venerdì 3 marzo 2023

Origini Sociali del CristianesimoEbrei siriani

 (segue da qui)

Ebrei siriani.

All'inizio della nostra era, essi erano sparsi un po' dappertutto al di fuori della Palestina. Formavano ciò che si è convenuto chiamare la Diaspora, da una parola che vuol dire «dispersione». Ma abbondavano in Siria più ancora che altrove. Raggruppati nelle città in uno stesso quartiere, formavano una minoranza compatta, che si imponeva per la sua massa e per la sua coesione, ma ancor più per la natura delle sue credenze, delle sue pratiche religiose, della sua vita quotidiana.

Il giudaismo si distingueva tra tutte le religioni siriane per la sua fede in un solo Dio. Una tale concezione esclude, per sua stessa natura, ogni compromesso con le altre religioni. Il politeismo è, per essenza, accomodante. Questa è la sua debolezza. Il monoteismo trae dalla sua intransigenza stessa una forza superiore. Esso avrebbe fornito l'impulso principale della comunità cristiana, che iscrisse di buon'ora in testa al suo simbolo la sua credenza in «un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra».

Per gli ebrei della Diaspora, che non potevano andare a fare le loro preghiere a Gerusalemme, il culto reso a questo monarca supremo si concentrava nella «sinagoga», il cui nome è sinonimo di «Chiesa» o «Assemblea», e che fu l'archetipo della Chiesa cristiana. Siccome i sacrifici potevano aver luogo solo nel Tempio, vi si era rinunciato definitivamente. Ci si accontentava di riunirsi, i giorni di sabato, con lo sguardo rivolto alla Città santa. Si cantavano salmi, inni, cantici, si  recitavano preghiere collettive. Un posto importante era dato alla lettura della Legge, dei Profeti, dei libri sapienziali o edificanti, e a un pio commentario del testo sacro. Questo culto spirituale, pieno di attrattiva per le anime mistiche, fu quello della Chiesa nascente. Gli «anziani» o «presbuteroi» che vi presiedevano, i «ministri» o «diaconoi» che vi prestavano servizio fornirono i primi quadri della gerarchia ecclesiastica.

Infine, la vita che conducevano i membri della Diaspora testimoniava un'alta moralità, che mancava troppo spesso agli adepti di altri culti. Un primo indizio ne era fornito, dal punto di vista individuale, dal sentimento molto forte del dovere di cui facevano prova tutti gli israeliti educati al rispetto della Legge, che consideravano dettata da Dio stesso. Non meno notevole era l'unione che si affermava in seno alle loro famiglie, raggruppate intorno al capo con lo stesso amore docile e fiducioso, come dovevano essere a loro immagine quelle della comunità cristiana. La stretta solidarietà di cui facevano prova di fronte ai Goyim, spesso ostili, e che li concedeva ad aiutarsi a vicenda, riusciva a rinserrare i legami che esistevano tra loro e li conduceva all'idea della «carità».

Come la totalità della Diaspora, di cui costituivano in qualche sorta la prima regione, gli ebrei di Siria dovevano pagare per il Tempio, a partire dai vent'anni, una tassa annuale la cui riscossione era assicurata da delegati ufficiali. Malgrado tutto, si interessavano abbastanza poco ai sacrifici che vi si celebravano e ai vari riti del cerimoniale mosaico. L'impossibilità in cui erano di associarsi ad esso regolarmente era sufficiente a distaccarli da esso. Le loro preoccupazioni erano di natura morale piuttosto che liturgica. Ciò equivale a dire che non vi erano tra loro dei veri Sadducei.

I Farisei stessi vi erano a disagio. Il loro legalismo meticoloso, che racchiudeva la vita intera in una fitta rete di prescrizioni minuziose, era di un'osservazione difficile persino in Giudea tra i circoncisi. In Siria, in un mondo estraneo ai costumi israeliti, diveniva quasi insostenibile. Le esigenze pratiche della vita quotidiana ne imponevano troppo spesso l'abbandono. Un rigorismo così stretto si adattava d'altronde malissimo allo stato d'animo di quella società complessa, formata da elementi disparati, dove le opinioni e i costumi più diversi si mescolavano, dove le barriere più solide finivano per cedere. I veri Farisei potevano viverci solo con grande difficoltà, ridimensionando le loro pretese, ammorbidendo le loro tradizioni.

Si può dire altrettanto degli Zeloti. Il loro nazionalismo era il più estraneo possibile all'anima siriana. La gente di Tiro e di Sidone, di Berito e di Biblo, di Laodicea e di Antiochia erano da lungo tempo sudditi leali dell'Impero. Non avevano nazionalità propria e potevano tanto meno interessarsi a quella degli ebrei palestinesi che vedevano prendere un atteggiamento aggressivo nei confronti dei Romani.

Dei quattro gruppi del giudaismo presentati da Giuseppe, è quello degli Esseni che era più vitale in Siria. Estraneo per il suo misticismo al nazionalismo dei sicari e al legalismo dei rabbini, nonché al ritualismo levitico, offriva ai pii israeliti le prospettive allettanti della patria celeste, a cui ciascuno poteva accedere tramite la pratica di una vita pura, unendosi alla società tutta spirituale dei Santi. Sostenendo la povertà come la condizione iniziale della salvezza, doveva attirare particolarmente i credenti di condizione modesta, la cui anima inquieta si apriva per mezzo di esso alla speranza.

L'austerità delle sue esigenze morali poneva un ostacolo serio al successo della sua propaganda. Gli ebrei gustavano poco il celibato e la rinuncia; avevano solo un gusto moderato per la disciplina. Ma abbiamo visto [1] che si aggregavano alle comunità di asceti che ne facevano professione laici con mogli e figli, che seguivano pertanto una regola meno rigida. Costoro conducevano la vita comune dei buoni israeliti. Senza dubbio potevano avere in possesso la loro casa e la loro terra, alimentarsi secondo i loro bisogni, lavorare alla loro maniera e custodire per loro il frutto del proprio lavoro. Si doveva solo invitarli a imitare i Santi per quanto possibile e a dare loro all'occasione la propria assistenza. Quella forma di essenismo non aveva nulla di sconcertante. Piaceva per la sua moderazione e la sua flessibilità.

Il cristianesimo non poteva che guadagnare da una tale tolleranza. La fece propria e ne fece un sistema. Ebbe così, da quell'epoca, due morali, una molto rigorosa per le anime desiderose di sacrificio, l'altra molto più adatta alla debolezza umana. Con ciò poteva soddisfare i bisogni della massa come quelli dell'élite.

Tra i cristiani, d'altronde, la fede fiduciosa in Gesù Cristo veniva prima di ogni considerazione pratica. Era la condizione primaria per la salvezza. Ora quella idea di un Dio fattosi uomo per la salvezza di tutti era abbastanza attraente tanto per gli ebrei comuni quanto per i dotti di Israele. Per loro le antiche Scritture, in cui si credeva di vederne l'annuncio continuo, assunsero un significato nuovo e meraviglioso. Tutta la storia sacra si trasfigurava in una lunga preparazione al Vangelo. I rabbini più fieri del loro rango e i più umili tra i credenti erano ugualmente felici di pensare che il Figlio dell'Altissimo si fosse fatto simile a loro e li avesse trattati da fratelli. La loro condizione si trovava prodigiosamente migliorata e quella fraternità divina offriva loro la più sicura garanza per il futuro. 

Il cristianesimo poté così penetrare tra gli ebrei della Diaspora più rapidamente e più profondamente di quanto non avesse fatto tra i loro correligionari palestinesi. Né in Giudea né in Galilea pare aver diminuito fortemente la consistenza della religione ancestrale. Gli ebrei di antica osservanza vi restarono i padroni. In Siria la loro posizione fu molto più instabile. Un numero considerevole di credenti e i migliori di loro passarono di buon'ora alla nuova fede.  

NOTE DEL CAPITOLO 5
[1] Si veda capitolo 3, pag. 70 e capitolo 4, pag. 99. 

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