sabato 18 marzo 2023

Origini Sociali del CristianesimoIsraele è riprovato

 (segue da qui)

IV. — L'EPISTOLA DI BARNABA

A quella Chiesa, che si distingueva oramai dalla Sinagoga e intendeva soppiantarla, occorreva una dottrina che giustificasse le sue pretese. Derivata dal giudaismo, con quale diritto rompeva così con gli ebrei? Continuava a professare la loro fede. Perché non si conformava alla loro legge? Ogni domenica leggeva nelle sue Assemblee i loro libri sacri. Con quale diritto ne violava i precetti essenziali, come quelli del sabato, della circoncisione? 

Una risposta a queste domande inquietanti si offriva da sé ai credenti riflessivi. È quella che è data da tutti gli innovatori che rompono con l'ortodossia ufficiale: gli ortodossi non hanno capito la tradizione di cui avevano la custodia. Ne hanno distorto il significato. Siamo noi a rappresentare la vera fede del passato.

Quella spiegazione era così semplice e così naturale che ha dovuto essere proposta di buon'ora. Ma richiedeva un lungo lavoro di riflessione. Bisognava dimostrare, con esempi concreti e ben scelti, che la Bibbia non ha il significato che le è dato dagli ebrei, che essa stessa suggerisce un'interpretazione diversa, conforme alla fede della Chiesa. Il primo sforzo del pensiero cristiano per stabilire i suoi titoli doveva essere orientato in questa direzione. Ma poté avere successo solo dopo lunghi tentennamenti.

Un tentativo di questo tipo si legge in una lunga Epistola senza nome di autore né di destinatario, che la tradizione attribuisce a Barnaba, un compagno di Paolo, ma che non ha nulla a che vedere con lui. [63]

Questo scritto ha dovuto vedere la luce in Siria. Si ispira, infatti, alle preoccupazioni che sono correnti in questo paese. Parlando di gente che, al di fuori degli ebrei, è circoncisa come loro, nomina in primo luogo i «Siriani». [64] È a loro, apparentemente, che si rivolge. La sua composizione risale ai primi giorni del regno di Adriano. Fino ad allora, sotto Vespasiano, sotto Domiziano, sotto Traiano, gli Israeliti erano stati trattati molto male.

Alla fine dell'ultimo regno, una rivolta organizzata da loro in varie regioni era stata duramente repressa. La Palestina era di nuovo in subbuglio. Adriano, proclamato imperatore il 1° agosto 117 dalle truppe di Antiochia, inaugurò una politica di pacificazione. Corse la voce che avesse dato ordine di ricostruire il Tempio di Gerusalemme. I discendenti degli ex ribelli avrebbero avuto la soddisfazione di vederlo ricostruito dagli eredi di coloro che, mezzo secolo prima, lo avevano distrutto. «Mentre erano in guerra», dice la nostra Epistola, [64] «i loro nemici lo demolirono, e ora i servi di quei nemici lo ricostruiranno». Gli ebrei esultarono. Vedevano in quella misura l'adempimento di antiche profezie. I cristiani al contrario ne furono sconvolti. Vi videro il «grande scandalo» predetto dagli oracoli di Enoc e di Daniele, che lo attribuivano ad un nuovo re molto contrario alla politica dei suoi tre predecessori. È per rassicurarli che il nostro anonimo prese la penna. Così si propone di dimostrare che Israele è da molto tempo riprovato, e lo fa rivoltando contro di esso i suoi stessi oracoli.


Israele è riprovato.

«Dio stesso», dice, «ci ha formalmente avvisato che non ha bisogno né di sacrifici, né di olocausti, né di offerte», né di conseguenza di un Tempio di pietre. Ciò che domanda è un cuore puro, votato alla pratica della giustizia. Lì è il santuario in cui si compiace di abitare. I profeti non hanno altro in vista. È questo che deve essere distrutto e ricostruito. Nel suo primo stato era un ricettacolo di idoli, una dimora di demoni. Con la remissione dei peccati, con la pratica di una vita santa, diventa la casa del Signore. [65]

Quella trasformazione è l'opera di Cristo Gesù. È al fine di realizzarla che si è fatto uomo e ha predicato il Vangelo, che ha «scelto per suoi apostoli uomini colpevoli dei peggiori peccati», che ha sofferto ed è morto sulla croce. [66] Così è lui che intravvedono tutti i testi profetici della Legge ebraica: «Il buon Dio ci ha tutto rivelato in anticipo, affinché sappiamo in ogni circostanza a chi dobbiamo rendere grazie». Di queste perdizioni messianiche l'autore riporta esempi numerosi, che devono essere attinti per gran parte dalla raccolta degli «Oracoli del Signore». Grazie a un'esegesi molto libresca, ispirata a un allegorismo molto capriccioso, egli vi vede minuziosamente prefigurati i dettagli più concreti del Vangelo dei dodici apostoli, che sembra essere la sua sola biografia del Cristo.

NOTE DEL CAPITOLO 5

[63] Ho tra le mani l'edizione dell'epistola di Barnaba di cui si serviva P. Alfaric. Questa è l'eduzione Hemmer et Lejay (testi e documenti per lo studio storico del cristianesimo, Picard, 1907) testo greco e traduzione francese del signor abate Laurent. P. Alfaric ha lui stesso corretto a matita la traduzione secondo il testo greco. Un solo esempio permetterà di comprendere lo spirito di queste correzioni: quando il testo dice (1:5) «γνῶσιν» e il traduttore «conoscenza», P. A. ristabilisce il termine «gnosi» (J.M.).

[64] Barnaba, edizione citata, 9:6.

[64 bis] Id. 16:3, 4. 

[65] Id. 2:4; 4:11; 6:15; 16:1, 10.

[66] Id. 5; 7:1.

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