giovedì 12 maggio 2022

LA PRIMA GENERAZIONE CRISTIANALA SPERANZA MESSIANICA

 (segue da qui)


LA SPERANZA MESSIANICA

Ma non basta riconoscere la doppia tradizione che si era sviluppata tra di loro nel corso di questo secolo e un quarto; è nel profondo dei loro cuori che bisogna tentare di penetrare. Vediamo tutti i giorni attorno a noi i cattolici professare una religione bizzarramente farcita di reticenze poco ortodosse e restare fermamente attaccati alla Chiesa, come vediamo a volte piuttosto cattivi cittadini sdoppiarsi in patrioti inflessibili. Questi ebrei approssimativi della Diaspora e della Galilea, che hanno incorporato nel giudaismo ogni sorta di contributi di origine pagana e talvolta obbediscono alle leggi ebraiche solo nella misura in cui vi sono obbligati, ci si li deve rappresentare come se avessero conservato l'anima ebraica, se si tratta di quelli della Diaspora, oppure come se avessero assunto l'anima ebraica, se si tratta di quelli della Galilea?

Essendo la speranza messianica la base stessa dell'anima ebraica, è la questione del messianismo che si pone. Se i primi cristiani credono nella speranza ebraica, Joseph Halévy si è sbagliato; essi sono «in fondo» buoni ebrei. Se non ci credono, hanno possibilità di essere ebrei di bassa lega. Ma se, non credendoci, credono in una speranza misterica che ne è la negazione, sono davvero i cattivi, i cattivissimi ebrei che diceva il mio vecchio maestro. La questione della speranza misterica si pone così accanto a quella della speranza messianica.


Nel messianismo vi è, dapprima, l'attesa della liberazione e del dominio universale; in seguito, l'attesa di un personaggio, strumento del dio nazionale, incaricato di realizzarne l'opera.

L'attesa, non solo della liberazione, ma del dominio universale, era antica tra gli ebrei; nei più antichi libri della Bibbia la promessa divina non va oltre gli orizzonti della Palestina; ma nella vecchia Genesi iahvista 22:18, si vede Jahvé promettere ad Abramo che «tutte le nazioni della terra» vorranno essere benedette nella sua posterità, ciò che prelude all'imperialismo forsennato dei profeti e dei salmi, i quali assicurano agli ebrei «la terra per loro eredità», [1] niente di meno!

L'aspettativa del personaggio incaricato di realizzare l'opera era più recente. Secondo i profeti, Dio doveva manifestarsi direttamente per realizzare lui stesso le sue promesse; ma il compito era presto passato a uno strumento scelto da lui, che si rappresentò a lungo sotto le specie di un re «unto con l'olio», evidentemente della razza di Davide, che avrebbe fatto un solo boccone di tutte le potenze della terra.

Il messianismo non è quindi altra cosa che un'aspirazione nazionalista e imperialista che prese una forma religiosa. Alla sua base si ritrova la nobiltà di una razza che non vuole obbedire — il contrario esatto dei «servituti nati» di Cicerone... L'eloquente oratore era mal ispirato il giorno in cui scrisse queste due parole... Si potrebbe ritenere che cessando di attendere dal suo solo sforzo e rimettendo al suo dio il compimento del suo sogno, il popolo ebraico avesse perso qualcosa della sua nobiltà; questo sarebbe un errore... Dopo aver rimproverato a Cicerone un'ingiustizia, il mio primo dovere è di accusare me stesso di averne un giorno commesso un'altra... Il dio di un popolo è la personificazione della sua anima collettiva, o, se si preferisce, il simbolo sotto il quale esso si concepisce; e ciò, il dio di Israele lo è tra tutti; per un popolo nobile, attendere una cosa da sé, dal suo dio o da un messia, è tutt'uno; si è passati soltanto da un simbolo religioso ad un simbolo laico. In realtà, il messianismo si realizza solo per mezzo dell'intervento di una potenza soprannaturale, ma quell'intervento soprannaturale nasce nel cuore stesso dell'anima ebraica.

Non si comprenderebbe quindi nulla del messianismo ebraico se vi si vedesse solo una dottrina religiosa e se ci si rifiutasse di riconoscervi ciò che è essenzialmente: una forma di imperialismo. Gli studiosi di cui si può dire che possiedono a fondo la comprensione del giudaismo, come il signor Isidore Lévy, come il signor Maurice Liber, professano che il regno di Dio della speranza messianica è quello che deve realizzarsi sulla terra; ma non si tratta solo di imporre all'umanità intera la religione di Jahvé; si tratta di imporgli la dominazione del popolo ebraico.

Tra l'imperialismo messianico e l'imperialismo romano la sola differenza (ed è vero che è grande) è nella maniera. 

A dire il vero, la speranza messianica si era ridotta al minimo tra il maggior numero dei Beati possidentes dell'aristocrazia ebraica; e non c'è da stupirsene; ricchi, soddisfatti del loro lusso, amici dei Romani sui quali si appoggiavano, non avevano nulla da aspettarsi da uno sconvolgimento, anche soprannaturale. Da un altro lato, in certi ambienti impregnati della filosofia greca, ci si era a poco a poco disinteressati della vecchia speranza. Non c'è traccia di messianismo nel libro della Sapienza; ma il libro della Sapienza rappresenta l'anima ebraica? Non rappresenta piuttosto, nel giudaismo, la tendenza anti-nazionale dei belli spiriti amanti di mode straniere?

Non vi erano là però che delle eccezioni. Un gran numero degli ebrei della Diaspora, come della Giudea, aveva mantenuto la loro fede nelle promesse dei loro libri sacri; e non c'è dubbio che quella fede sia stata condivisa dai pagani che si erano convertiti al giudaismo nella speranza, il più sovente, di prendere posto al banchetto dei figli di Israele.

Ma se il messianismo si era propagato tra i pagani che erano entrati liberamente nel giudaismo, poteva aver ottenuto lo stesso successo tra le popolazioni che vi erano venute costrette e forzate? Detto altrimenti, aveva potuto, nel corso del centinaio d'anni che avevano seguito la conquista del paese da parte delle bande maccabee, introdursi e prendere radice in Galilea? 

Lasciamo a lato le poche famiglie, poco numerose, derivate dagli ebrei di Giudea immigrati nel paese; lasciamo anche a lato, beninteso, i pagani che vi erano insediati e che l'affare non riguarda; tra le famiglie indigene convertite con la violenza nei primi anni del primo secolo, lasciamo ancora a lato il pochissimo numero di coloro che si erano assimilati, e consideriamo il grosso della popolazione. La questione è sapere se sia possibile che un secolo sia bastato perché una razza asservita abbia sposato così perfettamente le ambizioni dei suoi padroni.

Si vedevano in Europa prima della guerra del 1914-1918, si vedono oggi minoranze oppresse associarsi, cuore e anima, ai sogni dei loro oppressori? Persino dopo più  generazioni di asservimento, la maggior parte non conservano, al contrario, la loro mentalità particolare? Si immaginerà che sia stato diversamente in quell'Oriente semitico, dove i secoli si susseguono senza che le razze si confondano?

È tutt'altra cosa, per una popolazione, accettare e persino accettare senza reticenze la legge che gli è stata dettata dai suoi padroni, e fare suo il loro imperialismo. Il giudaismo ha potuto imporre ai Galilei l'obbedienza; ha saputo imporre loro il consenso; ha saputo imporre loro il rispetto, persino lo zelo! Non poteva imporre loro il suo sogno forsennato di universale dominio.

Si addurrà la rivolta di Giuda di Gamala dopo la morte di Erode nell'anno 4, i tumulti che non cessarono in seguito di agitare il paese, infine la parte considerevole che svolsero un numero di Galilei nella grande insurrezione dell'anno 66, e si ricorderà che essi non si accontentarono di marciare con i giudei come nel 1914 i cecoslovacchi marciarono con gli austriaci, ma che vi misero un ardore che spinsero fino al fanatismo. Non vediamo nulla là che invalidi la nostra tesi. L'insurrezione contro il dominio romano non implica necessariamente il messianismo; significa semplicemente che così come i Giudei, un gran numero di Galilei, esasperati dalle esazioni e dalla sprezzante insolenza dei Romani, si sforzarono di scrollarsi di dosso il giogo. i casi sono frequenti nella Storia, dove partiti avversi, popolazioni nemiche si uniscono contro uno stesso avversario; e si sa tutto quanto un «Fronte Comune» possa nascondere di dissidenze!

Ora, se è difficile ammettere che gli ebrei siano riusciti a imporre al grosso della popolazione galilea le loro ambizioni imperialiste nello stesso tempo in cui gli imposero le loro leggi e la loro religione, si ammetterà ancor più difficilmente che le abbiano imposto a coloro, tra i Galilei, che in fondo al loro cuore nutrivano una speranza che teneva il posto che avrebbe dovuto prendere la speranza messianica, come lo constateremo tra poco.

Ma queste sono considerazioni generali che possono dare solo una presunzione. Si tratta di sapere se, per ciò che concerne i precristiani o perlomeno i primi cristiani galilei, quest'ultima si verifichi nei testi, vale a dire se, da una parte, Gesù vi sia o no il Liberatore promesso a Israele, e, d'altra parte, se i primi cristiani vi siano o no i messianisti che ne attendono la venuta.


Per rispondere alla prima di queste due domande, è indispensabile ricordarsi [2] che la parola «Messia» significa in ebraico «Unto con l'olio», Mashiah, ed è tradotta in greco con Christos, aggettivo verbale del verbo χρίω ungere, e ricordarsi anche le diverse accezioni che la parola ha preso:

Unto: il personaggio unto con l'olio; tali i re e i sommi sacerdoti d'Israele; questo è il significato antico; e questo è il senso in cui, primitivamente, secondo la nostra tesi, Gesù è un Mashiah;

Cristo, un nome proprio: gli uomini che parlavano greco preferiscono denominare Cristo il dio che gli uomini che parlavano aramaico denominano Gesù; su questo punto nessuna contestazione;

Messia: il liberatore promesso a Israele; salta agli occhi che, nell'ipotesi tradizionalista o altrettanto bene nell'ipotesi razionalista che vede in Gesù un uomo condannato dai Romani al supplizio della croce, questo titolo, preso in quella accezione, non ha potuto essergli dato finché non sia ammesso che il Liberatore doveva essere passato per la prova della sofferenza e della morte prima di rivelarsi nella sua gloria; ma la questione attualmente non è là; è di sapere se nei testi la parola Christos, applicata a Gesù, abbia o no quell'accezione. 

Ora, è innegabile che la ha nei vangeli, nella redazione definitiva degli Atti degli Apostoli e in tutta la letteratura successiva. 

E non è meno innegabile, per rispondere alla seconda domanda, che i discepoli di Gesù, così come sono rappresentati negli stessi libri, partecipano alla speranza di Israele e che Gesù annuncia che la realizzerà. 

Ma questi libri esprimono le credenze della prima generazione cristiana? Essi sono opera della seconda (è l'opinione degli studiosi più conservatori) o della terza (è quella di un gran numero di studiosi indipendenti); essi esprimono le credenze della terza o quantomeno della seconda generazione cristiana, e non quelle della prima. [3]

Che ne era dei libri che hanno preceduto? interroghiamo le epistole di San Paolo, le parti antiche del libro degli Atti e l'Apocalisse.

L'Apocalisse è un libro di ispirazione troppo ebraica perché non vi si trovino tracce di messianismo; notiamo eppure che nell'espressione «Gesù Cristo», che vi si riscontra frequentemente, la parola «Cristo» è un nome proprio, come pure quando è impiegata da sola; due volte, 11:15 e 12:10, Gesù è chiamato il Cristo di Dio, nell'evidente accezione di Unto di Dio.

Nelle parti antiche del libro degli Atti, non solo Gesù è sempre il «Signore» e non una sola volta il «Messia», ma vi si cercherebbe invano la minima allusione al messianismo. Il caso delle epistole è ancora più istruttivo.

Che prima della sua conversione San Paolo abbia o no professato lui stesso la speranza messianica, egli la trasforma dopo la sua conversione in una speranza misterica, e giunge fino ad opporre l'una all'altra, quando spiega che la promessa che Dio ha dato ad Abramo non è quella (secondo la carne) di una Gerusalemme terrena, vale a dire del regno messianico, ma quella (secondo lo Spirito) di una «Gerusalemme di lassù», vale a dire del regno soprannaturale e post-mortale della religione di Gesù. [4]

C'è bisogno di aggiungere che la parola Christos, che abbonda nelle epistole, vi è sempre un nome proprio? San Paolo è un ebreo che parla greco e comprende l'ebraico; talvolta, come gli «Ebrei», egli dice Gesù; talvolta, come gli «Ellenisti» che frequenta, egli dice Christos. Mai chiama Gesù il messia nel senso che noi diamo a questa parola; Gesù per San Paolo non è in alcun momento il messia ebreo; il Gesù che egli predica è quello che, per le virtù della sua morte e della sua resurrezione, assicura la salvezza dei suoi fedeli associandoli a quella resurrezione, e non il messia che verrà a stabilire sulla terra l'impero di Israele.

Come ci si è sbagliati? I tre significati della parola ebraica Mashiah e della parola greca Christos dovevano naturalmente permettere: ai semplici fedeli, di fare la confusione; alla Chiesa, di trasformare un dio misterico in messia ebreo; quanto agli studiosi... un esempio mostrerà come certi di loro se la intendono a confondere le carte.

Monsignor Batiffol espone [5] il vangelo che San Paolo ha annunciato ai suoi convertiti, ossia: «che il Cristo è morto per i nostri peccati... che Gesù è il messia... che è risorto il terzo giorno». La pagina del dotto prelato dove si trova questo passo è interamente scritta in modo tale che si crederebbe, a leggerla, che i tre fatti (la morte espiatoria di Gesù, sua messianicità, sua resurrezione) facciano egualmente parte di ciò che San Paolo dice (1 Corinzi 15:1-4) di aver ricevuto e di ciò che insegna a sua volta. Ora, il primo e il terzo soli si trovano nell'epistola (1 Corinzi 15:3-4); il secondo, al contrario, proviene dagli Atti degli Apostoli (18:5). Ma ci si guarda dal segnalarlo... Il gioco è fatto!

I critici moderni tendono fortunatamente sempre più a minimizzare e persino a ridurre a niente il messianismo dei primi cristiani della Diaspora. È certo che i cristiani di Antiochia che ci hanno descritto i discepoli di Gunkel e di Bousset erano troppo occupati con il culto del loro Kyrios Christos per permettere il minimo interesse al messia di Israele, e San Paolo su questo non poté pensare altrimenti, almeno dopo la sua conversione. Solo una ignoranza volontaria di tutte le acquisizioni della storia delle religioni era capace di ricondurre uno studioso all'infelice tesi che fu il grande errore di Van Manen, nel fare dell'uomo di Tarso l'apostolo dell'imperialismo ebraico. 

Il messianismo, in realtà, è entrato nel cristianesimo dopo la rovina di Gerusalemme dell'anno 70, quando quest'ultimo ha voluto prendere il posto e raccogliere l'eredità del giudaismo, che si aveva ragione di credere annientato. [6] La tradizione cattolica, accettando quell'introduzione del messianismo ebraico nel cristianesimo, è stata costretta a farla risalire all'origine stessa di quest'ultimo; di proposito deliberato, i libri cristiani rappresenteranno allora gli apostoli come imbevuti della speranza ebraica e Gesù come se la realizzasse. E questo è ciò che il vangelo secondo Matteo avrà particolarmente per scopo di dimostrare. 

Tutt'altra era la speranza che riempiva il cuore dei primi cristiani galilei e altrettanto bene il cuore dei compagni della Diaspora, e altrettanto bene il cuore di San Paolo stesso dopo la Conversione. 

NOTE

[1] Salmo 2:8; questo testo estratto da una quantità di altri di egual portata.

[2] Si veda Dieu Jésus, pagine 208 e seguenti.

[3] Ci si risponderà che i vangeli rappresentano una tradizione anteriore alla data in cui sono stati scritti e anteriore in ogni caso al paolinismo; noi ritroveremo presto questo argomento, rifugio supremo dell'evemerismo; non potendo interrompere la nostra esposizione per discuterlo, rimandiamo già qui all'Appendice 7 che gli è dedicata.

[4] Galati 4:25-26. Si veda il passo intero, 21-23, e 3:6-19, così come Romani 4:10 e 15:8-12.

[5] L'Eglise primitive, pagina 81.

[6] Tesi che abbiamo formulato in Dieu Jésus, pagine 129-141, alla quale ritorneremo presto, e che sarà sviluppata con l'ampiezza che conviene, se ci è permesso di spingere i nostri lavori fino all'epoca che ha seguito l'evento dell'anno 70. 

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