mercoledì 27 settembre 2023

Il censimento dell'anno 6 e la rivolta

 (segue da qui)

§ 81) Il censimento dell'anno 6 e la rivolta. — L'anno 759 di Roma (6 E.V.) si era iniziato pieno di promesse per il popolo d'Israele. La casta sacerdotale era riuscita a far sentire la sua voce a Roma contro Archelao, il figlio e continuatore di Erode il Grande, e si pensava che ormai, destituito Archelao, la libertà avrebbe finalmente arriso ai figli d'Israele. Tutti quindi erano in attesa di grandi eventi, e molti vedevano già col pensiero ricostruito l'antico regno di Davide.

Per questo la Pasqua dell'anno 6 era stata una Pasqua di aspettazione e di liete speranze. Ma il triste risveglio non doveva tardare. Difatti poco dopo veniva bensì destituito Archelao dal trono di Giudea; ma l'autorità romana, temendovi l'anarchia, ordinava la riunione, all'Impero, della Giudea, sottoponendo questa alla giurisdizione di Cirenio, che già governava la vicina Siria. A Cirenio pertanto incombeva adesso l'obbligo di eseguire, per prima operazione, il censimento dei nuovi sudditi. E Cirenio, a mezzo del suo procuratore Coponio, emanava gli ordini opportuni, mentre le forze imperiali entravano nella nuova provincia.

All'apprendere l'ordine del censimento, e al vedere il paese presidiato dalle truppe romane, i giudei si sentirono scuotere nelle più intime fibre, ed il vecchio sentimento messianico-zelota, che era già emerso furibondo alla morte di Erode, nuovamente esplodeva, dall'uno all'altro capo della Palestina. Le masse difatti presentivano che quel censimento era l'operazione iniziale, per nuovi vincoli e per nuovi tributi, percui il nuovo regime si sarebbe risolto in una recrudescenza di servitù. Giacchè alla servitù ed al tribto già dovuti ai sacerdoti, si sarebbe aggiunta la servitù ed il tributo dovuti allo straniero. Non è quindi da meravigliare se il popolo, trovandosi in uno stato di malcontento generale, ed essendo sobillato da parecchi agitatori (tra cui principale il nostro protagonista con tutta la sua «scuola»), abbia cercato qua e là di sollevarsi, rifiutando di lasciarsi censire.

Di fronte a tanta opposizione, i sacerdoti, con a capo il pontefice Gioazàro, consci che nessuna resistenza agli ordini di Roma avrebbe avuto buon esito, cercarono di indurre il popolo all'obbedienza. Ed in questo modo le autorità romane portarono a termine il censimento, agendo con sollecitudine, per timore che, prolungandosi le operazioni, qualche scintilla avesse dato fuoco alle polveri. Ma poichè dopo chiuse le operazioni censuarie i movimenti popolari continuavano, specie contro i sacerdoti e contro il pontefice, le autorità romane, scorgendo nelle apparenze esterne soltanto una impopolarità del pontefice, dstituivano Gioazàro, che d'animo conciliativo non aveva voluto usare la violenza contro il popolo, e nominavano in suo luogo l'energico ed ambizioso Anna, rimasto poi celebre negli annali giudaici e cristiani.

Nel frattempo il movimento insurrezionale si era esteso a tutta la provincia, ed era penetrato nelle masse più disparate. All'avversione antica — ma limitata ed attenuata dall'ossequio per la religione — contro i sacerdoti, che avevano monopolizzato, sfruttandolo, il culto di Jahvé, si andava adesso accoppiando l'odio contro Roma, che, nuova Babilonia, osava accampare sopra il «popolo eletto» diritti sovrani. E poichè nelle menti giudaiche la lotta contro lo straniero presentava ricorsi storici di altre lotte, combattute con fanatismo e per zelo alla vecchia «Legge» (la quale aveva consacrato Jahvé a unico signore d'Israele), tali antiche lotte vollero ricordare al popolo i nuovi «Zelanti», organizzatori del movimento, per meglio amalgamarne la compagine e tenerne desto lo Spirito. Derivava che, a somiglianza dei vecchi seguaci di Mattatia, i quali avevano voluto chiamarsi «zelanti», anche quei popolani si chiamarono zelanti, e non già secondo il vecchio concetto farisaico di pii e tranquilli osservatori della Legge; bensì secondo il più recente concetto messianico-apocalittico, di attuatori fanatici della Legge stessa, in quella parte che prometteva l'avveramento del regno messianico.

La lotta stava dunque per iniziarsi. E poiché l'idea di un Messia (condottiero), scelto da Jahvé, era stata sempre immanente in mezzo agli ebrei, e legata al concetto di servitù politica, quell'idea tornava adesso persistente, propagandata da una rifioritura apocalittica molteplice. Mancava soltanto l'uomo, che avesse impersonato l'idea, e si fosse messo a capo del conseguente movimento.

Giuda Galileo non era nato per guidare una guerra. Egli aveva visitato i vari monasteri dell'Oriente, e, come Apollonio, ne aveva riportato concezioni religioso-filosofiche, e la convinzione della necessità di purificare il culto di Jahvé. Più che la tempra di un militare quindi, egli possedeva la tempra di un profeta e di un tribuno, la cui virulenza di linguaggio è quasi sempre aliena dal sangue. Era di quegli uomini che sanno affascinare per la parola robusta e incisiva; un trascinatore di turbe quindi, simile forse all'Orfeo della leggenda, ed il cui originario piano tendeva a liberare il popolo dalla servitù sacerdotale, collocandolo a contatto diretto colla divinità. Senonché l'occupazione della Palestina, da parte delle truppe di Roma, sopravveniva improvvisa a superare il piano pacifico da lui meditato. E poichè il Maestro aveva già iniziato la sua propaganda per proclamare Jahvè unico re e padrone d'Israele, sopravvenuta la forza di Roma, la quale tendeva a sostituire la propria autorità a quella di Jahvè, non poteva egli, da quel nuovo fatto, non sentirsi provocato a nuove recriminazioni. Da ciò la sua lotta contro il censo e contro l'autorità romana.

Ed infatti, la lotta contro l'intromissione di Roma negli affari giudaici si inquadrava negli sforzi del Maestro per la riforma del culto di Jahvé. E poiché il popolo accorreva ai suoi comizi, e nelle sue invettive contro sacerdoti e stranieri scorgeva i segni di una ispirazione dall'alto, l'idea ch'egli fosse il Messia tanto atteso si faceva strada in mezzo alle masse, ed il vecchio attributo messianico di «Salvatore» non tardava ad essergli riconosciuto dai più entusiasti suoi ammiratori. Derivava che il Maestro, quasi senza accorgersi, si trovava a dover impersonare il movimento incombente, alimentando, forse suo malgrado, [1] le speranze messianiche del popolo.

Dapprincipio l'autorità romana non credette di far caso delle piccole sommosse che cominciavano a manifestarsi qua e là. Straniera alla mentalità giudaica, non poteva immaginare la vastità del movimento che — da tempo incombente — si stava allora preparando, per tenersi pronto ad esplodere. D'altra parte non si capiva ancora, dall'esterno, se il movimento era a carattere politico od a carattere religioso, ed è noto che i romani si tenevano sempre estranei, nei moti delle province, aventi carattere religioso. L'autorità sacerdotale invece, più al corrente del movimento perché conoscitrice della sua natura messianica, non poteva non preoccuparsi delle conseguenze, ove il moto fosse proceduto avanti. Peraltro i sacerdoti sadducei non potevano non avversare un moto che, manifestandosi contro qualsiasi autorità, che non fosse Dio, non solo era diretto contro i Romani, ma era diretto anche contro i sacerdoti. Studiarono pertanto essi il modo migliore, per troncare sul nascere la rivolta. E poiché si era sparsa la voce che il «Maestro» andasse compiendo miracoli — data la messa in atto da parte sua di alcune pratiche imparate in Oriente — ce n'era abbastanza perché i sacerdoti lo ricercassero quale reo di un delitto comune, punito dal Deuteronomio, senza dare a vedere di volerlo perseguitare per la sua predicazione politica. 

Ed infatti, ogni volta che il potere costituito voglia combattere un avversario, che abbia ottenuto seguito in mezzo al popolo, non gli rimprovera mai le sue idee politiche, ma gli rimprovera fatti, costituenti reati comuni. Al quale proposito va rilevato che per la legislazione giudaica il miracolo non era un fatto soprannaturale, ma era un fatto, che poteva essere provocato da chiunque ne avesse avuto attitudine. E poiché i legislatori giudei, preoccupati di conservare la supremazia alla classe sacerdotale, sapevano quanto il miracolo potesse influire sulle masse, avevano classificato delitto tale fatto, disponendo la pena di morte per il profeta che avesse predicato una dottrina, e tale dottrina avesse confermato con miracoli. [2] Per contro avevano legiferato non doversi procedere contro il profeta che avesse promesso miracoli, ma tali miracoli non fosse poi riuscito a compiere. [3] Analogamente nel nostro medio evo i miracoli — che venivano detti allora «stregoneria» — erano condannati dai concili; mentre non venivano condannati coloro che, pur promettendo miracoli, non riuscivano ad attuarli. Nessuna meraviglia quindi se il Maestro di Galilea, predicando una dottrina in contrasto con quella dei sacerdoti al potere, ed essendosi acquistato il favore popolare anche col mezzo di miracoli, abbia urtato contro la condanna a morte proclamata dalla «Legge», e se, di conseguenza, un ordine di cattura sia stato spiccato contro di lui dall'autorità sacerdotale, in occasione della sua seconda venuta a Gerusalemme, per la Pasqua dell'anno 7 E.V. [4]

NOTE

[1] Che il Maestro sia stato contrario, o almeno esitante, a farsi proclamare pubblicamente «Messia» non può mettersi in dubbio. Dai Vangeli difatti appare chiaramente essersi il Maestro molto rammaricato, quando venne a sapere dai suoi discepoli che il popolo lo riteneva «Messia». Appunto per questo motivo egli ha vietato ai discepoli di propagare quelle dicerie. Perché se il Maestro avesse voluto decisamente porsi a capo di un moto rivoluzionario, avrebbe incoraggiato subito l'opinione che di lui si andava formando nel popolo, come han fatto tutti gli altri sedicenti Messia.

[2] Deuteronomio XIII, 1-5; XVIII, 20. Poiché gli zelatori attivisti del «Maestro» andavano divulgando la credenza che lo stesso fosse il Profeta di Jahvè (preannunziato in Deut. XVIII, 15), nulla di meglio per il potere sacerdotale che contrastare questa credenza, col sostenere in un pubblico processo che nella predicazione del Maestro galileo andavano ravvisati gli estremi dell'art. 5 cap. XIII, e non dell'art. 15 cap. XVIII. Veramente c'è contraddizione evidente tra il capo XIII, 1-2, ed il capo XVIII, 21 del Deuteronomio; ma di contraddizioni simili nei testi religiosi in genere ce ne sono a iosa.

[3] Deuteronomio, XVIII, 22.

[4] Il Loisy sostiene che la condanna del Gesù fu una condanna politica ed in conseguenza, secondo lui, deve essere stata pronunziata dal capo politico, cioè da Pilato. Tale ipotesi sarebbe fondata sulla scritta «Jesus (o meglio Judas) Nazarenus Rex Judaeorum» (J.N.R.I.), che secondo la tradizione sarebbe stata applicata sulla croce del condannato a distinguerlo dagli altri crocifissi con lui.

Senonché abbiamo visto che una discussione del processo davanti al procuratore romano dopo il dibattito davanti ad Anna non era possibile; d'altra parte dai Vangeli, riportanti la tradizione popolare, nulla risulta sul preteso carattere politico del processo, perché anzi tale carattere politico viene tuttora escluso dalla stessa Chiesa, nella cui tradizione orale è pur sempre Anna il maggior responsabile della condanna di Gesù. Inoltre è solo la voce «bestemmiatore» che noi rileviamo dai Vangeli quale accusa fatta al Maestro davanti al Sinedrio (Matteo XXVI, 65, cfr. anche negli episodi analoghi, Atti, VI, 11) ed in tale voce può ravvisarsi una violazione alla legge religiosa, ma non una violazione alla legge politica. Né il fatto della condanna per reato religioso può fare ostacolo ad un'iscrizione quale è quella tramandata dalla leggenda — seppure tale parte della leggenda deve accettarsi — perché il Re, in regime teocratico, è sempre disciplinato dalla legge religiosa. Che se poi aggiungiamo che i seguaci del «Maestro» andavano predicando che lo stesso fosse l'inviato di Jahvé, promesso in Deut. XIVVV, 15 (cfr. Atti, III, 22) non dovremo dubitare del carattere religioso del processo. 

Nessun commento: