lunedì 29 maggio 2023

Origini Sociali del CristianesimoIl Vangelo secondo Matteo

 (segue da qui)

Il Vangelo secondo Matteo. 

Come la raccolta degli scritti paolini ha provocato per reazione l'Epistola di Giacomo, così il Vangelo secondo Luca ha fatto sorgere un racconto concorrente della vita di Gesù, quello che si chiama «secondo Matteo».

A dire il vero, quest'ultimo esisteva già da molto tempo. Era addirittura il più antico di quelli che erano diffusi nella Chiesa. Tutto porta a credere, infatti, che non sia che una riedizione, notevolmente rimaneggiata, del Vangelo dei Nazareni o degli Ebioniti, che descriveva la carriera terrena del Cristo a nome dei suoi primi dodici discepoli. Quell'opera arcaica costituiva la grande costituzione delle comunità giudeo-cristiane della Transgiordania. Ma era ampiamente conosciuta negli ambienti cristiani della Diaspora, e anche lì faceva legge. Di buon'ora dovette essere conosciuta a Roma, e godervi di un grande credito. I numerosi palestinesi che affluivano nella capitale vi portavano con sé il loro libro preferito. L'apologeta Giustino vi si riferisce con insistenza in numerosi passi, in cui invoca come un'autorità decisiva le «Memorie degli Apostoli». Eppure, a dispetto della sua popolarità, questo antico rapporto necessitava di ritocchi. Innanzitutto la sua presentazione aveva qualcosa di ambiguo. Si dava come un resoconto collettivo dei Dodici. Ma era difficile accettare che tutti loro avessero tenuto nello stesso tempo la penna, ripetendo così il miracolo dei Settanta traduttori della Bibbia ebraica, per arrivare ad un testo identico. Occorreva, per la verosimiglianza dell'esposizione, che uno di loro avesse scritto per gli altri. Quell'unità di autore si imponeva tanto più in quanto gli altri Vangeli portavano un nome unico. Essi raccontavano la vita di Gesù secondo Marco, interprete di Pietro, secondo Pietro stesso, o Giovanni, il discepolo prediletto, o Luca, compagno di Paolo, o Tommaso, o Filippo, o Mattia o altri ancora. Tutti portavano il nome di un grande apostolo o di uno dei suoi rappresentanti. Perché il Vangelo dei Dodici mantenesse la sua credibilità tradizionale, anch'esso doveva essere individualizzato. 

Già nella sua forma primaria, pur facendo parlare l'intero collegio apostolico in prima persona, esso metteva particolarmente in mostra il pubblicano Matteo, che era seduto al banco della dogana quando il Cristo aveva posato lo sguardo su di lui e che, sapendo maneggiare il calamo, era più qualificato di ogni altro per intraprendere il racconto dell'epopea mistica. Senza dubbio il nome di questo testimone era stato preferito ad ogni altro perché si leggeva già in testa alla raccolta degli Oracoli del Signore e perché ricavava da questo primo ruolo un prestigio eccezionale. Appariva come un simbolo del tradizionalismo e una garanzia di ortodossia, ben più di quello di Luca, semplice collaboratore di Paolo, del grande patrono degli eretici.

Perché l'antico racconto dei Dodici, così attribuito a Matteo, potesse fare concorrenza al  primo libro a Teofilo, esso doveva risalire, al pari di esso, al di là del battesimo di Gesù, fino all'inizio della sua vita. Anch'esso doveva testimoniare, contro Marcione e i suoi seguaci, che il Cristo era veramente un uomo come noi, mostrando come era stato concepito, dove era nato, chi erano i suoi antenati. Così si sono formati i primi dodici capitoli del Vangelo secondo Matteo. Costituiscono come una controparte del racconto iniziale di Luca. Ne eliminano particolarità scioccanti, ne correggono alcune anomalie e introducono alcuni dettagli inediti che danno al mito della nascita del Cristo un aspetto tutto nuovo. 

Per ben mostrare nella persona di Giovanni Battista il precursore del Messia, l'autore del primo libro a Teofilo risaliva fino al suo concepimento e ne parlava più a lungo e con più dettagli di quello del Cristo. Il nuovo Matteo evita questi eccessi. Comincia col dare l'elenco degli antenati di Gesù. 

Quella genealogia veniva nel suo predecessore solo successivamente, dopo il racconto del battesimo. [113] Essa andava risalendo da Giuseppe a Davide per il ramo di Natan, che non aveva regnato, non per il ramo più illustre, ma piuttosto disdicevole, di Salomone; poi continuava fino al grande avo Abramo, e da lì sempre più in alto, attraverso i patriarchi, fino ad «Adamo figlio di Dio». Matteo è più specificamente ebraico. Non va oltre Abramo e parte da lui per scendere fino a Davide, fino a Geconia, l'ultimo re prima dell'esilio, e infine fino al Cristo, in tre tavole simmetriche, di cui ciascuna conta, molto artificiosamente, quattordici generazioni. Ma segue il ramo di Salomone, Roboamo e altri sovrani di Giuda, e si lascia così poco fermare dalla considerazione della loro cattiva condotta che introduce nella sua genealogia due peccatrici famose, «Raab la prostituta» e «la moglie di Uria».

Luca faceva annunciare il concepimento di Gesù mediante l'intermediazione dell'angelo Gabriele alla «vergine» Maria, la «fidanzata» di Giuseppe; senza preoccuparsi altrimenti di quest'ultimo, la cui omissione in tale circostanza poteva sembrare strana. Matteo sopprime quella scena, pur presupponendola. Annota, di passaggio, che «Maria, essendo stata promessa a Giuseppe, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo prima che avessero abitato assieme». Anche lui fa intervenire un Angelo. Ma è per spiegare a Giuseppe ciò che è appena accaduto. Così quest'«uomo giusto» conserva il suo onore. Può sposare la vergine senza essere il padre del bambino. [114]

In Luca, Gesù nasceva in un'umile mangiatoia e c'erano degli umili pastori a venire dapprima a visitarlo. Quella scena non è di piacimento a Matteo. La omette deliberatamente. Per lui, il Cristo è il re ideale. La sua venuta deve essere salutata dai grandi di questo mondo. Tre «Magi» vengono dall'Oriente, condotti da una stella. Essi vanno a trovare Erode, il sovrano della Giudea, e gli domandano: «Dov'è il re dei giudei che è appena nato?» I principali dei sacerdoti e gli scribi sono consultati, e rispondono con una citazione del profeta Michea che si riferisce a Betlemme. [115]

Luca faceva proclamare dagli Angeli: «Pace sulla terra agli uomini di buona volontà». Tutto, effettivamente, si svolgeva, nelle scene seguenti, nel modo più pacifico. Quella presentazione è ancora troppo semplice per Matteo. Bisogna che il Cristo, come molti altri eroi, sia, sin dalla sua nascita, in preda alla persecuzione. Erode, temendo di essere detronizzato da lui, vuole farlo uccidere. Egli sfugge ai persecutori grazie all'intervento di un Angelo, che lo fa andare in Egitto. Ma numerosi innocenti, tutti i bambini sotto i due anni, sono immolati al suo posto. Ecco un'entrata in scena drammatica, che sfugge veramente alla banalità. [116]

Per far nascere Gesù nella patria di Davide, Luca aveva cominciato col farvi venire da Nazaret suo padre e sua madre, in occasione del censimento ordinato da Augusto. Matteo non vuole che un evento di quella importanza sia dovuto a una circostanza fortuita. Dalla sua prospettiva, i genitori del Cristo sono stabiliti a Betlemme. È una circostanza fortuita a farli andare, al loro ritorno dall'Egitto, nel villaggio galileo. Siccome Erode è appena morto, Giuseppe è invitato da un Angelo a recarsi nel paese d'Israele. Teme di tornare in Giudea, dove regna ora Archelao. In seguito a un ulteriore avvertimento che Dio gli dà in sogno, si ritira verso nord, in una città chiamata Nazaret, adempiendo così all'oracolo secondo il quale «sarà chiamato Nazareno». [117]

In Luca, il bambino, ritiratosi in quella umile località, vi cresceva in sapienza e in grazia, fino al quindicesimo anno del regno di Tiberio, data memorabile tra tutte, quando Giovanni predicava sulle rive del Giordano. Matteo non vuole saperne nulla di una tale crescita, che fa di Gesù un bambino come gli altri. Passa senza transizione alla predicazione del Precursore, con la quale si apriva il Vangelo dei dodici Apostoli. Lascia anche cadere le precisazioni cronologiche dell'inizio, che non hanno più la stessa ragion d'essere dopo le scene precedenti e che stridono così stranamente nel suo predecessore. Si limita a scrivere: «In quel tempo apparve Giovanni Battista». [118]

Così le omissioni e le aggiunte di ogni tipo che si rilevano nei primi capitoli di Matteo si spiegano in funzione del testo corrispondente in Luca. Hanno per scopo di sostituirgli una presentazione migliore del Cristo Salvatore.

Dettaglio tipico, il narratore introduce un nuovo episodio solo spiegando che il fatto era stato predetto. Se Gesù fu concepito da Maria nelle condizioni che si sanno, «tutto ciò avvenne perché si compisse ciò che il Signore aveva annunciato per mezzo del profeta, dicendo: Ecco, la Vergine sarà incinta e partorirà un figlio, e gli si darò per nome Emmanuele». [119] È proprio nella città natale di Davide che doveva aver luogo la sua nascita, «perché così è stato scritto dal profeta: E tu, Betlemme..., non sei certo l'ultima tra i capoluoghi di Giuda, perché da te uscirà un capo che pascerà Israele, il mio popolo». Se andò nella valle del Nilo e tornò, fu «affinché si adempisse ciò che il Signore aveva annunciato per mezzo del profeta: Ho chiamato mio figlio dall'Egitto». Se  degli innocenti furono immolati al suo posto, «allora si adempì ciò che era stato annunciato per mezzo del profeta Geremia: si sono sentite delle grida a Rama, dei pianti e dei grandi lamenti; Rachele piange i suoi figli e non ha voluto essere consolata perché non sono più». Infine, venne ad abitare a Nazaret «affinché si compisse ciò che era stato annunciato dai profeti. Sarà chiamato Nazareno». [120] Quando Matteo, proseguendo la sua esposizione, richiamerà fatti conosciuti che si leggevano già nei suoi predecessori, non avrà la stessa preoccupazione di segnalare queste concordanze provvidenziali. Se le presenta qui, è al fine di garantire il suo racconto indicando la sua fonte. Luca la lasciava soltanto accennata. Lui ne fa l'oggetto di una dimostrazione. 

Lo stesso contrasto tra i due evangelisti traspare nel seguito del racconto e fin nei dettagli più insignificanti. Luca faceva pronunciare a Gesù, verso l'inizio della sua pubblica, una sorta di discorso programmatico, «in una pianura», dove prendevano posto presso di lui «un gran numero dei suoi discepoli e una grande moltitudine del popolo». Matteo trova la pianura troppo bassa per la dignità del predicatore. Lo fa salire «sul monte». [121] Quale monte? Quello dove conveniva che, tramite l'intermediazione del nuovo Mosè, Dio facesse conoscere la nuova Legge. È il Sinai del Vangelo, che si situa sul piano mistico, al di fuori di ogni geografia.

In Luca, Gesù diceva: «Beati voi, poveri, perché è a voi che appartiene il regno di Dio!». Ciò vuol dire, apparentemente, che i ricchi non vi avranno affatto parte. Pensiero davvero esseno, ben familiare ai primi cristiani di Palestina. Matteo mantiene la dichiarazione, dandole una forma impersonale. Ma aggiunge una parola che ne modifica singolarmente la tendenza: «Beati i poveri in spirito, perché è a loro che appartiene il regno dei cieli!». [122] L'osservazione è meno inquietante per i ricchi. Non c'è affatto bisogno per loro di rinunciare alle loro ricchezze. Basta loro di non tenervi troppo, di onorare la povertà nella persona degli indigenti e di alleviare, con il loro superfluo, la miseria d'altri. A quella condizione, essi avranno una parte al «Regno dei Cieli».

Si noti quell'ultima formula. Luca diceva: «il regno di Dio». Matteo non vuole profanare il nome divino. Lo sostituisce, come fanno, al suo tempo, i pii israeliti, con un termine più comune, meno carico di potenziale sacro. Questo solo dettaglio basta a mostrare quanto egli sia impregnato di spirito ebraico. 

Lo mostra ancora meglio nel seguito di questo stesso discorso. Il Vangelo che utilizzava Marcione faceva dire da Gesù: «Non credete che io sia venuto per compiere la Legge. Io non sono venuto per adempierla, ma per abolirla». Questo passo scabroso era stato soppresso dall'edizione ortodossa. Un testo diametralmente opposto gli è ora sostituito da Matteo: «Non credete», dice qui il Cristo, «che io sia venuto per abolire la Legge o i Profeti. Non sono venuto per abolirli, ma per compierli. Perché vi dico in verità: finché il cielo e la terra non passeranno, non ne scomparirà un solo iota né un solo tratto, finché non sia tutto adempiuto. Colui dunque che sopprimerà uno di questi minimi comandamenti e che insegnerà agli uomini a fare lo stesso, sarà detto il più piccolo nel regno dei Cieli. Ma colui che li osserverà e che insegnerà a osservarli, sarà chiamato grande nel regno dei Cieli». [123]

Diamo a queste generalità dei nomi propri. Si è trovato qualcuno che non ha temuto di sopprimere alcuni comandamenti ritenuti trascurabili e che, per questo fatto, appare qui tutto gracile. È Paolo, il cui nome, giustamente, è sinonimo di «piccolo». Di fronte a lui si è levato, come una delle «colonne» del cristianesimo primitivo, un apostolo che rappresentava l'osservanza integrale della Legge. È Cefa. Costui è chiamato a grandi cose. Gesù gli dirà più tardi, nel corso di questo stesso Vangelo: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. Ti darò le chiavi del regno dei Cieli e tutto ciò che avrai legato sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che avrai sciolto sulla terra sarà sciolto nei cieli». [124] È il trionfo della concezione giudeo-cristiana, la condanna discreta ma radicale del paolinismo. 

Insomma, lo spirito che anima lo Pseudo-Matteo è quello dei Nazareni di Transgiordania, che si considerarono i veri ebrei, gli autentici eredi di Mosè e dei Profeti. Non dimentichiamo che le comunità al di là del Giordano intrattenevano rapporti incessanti con quella di Roma. Uno dei loro rappresentanti più illustri, Egesippo, che si fece particolarmente distinguere per la sua grande cultura e per il suo attaccamento alla tradizione, venne nella capitale poco dopo la metà del 2° secolo e vi fece un soggiorno abbastanza lungo. Si preoccupava della purezza delle credenze e della loro continuità. Nessun dubbio che abbia conosciuto e venerato il Vangelo dei dodici Apostoli, che abbia cercato di farlo prevalere su ogni altro. L'opera dello Pseudo-Matteo, che ne dava un'edizione nuova, notevolmente ampliata e adattata ai bisogni del tempo, e che dovette apparire qualche tempo dopo la sua venuta, corrispondeva così bene alle sue vedute e si accordava così esattamente con la sua ortodossia che ci si può domandare se non sia proprio da lui che procede. In ogni caso, rappresenta un cristianesimo di essenza palestinese, in cui Giacomo, Cefa e Giovanni avrebbero potuto compiacersi.

Luca si era sforzato di mettere in rilievo l'accordo fondamentale dei due Testamenti, ma senza insistere sui dettagli delle concordanze, senza farne l'oggetto di una dimostrazione rigida. Aveva fatto prova, fin nei minimi dettagli, di questo gusto delicato, di questo senso della misura, che si afferma già nel suo prologo. Matteo procede alla maniera di un rabbino, che ragiona costantemente sui testi, che ci tiene a stabilire che tutto è stato detto da Mosè e dai Profeti e che tutto avviene secondo le loro predizioni. 

Insomma, i nostri due evangelisti si oppongono singolarmente l'uno all'altro ed è per una piacevole ironia della sorte che le loro opere si trovano associate in una stessa raccolta di Scritture dettate dallo Spirito Santo. Il loro accostamento, che si è operato a Roma, è una testimonianza eloquente della diversità delle correnti che si scontravano tra i cristiani della capitale, anche tra quelle la cui unione passa per esemplare. 


NOTE DEL CAPITOLO 9

[113] Luca 3:23-38. Matteo 1:1-16.

[114] Matteo 1:18-20. 

[115] Id., 2:1-6. 

[116] Luca 2:14. Matteo 2:13-18.

[117] Matteo 2:20-23.

[118] Luca 2:40; 3:1-2. Matteo 3:1.

[119] Matteo 1:22-23. Si veda Isaia 7:14. 

[120] Matteo 2:5-6; si veda Michea 5:1-2. Matteo 2:15; si veda Osea 11:1. Matteo 2:17-18; si veda Geremia 31:15. Matteo 2:23; si veda Genesi 49:26 (Settanta). Deuteronomio 33:16 (Settanta). Giudici 13:5.

[121] Luca 6:17; Matteo 5:1.

[122] Luca 6:20. Matteo 5:2.

[123] Matteo 5:17-19.

[124] Id., 16:18-19.   

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