mercoledì 19 aprile 2023

Origini Sociali del CristianesimoReligioni

 (segue da qui)

Filosofia.

I filosofi, molto diffusi e molto ascoltati in tutte le città greche dell'Asia, contribuirono attivamente a quell'opera di conciliazione, e ne diedero essi stessi l'esempio. Molti si proclamavano pitagorici, platonici, stoici. Ma con loro il pitagorismo, il platonismo, lo stoicismo avevano perso la loro antica rigidità. Ciascuno di questi gruppi si sforzava di prendere dagli altri ciò che vi trovava di meglio. D'altra parte, nessuno faceva appello alla sola ragione. Tutti rivendicavano credenze popolari, alcuni addirittura le mettevano in primo piano. Neopitagorici, neoplatonici e neo-stoici stranamente si rassomigliavano. Formavano delle specie di chiese concorrenti dove si aspirava a liberare le anime dalla servitù materiale, a salvarle dalla morsa del male, e accolsero con compiacenza nelle vecchie mitologie e nei vecchi culti tutto ciò che sembrava loro confacente a quella economia di salvezza.  Già nel I° secolo prima della nostra era il siro ellenizzato Posidonio aveva aperto la strada a questo sincretismo mistico nella famosa scuola che aveva aperto a Rodi e che raggruppò l'élite intellettuale del suo tempo. Aveva lasciato numerosi scritti attraverso i quali la sua influenza continuava a farsi sentire. Era lo spirito del suo insegnamento a dominare all'inizio della nostra era. Ma la filosofia non rimase confinata ai circoli ristretti di un'aristocrazia intellettuale. Nell'Asia greca come in Siria si rivolgeva direttamente alle masse. I moralisti itineranti andavano a predicare ad ogni venuto la dottrina salutare che permetteva alle anime di sfuggire alle potenze del male e finalmente spiccare il volo verso il cielo. Parlavano la lingua della gente, si interessavano alle sue credenze, alle sue pratiche quotidiane.

I Cinici avevano acquisito a questo proposito una grande reputazione. Stretti parenti degli stoici, i cui primi maestri si erano formati alla loro scuola, mantenevano con essi strettissimi rapporti, e facevano da venditori ambulanti delle loro dottrine. Li si vedevano, nelle piazze e agli incroci, facilmente riconoscibili per il loro armamentario professionale, un mantello leggero, una modesta bisaccia, un grosso bastone, alla ricerca di ascoltatori volontari che avrebbero potuto reclutare nel loro gruppo. Estranei alle convenzioni mondane, sobrie e continenti, predicavano la rinuncia alle gioie materiali e la graduale purificazione dell'anima, condizione essenziale per la sua guarigione, che doveva consentirle di sfuggire finalmente alla prigione del corpo per vivere immortale in un mondo etereo. Un asiatico di Bitinia, lo storico Arriano, fa rivolgere da Epitteto, lui stesso originario di Frigia, le raccomandazioni seguenti a un giovane che desidera dedicarsi a quella professione:

«Devi quindi cominciare a purificare la tua parte dominante, ed ecco quali devono essere i tuoi principi: la mia anima è la materia che io devo lavorare, come il falegname lavora il legno, come il calzolaio lavora il cuoio... Occorre che egli [il Cinico] cominci a considerare con grande cura, per venire in seguito a riferire la verità; bisogna che non si lasci sopraffare dalla paura... Conosci te stesso; sonda la divinità; non intraprendere l'azione senza di essa. Se ti incoraggia, sappi che vuole vederti grande o sconfitto. Perché ecco una gran bella cosa, inseparabile dal Cinico: non può evitare di essere percosso, come si percuote un asino, e bisogna che percosso ami quelli stessi che lo percuotono, perché egli è il padre e il fratello di tutti gli uomini». [10

Quella regola di vita avrebbe potuto essere formulata senza grandi cambiamenti per un discepolo del cristianesimo aspirante all'apostolato. Cinici e missionari cristiani si rassomigliavano parecchio. [11] In molti luoghi le prime aprirono la strada ai secondi, e i secondi furono spesso confuse con quelle, tanto più facilmente in quanto vennero spesso a regolarsi su di esse.

Religioni.

Le religioni stesse, o almeno alcune di esse, si trovavano molto prossime al cristianesimo. Dovevano subire la sua attrazione e reagire ad esso nella misura stessa in cui simpatizzarono con esso. L'osservazione vale soprattutto per quelle che erano diffuse nell'area ellenica. I greci d'Asia, come quelli della Grecia, avevano una grande venerazione per Zeus, che la teologia classica aveva reso il primo degli dèi. Templi antichi e rinomati gli erano dedicati, in particolare in Caria, dove affluivano non solo i devoti della regione, ma anche quelli della Lidia e persino della Misia. [12] Con il trionfo della monarchia imperiale, questo padrone supremo tendeva ad assimilare tutti i suoi subordinati. Gli stoici avevano contribuito molto a quell'evoluzione. Zeus era per loro il principio e il fine di tutti gli esseri. Tutti provenivano da lui e sussistevano per mezzo della sua azione incessante che assumeva le forme più diverse. Nell'aria egli si chiamava Era, nelle regioni inferiori Ade, nell'acqua Poseidone, nella terra Demetra, Estia, Rea. L'enumerazione dei suoi nomi e dei suoi titoli dava luogo a una litania senza fine. Non occorreva ai Greci né ai cristiani un grande sforzo d'immaginazione per identificare questo Padrone Sovrano con il Dio della Bibbia, che ha fatto il cielo e la terra con tutto ciò che vi si trova, e che governa l'universo. 

Un altro Dio si ergeva nell'Asia ellenica come concorrente di Zeus e attirava su di sé la pietà popolare. Era Dioniso, che, associato alla fortuna di Alessandro, aveva trionfato con lui nel paese conquistato. Un po' dappertutto associazioni di devoti erano fondate in suo onore per beneficiare della sua potente protezione. Tale era quella degli «artisti dionisiaci della Ionia fino all'Ellesponto», che ebbe successivamente la sua sede sociale a Teo, a Efeso, a Mionneso, a Lebedo, e ci si abbandonava ogni anno a manifestazioni rumorose in onore del suo patrono. [13] Alcuni di questi gruppi, di un carattere arcaico, celebravano il loro dio in «orge» o «baccanali» drammatici, nel corso dei quali scorrevano il latte e miele, ma soprattutto il vino, dono di Bacco, e dove si squartava vivo un animale sacro che partecipava alla sua natura divina, un vitello o un toro, per mangiare la sua carne ansimante e bere il suo prezioso sangue in una comunione rituale. Travestiti da capre o capretti, al suono acuto del flauto che scandivano le grida stridenti di «Evoé! Evoé!», baccanti e baccanti andavano di qua e di là come posseduti dallo spirito divino, fino al momento in cui, nel loro «entusiasmo», cadevano sfiniti. Nei momenti più patetici di quella «furia» divina, di questo sacro delirio, alcuni formulavano oracoli che si raccoglievano con pia cura. Altri gruppi praticavano «misteri» di un'essenza più delicata, fatti per iniziati di cultura più raffinata. Ispirandosi alle tradizioni autentiche o apocrife dell'Orfismo, credevano che l'anima fosse divina per natura, ma che una colpa originaria l'avesse fatta decadere dal suo rango e che tutti i suoi sforzi dovessero tendere al suo recupero. Essa è, si diceva in queste cerchie mistiche, un frammento della sostanza di un figlio di Zeus, Zagreo, divorato in gioventù dai Titani ribelli. Dopo che il fulmine celeste ebbe annientato gli assassini, rimase come una scintilla nelle loro ceneri da cui nacquero gli uomini. Si deve liberarla dal suo elemento titanico, terreno e perituro, per riportarla al suo primo stato. Tale era la lezione principale data agli iniziati. Si accompagnava ad un insieme di regole destinate a liberare l'anima dagli elementi impuri che vi si trovavano mescolati, per sottrarla finalmente al ciclo delle rinascite. Così l'anima si sarebbe riunita alla società dei Beati nei prati fioriti dei campi Elisi per banchettare eternamente con loro. Quella dottrina delle origini e destini dell'anima offriva strette analogie con quella che si delineava già nel Libro di Enoc, nell'apocalisse giovannea e ancor più nell'edizione gnostica delle Epistole di Paolo. Il Dioniso frigio e lidio era a suo modo un precursore del cristianesimo e doveva finire per assorbirsi in esso. 

Asclepio o Esculapio avrebbe svolto un ruolo analogo in relazione alla nuova fede. Nell'Asia greca, così come in Grecia, aveva una reputazione eccezionale di guaritore, che eclissava quella di suo padre Apollo. Un tempio celebre gli era dedicato a Pergamo e godeva della stessa fama di quello di Epidauro. I malati vi venivano a frotte dappertutto. Cominciavano a purificarsi con l'acqua lustrale e presentavano la loro richiesta al Dio. I più fortunati passavano la notte in un dormitorio adiacente al suo santuario. Spesso egli appariva loro in sogno e annunciava loro la fine della loro miseria o almeno la via da seguire per ottenerla. Numerosi ex voto appesi all'interno del tempio attestavano l'efficacia della cura. Lì non si limitava il suo ruolo benefico. Egli era, nel pieno senso del termine, un «Salvatore» e non si udiva, sembra, mai dire che in qualche circostanza lo si ebbe invocato invano. Nel II° secolo della nostra era, un retore di Bitinia, che gli ha dedicato una devozione eccezionale, dichiara con enfasi che «questo Dio detiene tutti i poteri». «Questi è», aggiunge, «il più affascinante degli dèi, colui che ama di più gli uomini». [14] Con questo segno, come non riconoscere in lui un emulo, o per meglio dire, quasi un sosia del Cristo?

Le religioni che erano diffuse nell'interno dell'Anatolia erano più lontane dall'ideale cristiano. Anche lì, però, si affermavano alcune affinità che dovevano facilitare l'introduzione della nuova fede, ma che dovevano in cambio modificare su più di un punto le sue forme precedenti.

Tra gli dèi della Frigia, il più popolare era senza dubbio Attis. Sul suo conto una mitologia complessa e patetica colpiva l'immaginazione. Sua madre era, si diceva, una vergine, la ninfa Nana, figlia di Sangario, che lo aveva concepito dopo aver consumato una mandorla sacra. Era nato ed era cresciuto tra le canne del fiume suo antenato. Si era identificato con loro, come con le spighe di grano che coprivano i campi della pianura. Più tardi, diventato pastore, con indosso il berretto frigio e armato del suo bastone, aveva condotto davanti a sé il suo gregge, attraverso le cime dell'Ida e quelle del Berecinto, in mezzo alle grandi foreste di pini, sempre suonando il flauto e il tamburello, i cimbali e le nacchere. In quei tempi lontanissimi in cui i pastori si sposavano talvolta le principesse, egli aveva sposato la figlia del re di Pessinunte, che si chiamava Gallo come il principale affluente del Sangario. Ma nel corso delle nozze era apparso uno strano personaggio, Agdistis, androgino per natura, che, in seguito ad un'amputazione involontaria, aveva perso la sua virilità e che mutato da allora in donna e diventato la dea Cibele, amava tanto più il giovane uomo che era dal sangue sgorgato dalla sua terribile ferita che scaturì la mandorla sacra che aveva fatto concepire la vergine Nana. La sua apparizione aveva provocato una scena di follia sacra. Mentre la sposa si strappava i seni, suo padre faceva il sacrificio volontario della sua virilità. Attis stesso fuggì, si mutilò sotto un pino e ne morì; la sua amante desolata urlava di dolore. Ella raccolse piamente i suoi resti e li depose in una sepoltura regale. Poi, oh miracolo, queste povere spoglie si rianimavano, come accade in natura dove nulla muore se non per rinascere. Nella tomba di Attis a Pessinunte, il corpo del giovane Dio restato incorruttibile manifestava la sua vitalità con la crescita dei suoi capelli e il movimento del suo «piccolo dito». [15]

Questo dramma passionale, che risaliva a un tempo immemorabile ma che restava sempre attuale, era commemorato ogni anno, al ritorno della primavera, nei centri cultuali e in particolare a Pessinunte. Possiamo farci un'idea abbastanza chiara di ciò che si verificava nei luoghi sacri di Frigia dalla riproduzione che se ne faceva a Roma stessa sin dall'epoca di Claudio. Una cerimonia preliminare aveva luogo il 15 marzo. Canne simili a quelle tra le quali nacque Attis erano tagliate sulle rive del fiume vicino e portate al santuario del Dio da una confraternita speciale, quella dei «cannafori». Dopo una settimana di continenza e di astinenza, il 22 marzo un pino era abbattuto, avvolto in strisce di lana, inghirlandato di violette e portato fino al tempio da un'altra associazione, quella dei «dendrofori», a cui era riservato il compito. Il 23 si passava in lutto. Il 24 era il giorno del «sangue». Al suono stridente dei flauti, assecondato dal rimbombo dei tamburelli, dallo scricchiolio dei cimbali e dallo strepito delle trombe,  i sacerdoti o «Galli», sotto la guida e sull'esempio del loro capo, l'«arcigallo», dominando tutto questo rumore con le loro grida acute, si abbandonavano ad una danza frenetica e, esaltandosi sempre più, si flagellavano, si tagliavano le carni. Alcuni addirittura, al culmine del parossismo, facevano, aiutandosi con una pietra tagliente, il sacrificio della loro virilità, poi gettavano i poveri resti dell'orribile operazione nel grembo di Cibele. La notte seguente era dedicata a una sacra veglia, a lamenti funebri accompagnati da preghiere. Poi, la mattina del 25 marzo, che segnava l'equinozio di primavera, una luce brillava nelle tenebre, un sacerdote ungeva col balsamo le labbra dei presenti e annunciava loro che il dio era salvato. Allora i lamenti si mutavano in grida di gioia; ai digiuni succedevano sontuosi banchetti, seguiti da mascherate rumorose dove la licenza aveva libero sfogo. Il 26 si prendeva un «riposo» ben meritato. Infine, il 27, la festa si concludeva con una processione trionfale. La statua di Cibele, montata su un carro cerimoniale, che scortava una folla devota, avanzava lentamente fino al fiume vicino, dove faceva un bagno purificatore, poi riotteneva il suo santuario sotto una pioggia di fiori. Quella settimana santa lasciava nell'anima degli spettatori un'impressione indelebile. I castrati volontari di Attis ne ravvivavano il ricordo con la loro sola presenza. Essi erano facilmente riconoscibili dalla loro carnagione pallida, dal volto glabro, dalla loro andatura zoppicante che accentuava ancor più il loro costume, poiché questi uomini [mutati] in donne indossavano vesti larghe dai colori vivaci, con lunghi capelli ben aggiustati: erano truccati e carichi di gioielli e di amuleti. [16]

Oltre a questi eunuchi sacri che formavano il clero di Attis, esistevano gruppi di pii laici che erano affiliati al giovane dio senza avergli fatto il sacrificio della loro virilità. Costoro si assimilavano a lui in un battesimo cruento, per mezzo di un «taurobolo» o di un «criobolo» di cui il poeta Prudenzio ci ha lasciato un quadro impressionante. [17] Il miste discendeva in una fossa sormontata da un cleristorio, al di sopra del quale si sgozzava un toro o un ariete. Un liquido rossastro colava su di esso da tutte le parti. Egli gli offriva i suoi occhi, le sue orecchie, le sue narici, le sue guance, le sue labbra, la sua bocca spalancata, il suo corpo intero. Dopodiché usciva, «rigenerato per sempre», [18] adorato dal pubblico come un nuovo Attis. L'unione con il Dio si faceva ancora più stretta in un pasto sacro simile a quello dei cristiani. È l'apologeta Firmico Materno a fare questo accostamento. Egli riporta a questo proposito la parola d'ordine seguente degli iniziati, che mostra che non ci si preoccupava tra loro dei piatti: «Ho mangiato dal timpano, ho bevuto dal cembalo».

Il testo aggiunge: «Ho portato il cesto, sono entrato sotto la tenda nuziale». Il «cesto» in questione è una sorta di reliquiario che doveva contenere la sacra reliquia di Attis in effigie e i frutti che vi si legavano, la mandorla e il melograno. La «tenda» è quella che sormontava il letto nuziale. Questa rappresenta un nuovo sacramento. Il miste carico del suo prezioso fardello era ammesso nell'intimità di Cibele, rappresentata in questo caso da una sacerdotessa. Egli prendeva presso di lei il posto del giovane dio, rapito dal suo amore, e dall'unione mistica contratta con lei diventava suo marito.

Queste pratiche erano di un arcaismo ben grossolano. Ma gli spiriti di una certa cultura si erano abituati a interpretarle come «misteri». Le consideravano allegorie viventi che nascondevano realtà più elevate di ordine superiore. I dettagli più scioccanti e più scabrosi dell'antica mitologia assunsero così un significato nuovo e altamente morale. Il Dio evirato diveniva un simbolo di rinuncia alle passioni sensuali. La povera sopravvivenza che gli conferiva l'antica leggenda si trasformò in un'immortalità beata alla quale ognuno poteva partecipare facendosi suo associato. «Coraggio, miste», diceva il sacerdote che celebrava la mattina del 25 marzo, «il Dio è salvato, anche per voi dalle pene verrà la salvezza». Considerato sotto questo aspetto, Attis era il primo e il migliore degli Dèi. Nella mente dei suoi adoratori, lui solo contava. Gli altri erano solo suoi rappresentanti, semplici prestanome. In lui si riassumeva il Pantheon. È ciò che attesta l'inno seguente che ci è stato conservato da Ippolito. [19] «Io ti saluto Attis, triste vittima della mutilazione di Rea. Tu sei chiamato, in Assiria, Adone tre volte rimpianto, in Egitto, Osiride, in Grecia, la falce celeste della luna,... a Samotracia, il venerabile Adamas, tra gli Emoniani, Coribanto e in Frigia, a volte Papas, a volte il cadavere, o il dio o o sterile, o il capraio, o la spiga verde raccolta, o il suonatore di flauto che ha generato il fecondo mandorlo».  

Un altro frammento, che pare l'inizio di un altro inno, diceva allo stesso modo: «Canterò Attis, il figlio di Rea, non col rimbombo di trombe, né dei flauti risonanti dei Cureti dell'Ida, ma agli accenti della lira cara a Febo mescolerò le grida: Evoé, Evan; come Pan, come Dioniso, come pastore dei bianchi astri».

Un sincretismo così accogliente non poteva che servire la causa del Vangelo. Sant'Agostino, che ha visto lo stesso culto insediato a Cartagine, dichiara di aver conosciuto uno dei suoi sacerdoti che diceva volentieri: «Il Dio dal berretto frigio è lui stesso cristiano». [20] Sin  dal II° secolo, molti di loro dovettero tenere propositi analoghi. Fraternizzavano con i rappresentanti della Chiesa in attesa di essere estromessi da loro. Gesù apparve in Frigia come un nuovo Attis. Così si spiega la forma particolare che il cristianesimo era chiamato ad assumere in questo paese.  

NOTE DEL CAPITOLO 7
[10] Arriano, colloqui di EPITTETO, capitolo 63.
[11] L'archeologia contemporanea sottolinea la rassomiglianza che esiste tra il Crisippo del Louvre, ritratto di un filosofo stoico originario di Pompeiopoli, e certe rappresentazioni antiche del Cristo come quella che figura su un sarcofago di santa Maria Antica (J.M.).
[12] Strabone, 14:2-23.
[13] Id., ibid., 1-29.
[14] Elio ARISTIDE, Sul Pozzo di Esculapio, 42:4; 39:5.
[15] Si veda HEPDING, Attis, seine Mythen und sein Kult, pag. 160.
[16] Si veda Frantz CUMONT, les Religions orientales dans le paganisme romain, pag. 69 ss.
[17] PRUDENZIO, Peristephanon, v. 1006-1050.
[18] In aeternum renatus, Corpus inscriptionum lat., 6:510.
[19] IPPOLITO, Philosophoumena 5:9.
[20] SANT'AGOSTINO, In Joh[annis evangelium], 7:1, 6.

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