giovedì 23 febbraio 2023

Origini Sociali del CristianesimoL'Apocalisse

 (segue da qui)

L'Apocalisse.

La rivolta dell'anno 66, che portò al disastro del 70, accentuò la tendenza mistica dei gruppi pietisti e diede loro una nuova forma. Come l'insieme degli Esseni, i primi cristiani erano troppo pacifisti per prendere una parte attiva alla guerra. Tutti coloro che riuscirono a fuggire si precipitarono in fretta fuori dalla fornace. Secondo una tradizione molto accettabile, molti si ritirarono al di là del Giordano, in particolare a Pella. Altri ebbero un accesso più facile a nord verso la Siria, a sud verso l'Arabia Petrea, a ovest via mare verso coste lontane dove non ruggiva la tempesta. Tutti questi fuggiaschi, così strappati dalla terra natia e dispersi ai quattro venti, senza rifugio stabile e senza risorse sicure, si dissero sempre più spesso che loro erano solo di passaggio, che la loro vera patria era altrove. Più che mai riposero tutta la loro speranza in Dio. Conservavano nondimeno un attaccamento profondo alla terra dove riposavano i loro padri, alla Città santa, centro della loro vita sociale, all'antico Tempio dove avevano fatto spesso le loro devozioni. Quando tutto ciò era stato occupato, saccheggiato, rovinato, un aspro rancore li invase. Il nucleo di nazionalismo, attenuato ma tenace, che sussisteva in loro si esasperò in una santa collera. Si sentirono solidali con i loro correligionari, morti per la causa sacra della patria e della Legge. Molti si misero a desiderare lo sterminio di quella Roma maledetta che aveva calpestato i servi di Dio. Allo stesso tempo, auspicarono con le loro preghiere ardenti il ritorno dell'antico splendore del popolo eletto. Siccome la gente che vive nell'ideale arriva molto presto a prendere i propri desideri per realtà, alcuni predissero arditamente l'imminenza dell'intervento divino che avrebbe rimesso tutte le cose in ordine.

Da questo miscuglio confuso di amari risentimenti e di speranze indomite scaturì l'Apocalisse: «Rivelazione di Gesù Cristo, che Dio gli ha dato per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere presto, e che ha comunicato con l'invio del suo angelo al suo servo Giovanni». Nulla ci impedisce di ammettere che si tratta del compagno di Giacomo e di Cefa, che, come loro, era stato apostolo prima di Paolo e fu incontrato da quest'ultimo a Gerusalemme verso la metà del I° secolo. Lui stesso presenta il suo libro come il risultato di una visione che ebbe «nell'isola chiamata Patmos», a qualche distanza da Efeso. Il suo apostolato ha potuto condurlo  in passato in quella direzione. Vi sarà ritornato in occasione degli eventi di Giudea. In ogni caso, lo spirito dell'opera è nettamente palestinese.

Anche qui il testo è stato visibilmente rimaneggiato. Un'ampia interpolazione è stata introdotta nei primi capitoli (1, 4, 8, 11, 20; 2, 3), dove non si parla di «ciò che deve accadere presto», ma della situazione presente delle Chiese, e dove è Gesù stesso a parlare e non «il suo Angelo». In compenso, il finale della prima edizione (17; 21:8) è stato provvisoriamente eliminato e sostituito da una conclusione ben più breve (21:9; 22:21) che lascia cadere dettagli divenuti imbarazzanti. [47]

Prendiamo il libro nel suo tenore iniziale. Vi troveremo l'eco vibrante dei sentimenti che agitavano i cristiani originari di Palestina nel corso degli anni che seguirono il crollo della nazione ebraica e della Città santa. È un lungo grido di vendetta contro Roma, la «grande prostituta che è seduta su sette monti», che «domina su immense acque» e «con cui i re della terra hanno fornicato», la nuova «Babilonia, ebbra del sangue dei santi». È anche un appello ardente per l'instaurazione di una «Gerusalemme nuova», che l'autore vede mentre discende dal cielo «come una sposa adorna per il suo sposo» e presso la quale «non ci sarà più né lutto, né pianto, né dolore, perché le cose di prima sono passate». [48]

La vendetta prossima degli eletti e la rovina finale dei loro avversari sono annunciate e descritte in anticipo in immagini di un rilievo vigoroso la cui ispirazione è nettamente legata a quella delle «esortazioni e maledizioni» del libro di Enoc, o delle sue «parabole».

Abbiamo qui un nuovo esempio di quell'amore per gli oracoli, sviluppato dalla meditazione assidua dei profeti, che Giuseppe presenta come un tratto caratteristico degli Esseni.

Alcuni dettagli tipici portano d'altronde il marchio di questo gruppo. Qui, come là, gli Angeli svolgono un ruolo considerevole. È per mezzo di di loro che Dio si manifesta e che esegue la sua volontà. Gli eletti che sono scampati al grande supplizio, e che sono in numero di dodicimila per ogni tribù di Israele, per un totale di centoquarantaquattromila, portano «vesti bianche», come nelle comunità descritte da Giuseppe. Anche loro sono celibi. Il profeta insiste su questo punto: «Sono coloro», dice, «che non si sono contaminati con le donne, perché sono vergini... sono immacolati». Ciò equivale a dire che i rapporti sessuali sono malvagi per natura. Da notare anche quella maledizione profetica su Roma: «Guai, guai alla grande città, vestita di lino, di porpora, di scarlatto, ornata d'oro, di gioielli, di perle, perché in un'ora è stata annientata la sua grande ricchezza». È un «povero» che parla, un povero che ha i ricchi in orrore e che ama pensare che tutto il loro lusso perirà. [49]

Siamo qui in pieno essenismo. Ma è un essenismo cristiano, il cui cristianesimo resta d'altronde molto arcaico. È dominato dall'idea del giusto ideale che ha sofferto ed è morto per colpa degli uomini e per il loro bene, che è stato in seguito esaltato da Dio e glorificato nella misura stessa delle sue umiliazioni. Più precisamente, l'autore si ispira ad un passo celebre della Raccolta di Isaia (53:2, 12) in cui il «servo di Jahvé», divenuto nella traduzione greca un «figlio di Dio», è paragonato a «un agnello che si conduce al macello». Questo tema simbolico gli suggerisce un altro. Egli pensa alla Pasqua ebraica, che è restata la grande festa per i cristiani. Un agnello di un anno, senza macchia, e senza difetti, è sacrificato per questo giorno solenne, secondo un antico rito che si dice risalga all'uscita dall'Egitto. «Si prenderà il suo sangue», dice Jahvé nell'Esodo (12:7, 13), «e lo si metterà sui due stipiti e sull'architrave delle case... Io lo vedrò e passerò oltre e non ci sarà affatto piaga che vi distrugga quando colpirò il paese». L'Apocalisse sfrutta questo vecchio tema. La figura centrale del libro è quella dell'«Agnello» che sta, «come immolato», «in mezzo al trono» dove siede l'Altissimo, e il cui sangue purifica e salva gli eletti. Si tratta così evidentemente di un giusto sofferente e infine glorificato che ci è presentato allo stesso tempo come «il leone della tribù di Giuda, il germoglio di Davide» e di cui è detto che solo lui è degno di aprire il libro dei destini sigillato con sette sigilli. D'altra parte, l'idea che ci si fa di lui resta ancora così vaga e così confusa, così chiaramente mitica, che egli ci è presentato come avente «sette corna e sette occhi, che sono i sette spiriti di Dio inviati su tutta la terra». Alla fine della profezia, in un'immagine ancora più audace, ci viene detto delle nozze dell'Agnello e della sua «sposa» predestinata, che non è altro che la nuova Gerusalemme, veniente dal cielo tutta agghindata per suggellare con lui una perfetta unione. [50]

Siamo lontani, anche qui, dai nostri racconti evangelici. Visibilmente l'autore non ne sospetta l'esistenza. Non ne ricorda, neppure sotto forma di allusione, alcun dettaglio preciso e caratteristico, anche se molti corrisponderebbero perfettamente al suo programma e potrebbero fornirgli utile materiale. Solo una volta, in un abbastanza lungo discorso concernente due profeti che saranno martirizzati da una «Bestia» venuta dall'abisso e i cui cadaveri saranno esposti nella piazza di una grande città, di una nuova «Sodoma», il testo aggiunge, in modo del tutto incidentale, «dove anche il loro Signore è stato crocifisso». Ma questa piccola porzione di frase ha tutta l'aria di un'interpolazione, perché costituisce una pesante aggiunta e non si adatta al contesto, dove non si parla affatto di Gesù e dove il termine «Signore» si applica piuttosto a Dio. [51]

Va notato, peraltro, che l'«Agnello» che raffigura il Cristo ci è presentato come se avesse salvato gli uomini con il «suo sangue». Lo ha versato così abbondantemente che gli eletti, venuti dalla grande tribolazione, hanno lavato le loro vesti in questo bagno purificatore e, dettaglio singolare, le hanno così «imbiancate». È una concezione analoga, in forma egualmente pittorica ma più coerente, che troviamo nell'Epistola agli Ebrei a proposito del «sommo sacerdote» dei tempi nuovi. Su questo punto i due documenti sono in perfetto accordo. La loro testimonianza è tanto più concorde contro il tema del «Signore crocifisso». La crocifissione si fa normalmente senza effusione di sangue. L'idea del Cristo messo in croce non appartiene dunque ai primi strati del pensiero cristiano. Senza dubbio si sarà rappresentato dapprima solo in una maniera abbastanza vaga e approssimativa il dramma teologico del Figlio di Dio morente per la salvezza degli uomini. 


NOTE DEL CAPITOLO 4

[47] Si veda di seguito, Origini greche, pag. 247-248.

[48] Apocalisse 17:1, 9; 21:1, 4.

[49] Id. 7:9; 14:4, 5; 18:16.

[50] Id. 5:6, 9; 5:5; 5:1, 7; 7:6; 19:7; 21:2.

[51] Id. 11:8 e 11:4, 15.

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