sabato 25 febbraio 2023

Origini Sociali del CristianesimoIl giusto sofferente della Bibbia ebraica

 (segue da qui)


III. — PRIMI FATTORI CRISTIANI 

La fede non si nutre di astrazioni. Ha bisogno di immagini concrete, solide e sostanziali. Finché il cristianesimo visse oscuramente in seno al giudaismo, sentì questo bisogno solo in modo confuso e inconscio, perché beneficiava del grande afflusso della tradizione israelita. Dopo la rovina di Gerusalemme e la distruzione del Tempio, che sembrava provocare quella del giudaismo, esso cominciò a vivere per conto proprio e prese a poco a poco coscienza della propria specificità. Cercò pertanto di fissare la sua propria tradizione definendosi per sé la vita e l'opera del Salvatore. 


Il giusto sofferente della Bibbia ebraica.

Non doveva far altro che continuare a scrutare le Scritture, quelle almeno da cui emergeva l'idea del giusto sofferente. Gli eventi recenti davano a questi vecchi testi un significato nuovo. Nella raccolta di Isaia, il servo di Jahvé, dove, secondo la traduzione greca, il Figlio di Dio appariva sotto la figura di un «uomo dei dolori», disprezzato da tutti, trattato come un vile malfattore, divenuto «oggetto di raccapriccio». Il libro della «Sapienza» faceva tenere agli empi il linguaggio seguente: «Tendiamo insidie al giusto... Si vanta di avere Dio per padre... Sottoponiamolo agli oltraggi e ai tormenti... Condanniamolo a una morte infame». D'altra parte, il Salmo 22 faceva dire al giusto stesso: «Io sono un verme della terra e non un uomo, l'obbrobrio degli uomini e la feccia del popolo... Una banda di scellerati si aggirano intorno a me. Hanno trafitto le mie mani e i miei piedi...». [52] Per il cristiano della generazione successiva alla rovina di Gerusalemme, il supplizio più infame e più orribile era certamente quello della croce. Non rientrava nei costumi ebraici. Erano i Romani ad averla introdotta in Palestina. La riservarono agli schiavi, ai briganti e ai ladri di strada, ai nemici di basso livello. La applicarono in massa agli ebrei ribelli. Giuseppe racconta di aver visto innumerevoli file di suoi connazionali contorcersi pietosamente sul sinistro patibolo alla periferia della Città santa. Questo ricordo lugubre ossessionava le immaginazioni. Per rappresentarsi dal vivo la fine tragica del Cristo, i cristiani non potevano fare di meglio che figurarselo sotto i tratti di un crocifisso agonizzante sul legno infame. Fedeli al loro metodo, raggrupparono intorno a questo tema tutti i testi biblici che sembravano riferirsi ad esso e che potevano servire a spiegarlo e a precisarlo. 

Quando aveva avuto luogo il grande evento? Altri passi della Bibbia ebraica, interpretati in relazione al Messia, permisero di stabilirlo. La Genesi faceva dire a Giacobbe morente nella traduzione greca dei Settanta, che si allontana notevolmente dal testo originale: «Non mancherà un capo venuto da Giuda e un regnante uscito dai suoi membri prima che arrivi ciò che gli è riservato». [53] La parola della fine, che significa «ciò che gli è riservato», in ebraico «Schilo», fu preso per un nome proprio e inteso a proposito di un personaggio trascendente che avrebbe preso in mano i destini del popolo di Dio. Per i cristiani, questo non poteva che essere il Cristo. È così che lo intendono gli autori ecclesiastici più antichi. Ora la regalità scomparve in Giudea con la dinastia di Erode, il cui ultimo monarca giudeo morì nel 44. È quindi un po' prima di quella data che il grande dramma doveva situarsi. La catastrofe dell'anno 70 forniva un altro punto di riferimento. Essa rappresentò il culmine finale della più grande prova che avesse mai conosciuto il popolo d'Israele. I cristiani, abituati a vedere nella Bibbia la figura anticipata dei tempi nuovi, ricordavano a questo proposito i quarant'anni trascorsi una volta nel deserto, dove tutti gli antichi israeliti erano infine periti. È all'inizio di quel periodo che avevano avuto luogo l'uscita dall'Egitto e l'istituzione del rito della Pasqua, simbolo profetico dell'immolazione del Cristo. Erano così indotti a collocare quarant'anni prima della rovina di Gerusalemme, vale a dire nell'anno 30, la morte del Figlio di Dio fatto uomo. Quella data poteva sembrare tanto più assicurata in quanto coincideva con l'epoca approssimativa dell'apostolato dei primi capi conosciuti della Chiesa di Gerusalemme. Giacomo, Cefa e Giovanni, che apparirono così come i primi testimoni del dramma evangelico.

Quale fu la patria del Cristo Salvatore? L'Epistola agli Ebrei dichiara di passaggio: «È noto che nostro Signore è uscito da Giuda». [54] Questo senza dubbio in ricordo di ciò che è detto del misterioso «Schilo» nella benedizione di Giacobbe su Giuda. L'Apocalisse professa la stessa credenza nel passo già citato dove parla del «leone della tribù di Giuda», presentato subito dopo come un «agnello immolato». Il testo si riferisce alla stessa benedizione di Giacobbe, dove leggiamo, immediatamente prima della frase relativa a «Schilo»: «Giuda è un giovane leone». Ma altri testi suggerivano un'altra interpretazione. Alcuni parlavano di un «consolatore» (Naum) provvidenziale, in cui si vedeva il Messia. Non era pertanto ben naturale collocare la sua patria nel nord della Palestina, a Cafarnao, il cui nome significa «borgo del Consolatore»? Non si leggeva inoltre in Isaia (8:23), a proposito della Galilea: «Il popolo avvolto nelle tenebre ha visto una grande luce»? Queste ultime parole, per i credenti, non indicavano evidentemente il Cristo?


NOTE DEL CAPITOLO 4

[52] ISAIA 52:14; 53:12. Sapienza 2:12, 20. Salmi 22:7, 17.

[53] Genesi 49:10. Si veda volume 2, pag. 118, 119, 120 e sopra pag. 79.

[54] Ebrei 7:14.

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