lunedì 8 maggio 2023

Origini Sociali del CristianesimoLe religioni orientali a Roma

 (segue da qui)


Le religioni orientali a Roma.

È dall'Oriente che venivano i culti in questione. Avevano per loro il prestigio di un passato molto lontano, le cui origini si perdevano nella notte dei tempi, e quello di una storia meravigliosa in cui regolavano la vita di potenti nazioni.

A questo riguardo, la religione di Iside e di Osiride esercitava un'attrazione eccezionale. Un tempio era stato eretto alla coppia divina nel mezzo del Campo Marzio. Distrutto per ordine di Tiberio, non aveva tardato a risollevarsi dalle sue rovine e attirava un numero di devoti, e soprattutto di devote, molte di cui appartenevano alla migliore società. Le pitture scoperte in una casa romana, insieme a quelle, ben più ricche, di Ercolano e di Pompei, e completate da molteplici allusioni di autori latini, ci permettono di rappresentarci il culto che vi si celebrava. 

Davanti alla dea, vestita come una Madonna del medioevo, operavano sacerdoti senza barba, dalla testa rasata, vestiti con un'alba di lino bianco. Intorno a loro si affollavano iniziati dall'aria seria. Ogni mattina, al  richiamo rumoroso del sistro, simile all'appello delle nostre campane, aveva luogo una sorta di messa, con sermone, preghiere per l'Imperatore e l'Impero, aspersione d'acqua santa, congedo finale. Questo primo Ufficio era completato la sera dai pii vespri, con saluto a Iside, di cui si baciavano i piedi nel ritirarsi. Nelle date rituali si commemorava la fine tragica di Osiride, poi il suo ritorno alla vita, dovuto alle buone cure di Iside. Si praticava l'astinenza, la continenza, con grande disappunto di persone come Ovidio e Tibullo, i cui amanti mancavano all'appuntamento. [4] Poi la vita normale riprendeva, tanto più libera e gioiosa quanto era stata più compressa. Essendosi così associati alla scomparsa del Dio e al suo ritorno, i fedeli avevano la ferma speranza di non morire loro stessi per sempre, ma di partecipare al suo destino beato. Si riunivano in lui e si trattavano come fratelli. 

Attrazioni simili si offrivano agli amanti di emozioni religiose nei templi delle divinità d'Asia. Il più antico di tutti e il più famoso era quello che era stato dedicato, sul Palatino, a Cibele nell'anno 204 prima della nostra era. [5] Era stato dapprima esclusivamente riservato alla «Madre degli Dèi». Il culto del suo compagno Attis era stato escluso dall'autorità romana a causa dei suoi riti barbarici. Ma fu autorizzato più tardi da un decreto di Claudio, che ebbe cura di modificarlo scartandone i dettagli troppo scabrosi. Ogni anno si celebrava, al ritorno della primavera, la Passione, la morte e il ritorno alla vita del giovane Dio. Queste feste costituivano un elemento essenziale dell'anno liturgico. Così le troviamo iscritte, in pieno IV° secolo, molto dopo la conversione di Costantino, su un calendario romano che costituisce a questo proposito il nostro miglior documento.

Il 22 marzo aveva luogo l'«entrata dell'albero» (Arbor intrat). Un pino era stato appena abbattuto, in ricordo di quello ai piedi del quale il giovane Dio aveva trovato la morte. Era portato, dalla corporazione dei «dendrofori» o «portatori di alberi», all'interno del santuario. Lì si avvolgeva il tronco, come un cadavere, in strisce di lana. Lo si inghirlandava con violette, nate un tempo dal sangue di Attis, e vi si attaccava l'effigie della divina vittima. Il giorno successivo, il 24 marzo, era il giorno del «Sangue» (Sanguem). Era quello in cui Attis aveva subito la sua atroce mutilazione, quello in cui i frigi esaltati imitavano un tempo il suo sacrificio nella sua metropoli di Pessinunte. A Roma, dove una tale pratica aveva fatto scandalo, ci si accontentava di tagliarsi a vicenda, nel corso di danze frenetiche, al suono eccitante di cimbali e di tamburi. Il sangue scorreva in abbondanza, associando in una comunione mistica i fedeli al loro Dio, la cui effigie era in seguito sepolta. Il 25 marzo, considerato l'equinozio di primavera, commemorava la rinascita di Attis. Così era dedicato alla gioia (Hilaria). Era un giorno di gioioso carnevale, in cui ci si poteva travestire e permettersi tutte le fantasie. Il 26 era dedicato al «riposo» (requetio), il 27 alla purificazione degli oggetti del culto (lavatio) nelle acque dell'Almo, che sfocia nel Tevere proprio sotto le mura di Roma. Quell'ultima cerimonia dava luogo a una grande processione, in cui si vedevano i nobili camminare a piedi nudi davanti al carro della dea, che scortava il Sommo Sacerdote, vestito con una tunica di porpora, al suono di una musica rumorosa. Tali spettacoli colpivano vivamente l'immaginazione. 

Ancora più impressionante era quello del battesimo di sangue che si praticava nei misteri di Attis e di cui un poeta cristiano, Prudenzio, ha dato una descrizione realistica. Il fedele, coronato d'oro e circondato da bende, discendeva in una fossa coperta da una grata di legno. Un toro, ornato di fiori, con la fronte cinta da strisce d'oro, era spinto sulla grata, poi sgozzato con una lancia consacrata. Il suo sangue tutto caldo scorreva abbondantemente attraverso le aperture. Il miste lo riceveva con avidità su tutta la sua persona. Poi, quando ne era tutto grondante, usciva dalla sua fossa e riceveva gli omaggi dei suoi compagni. Questi lo consideravano un uomo nuovo misticamente rigenerato. Era di conseguenza sottoposto per qualche tempo, come un neonato, alla dieta del latte.

Quella purificazione per mezzo del sangue del toro non è priva di analogie con quella, di carattere più mistico, che si opera nella teologia cristiana per mezzo del sangue del Cristo, agnello divino. Un dettaglio rende la concordanza ancora più sensibile. Nel corso degli scavi effettuati nel 1608 in Vaticano per l'ingrandimento della basilica di San Pietro, si riesumarono, nelle sue immediate vicinanze, numerose iscrizioni che attestavano la pratica, sotto vari imperatori, dei riti in questione. Lì si ergeva dunque un tempio importante in onore di Cibele e di Attis, che completava quello sul Palatino. Meglio ancora, altre iscrizioni dello stesso tipo, trovate in Gallia e in Renania, attestano che i santuari delle province copiavano il loro rituale da quello del Vaticano. Insediandosi su quella collina, da dove avrebbero dominato il mondo, i Papi del XV° secolo non hanno fatto che prendere la successione degli antichi «arcigalli». Simbolo ben caratteristico della parentela che esiste tra il cristianesimo e le antiche religioni misteriche.

Siccome la «Madre degli Dei», la «dea siriana» ebbe a Roma, a partire dal regno di Nerone, un santuario molto frequentato, che si trovava sul Gianicolo. Anche lì le mutilazioni sacre, che avevano luogo, secondo lo Pseudo-Luciano, nel tempio di Geropoli, dovevano essere strettamente vietate. A contatto con il mondo romano, il culto si era singolarmente modificato. Aveva assunto una forma mistica che gli permetteva di rivaleggiare con quelli di Iside e di Cibele. È così che i fedeli si raggruppavano, in certi giorni, attorno a una tavola sacra. Comunicavano in un pasto sacro. Era per loro una sorta di anticipazione della felicità promessa nell'aldilà. La loro anima avrebbe lasciato il corpo solo per essere portata da un'aquila verso il sole e per godere di una beatitudine senza fine in compagnia della loro celeste patrona. 

È comprensibile che tali culti avessero sedotto molti romani e soprattutto romane. La concorrenza che si facevano gli uni agli altri, lungi dall'indebolirli, li consolidava perché, a dispetto delle loro molteplici differenze, tutti si accordavano nella comune preoccupazione di assicurare agli iniziati, per mezzo di purificazioni e di mortificazioni appropriate, la salvezza della loro anima e una beatitudine senza fine. Nessuno, d'altronde, cercava di imporsi a scapito dei suoi vicini. I fedeli potevano passare da una all'altra e unirsi contemporaneamente a diverse. Variando i loro investimenti aumentavano le loro garanzie. Questo regime di libera scelta era nella natura stessa dell'antico politeismo. 


NOTE DEL CAPITOLO 9

[4] OVIDIO, Amori 1, 8:74. TIBULLO, libro 1, elegia 3, versi 23-27.

[5] Si veda sopra, pag. 140, e Frantz CUMONT, opera citata, pag. 69 e seguenti.

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