto il cuore» di Lidia, ciò che è sicuro è che quella donna si mise in testa di avere Paolo sotto il proprio tetto, e che arrivò ai suoi fini. Paolo alloggiò da Lidia. Ma l'esperienza ci dice molto di più. Lei ci insegna che il cuore umano ha le sue leggi, e che certe situazioni recano con sé conseguenze inevitabili. Paolo ha vissuto intimità con Lidia. Con lei ha pagato il suo tributo alla natura. Facendo ciò non ha violato alcun impegno, non ha offeso alcun pregiudizio. Non ha avuto quindi nulla da nascondere. Non ha affatto avuto bisogno di ricorrere ai segni cabalistici che ci presenta la corrispondenza di Mazzarino con Anna d'Austria, ai modi misteriosi che Bossuet impiegò con Madame de Mauléon, alla mezza riserva alla quale il cardinale de Boisgelin si credette obbligato nella sua corrispondenza con la contessa di Gramont. Rivolgendosi a Lidia, le ha dato il titolo che autorizzavano le loro antiche relazioni. Ecco dove conduce la traduzione patrocinata da Clemente di Alessandria ed Eusebio. Ecco la moglie che questi due dotti hanno visto in 4:3, ma che non si sono affatto preoccupati di identificare. 

Tuttavia, la traduzione di Clemente d'Alessandria ed Eusebio non è riuscita a imporsi. Adottata nel XVI° secolo da Erasmo, Lefèvre d'Etaples, Cajetan, Catharin e, ai nostri giorni, da Renan (che per giunta identifica la moglie con Lidia, Saint Paul, pag. 148) essa è stata respinta dal grandissimo numero dei critici che, il più sovente, non la menzionano nemmeno. E non è difficile vedere la causa di questo discredito. Essa non risponde all'esaltazione mistica da cui Paolo è ritenuto animato nelle sue epistole. Essa è smentita dalle stesse parole di Paolo che, dopo aver permesso il matrimonio ai Corinzi, aggiunge (1 Corinzi 7:7): «Vorrei che tutti gli uomini fossero come me». Inutile dire che queste obiezioni non hanno alcun valore per noi che, dietro i testi mistici incontrati fin qui, abbiamo riconosciuto un Paolo fittizio. 


Il quinto gruppo è formato da 4:10-22 (da cui occorre probabilmente scartare 13). Paolo dichiara di aver ricevuto i sussidi che i Filippesi gli hanno inviato per tramite di Epafrodito, e li ha ringraziati, non senza lasciare loro discretamente intendere che hanno un po' tardato (10) e che, in ogni caso, potranno ricominciare (14). Si riconosce generalmente, al seguito dell'Ambrosiaster e di Erasmo, che 18 deve essere tradotto: «Ho ricevuto tutto» [ciò che mi avete inviato]. È quindi proprio una ricevuta di ritorno che egli dà, nello stesso tempo in cui dà un congedo a Epafrodito che ha servito da committente. È nella natura delle ricevute di ritorno essere consegnate il più presto possibile. Paolo ha dovuto quindi cogliere la prima occasione favorevole per inviare la sua. Ma forse questa si è fatta attendere a lungo? Ascoltiamo Paolo. «Io sono nell'abbondanza», il che equivale lo stesso a «Io sono ricolmo». Egli non ha quindi ancora consumato le provviste ricevute; ne ha usufruito appena, per quanto ne abbia attinto: il ricevimento delle offerte ha appena avuto luogo. 

Esso ha appena avuto luogo. E di conseguenza Epafrodito il committente è arrivato recentemente presso Paolo; egli ha lasciato Filippi solo da qualche giorno, e ha potuto dare all'apostolo notizie del tutto fresche dalla sua chiesa. Ma in 2:19-3:1, Epafrodito, che è al servizio di Paolo da un tempo considerevole, ritorna nel suo paese in seguito a una grave malattia, e Paolo si prepara a mandare Timoteo dai Filippesi per avere loro notizie. I nostri due testi sono in disaccordo. E poiché la loro storicità non può essere sospettata — che interesse un falsario avrebbe avuto a fabbricarli? — rispondono a situazioni diverse. Già il confronto di 4:2-3 con 2:19-3:1 ci aveva portato ad un risultato analogo.

Concludiamo che la versione paolina dell''epistola ai Filippesi comprende almeno due lettere distinte, una nella quale Paolo ringrazia i Filippesi per le offerte che gli hanno appena inviato per tramite di Epafrodito, l'altra nella quale l'apostolo dà congedo allo stesso Epafrodito, desideroso, dopo un lungo servizio e una grave malattia, di ritornare presso i suoi. Quella seconda lettera alla quale appartengono 1:12-18 e 2:19-3:1 è stata scritta da Paolo a Roma nel corso della sua prigionia. Quanto alla prima lettera, che si compone di 4:2-3 e di 4:10-22, avremmo un punto di riferimento approssimativo, se sapessimo in quale epoca Epafrodito entrò al servizio di Paolo. Non lo sappiamo. Possiamo solo ipotizzare che ciò ebbe luogo non nel 48 quando Paolo abbandonò Filippi per la prima volta dopo un soggiorno di poche settimane, ma nel 58. In quella data Paolo era arrivato alla mezza età. I Filippesi, vedendolo allontanarsi da loro per la seconda volta, avrebbero potuto pensare che gli sarebbe stato utile avere sotto mano un servo devoto. In quella ipotesi, Epafrodito imbarcatosi con l'apostolo nel 58 avrebbe fatto, pochi mesi più tardi, la sua comparsa a Filippi da dove sarebbe ripartito con le provviste da Paolo, e la ricevuta di ritorno che seguiva immediatamente sarebbe del 59. 

Ho detto che il brano 4:2-3 appartiene alla lettera 4:10-22. Ciò è probabile ma non certo. Questi due versetti hanno potuto costituire una nota separata scritta tra il 47 e il 58. In questo caso la versione paolina comprenderebbe tre lettere.   

NOTE

[1] Si veda l'Epître aux Romains, pag. 16.

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