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IL «POPOLO GIUDEO»
La prima questione da risolvere (ed è fortunatamente facile) è quella dello statuto religioso, politico e linguistico dei primi cristiani, — diremo qui: degli uomini che, dopo essere stati i precristiani, sono stati i primi cristiani.
Religione. — Che il pre-cristianesimo sia l'avatar di un'antica religione non ebraica giudaizzata, come noi professiamo, o che, come altri vorrebbero, sia derivato dal giudaismo, la risposta è qui la stessa. In Galilea, questi uomini appartenevano ufficialmente alla religione ebraica fin dall'insediamento di quest'ultima nel paese; avevano continuato ad appartenervi, quando si erano insediati a Gerusalemme. Nella Diaspora, coloro che erano nati da famiglie ebree erano restati ufficialmente ebrei. Quanto agli uomini che, nati pagani, erano venuti al giudaismo sia prima di affiliarsi sia nello stesso tempo in cui si affiliarono al pre-cristianesimo, bisogna distinguere quelli che si erano fatti circoncidere e aderivano a tutte le pratiche del giudaismo (li si chiamava i «proseliti») e che sembrano proprio essere stati dappertutto considerati come appartenenti anche loro alla religione ebraica, e quelli che, essendosi opposti alla circoncisione, praticavano solo un giudaismo ristretto (li si chiamava i «timorati di Dio» o gli «adoratori di Dio») e la loro situazione era ambigua.
Nazionalità. — Quando oggi l'amministrazione ci distribuisce i moduli dove noi dobbiamo dichiarare chi siamo, dobbiamo riempire dapprima la colonna nazionalità; in seguito la colonna religione. Nel primo secolo, quantomeno per gli ebrei, religione e nazionalità si confondono. Essere ebreo, ciò significa allo stesso tempo essere di nazionalità e di religione ebraica, vale a dire far parte di ciò che l'Impero chiamava, nella Diaspora come pure in Giudea, il «popolo giudeo», ed essere sottomesso al suo statuto. Allo stesso titolo degli ebrei ortodossi, i pre-cristiani e i cristiani facevano parte, giuridicamente, del «popolo giudeo».
Quanto ai «timorati di Dio», le autorità imperiali rifiutavano in linea di principio di considerarli come ebrei, e, anche da questo lato, la loro situazione restava ambigua.
Lingua. — Gli ebrei abitanti nel paese di Israele, vale a dire la Palestina, si differenziavano, nel primo secolo, da quelli abitanti nel resto del mondo, vale a dire la Diaspora (salvo eccezioni che noteremo). Quella differenziazione si esprimeva nelle lingue che parlavano. Essa sussistette tra i cristiani abitanti in Palestina e quelli della Diaspora.
Gli ebrei di Palestina parlavano l'aramaico. Tutti gli studiosi sanno che l'aramaico era una lingua sorella dell'ebraico e aveva sostituito quest'ultimo, il quale era passato allo stato di lingua sacra.
Gli ebrei della Diaspora parlavano il greco, che era la lingua internazionale dell'impero romano e restava evidentemente la loro lingua abituale quando erano di passaggio o venivano a stabilirsi a Gerusalemme, come questo fu il caso di Santo Stefano e del suo gruppo.
Gli ebrei che parlavano l'aramaico erano chiamati gli «Ebrei»; gli ebrei che parlavano il greco, gli «Ellenisti». Le due denominazioni furono applicate ai cristiani, come a tutti gli ebrei. I cristiani che parlavano l'aramaico sono chiamati gli «Ebrei» nel libro degli Atti 6:1; i cristiani che parlavano greco vi sono chiamati gli «Ellenisti». Questi due termini «Ebrei» ed «Ellenisti» avevano il valore di designazione dal significato preciso, qualcosa come termini tecnici.
Non bisognerà però mai dimenticare che gli «Ebrei» galilei parlavano non l'aramaico di Gerusalemme, ma il dialetto aramaico usato in Galilea. [1] Quanto alle differenze che potevano esistere tra questo dialetto e l'aramaico di Giudea, immaginiamo quelle che distinguevano da noi la parlata di campagna e la parlata delle città prima della grande diffusione dell'istruzione primaria; e (noi vi ritorneremo; la cosa è della massima importanza) non ci sarebbe voluto di più per consegnare un galileo che si sarebbe immischiato in discorsi al ridicolo dei signori di Gerusalemme.
Gli Ebrei e gli Ellenisti potevano capirsi?
Al di fuori della Palestina e della Siria, gli ebrei che parlavano greco avevano dimenticato rapidissimamente l'aramaico; prova evidente tra molte altre: la traduzione della Bibbia in greco ad Alessandria. Vedremo presto che era estremamente difficile per un palestinese che ignorasse il greco farsi intendere nelle comunità ebraiche d'Asia Minore, di Grecia, d'Italia e d'Africa. In Siria, al contrario, e in particolare ad Antiochia, l'aramaico era restata la lingua delle classi inferiori, ma il greco vi faceva dei progressi sempre più marcati.
Non ci domanderemo, per contro, se esso facesse progressi o se fosse soltanto apparso tra i pescatori del lago di Genesaret... Uno studioso rinomato, Dalman, ha preteso che l'interrogatorio di Gesù davanti a Pilato si fosse fatto in greco... [2] Ammettendo la storicità di questo interrogatorio, la cosa non sarebbe verosimile se non alla condizione di riconoscere che il figlio di Dio, dio lui stesso, non poteva ignorare il greco più di non importa quale delle lingue che sono state e saranno mai parlate sulla superficie di quella terra che suo padre aveva creato e dove gli era piaciuto discendere.
Quanto al latino, si sa che non era in uso da nessuna parte nel bacino del Mediterraneo orientale e lo era pochissimo in quello del Mediterraneo occidentale. A Roma stessa, la lingua comune tra gli ebrei e tra i cristiani restò per qualche tempo il greco.
Ciò detto (d'accordo con tutti gli studiosi), esaminiamo in un rapido giro d'orizzonte (d'accordo anche con il maggior numero di loro) i vari aspetti della situazione politica del «popolo giudeo», e di conseguenza dei nostri pre-cristiani e dei primi cristiani, durante la prima metà del primo secolo.
Situazione politica. — Al momento in cui l'imperatore Tiberio succede all'imperatore Augusto, la Palestina tutt'intera è da un secolo circa sottomessa alla dominazione romana, la quale è esercitata, sia direttamente dai procuratori, sia indirettamente dai sovrani locali sotto il protettorato e il controllo di Roma. Così, tra gli anni 26 e 36, il famoso Ponzio Pilato governa in Giudea. La sua residenza abituale è non a Gerusalemme, ma a Cesarea, punto d'imbarco verso l'Italia e verso i porti del Mediterraneo orientale, grande città abitata da un misto di pagani e di ebrei sempre in disputa.
Le altre parti della Palestina (Galilea, Perea, Gaulonitide, Batanea) obbedivano allora ai discendenti di Erode vassalli dell'imperatore.
A nord della Palestina, la Siria forma una grande provincia retta da un legato imperiale e la cui capitale è Antiochia, una delle città più importanti dell'Impero, con 500.000 abitanti, dice Renan.
Attorno al Mediterraneo orientale, la provincia d'Asia (Asia Minore); grande città, Efeso. Poi la Macedonia e la Grecia, di cui Corinto è il principale porto. Infine, l'Egitto e Alessandria, seconda città dell'Impero.
In Giudea e in Galilea gli ebrei erano a casa. Nelle altre regioni, in Siria, in Asia Minore, in Macedonia e in Grecia, in Egitto, e come pure in Italia, avevano costituito gli importanti gruppi che si chiama la Diaspora. Non meno di un mezzo milione di ebrei nella sola città d'Alessandria; da sei a sette milioni in tutto l'Impero, su una popolazione totale di cinquantaquattro o cinquantacinque milioni d'abitanti, cifre date da Harnack, un po' ridotte da Juster. [3]
Ora, il principio del governo romano era di lasciare la massima indipendenza possibile, diremmo l'autonomia, alle autorità locali. Era così particolarmente in Giudea e in Galilea, dove le autorità ebraiche esercitavano sui loro correligionari un potere che frenava appena il controllo imperiale.
Al di fuori dalla Palestina, gli ebrei ricadevano sotto la legge delle province e delle città dove abitavano? No, perché erano considerati dall'Impero come una nazionalità e conservavano i loro privilegi. Lungi dal perseguitarli, Roma permetteva loro di vivere «secondo la legge dei loro antenati» e imponeva alle città e alle province il rispetto dei loro diritti.
Dappertutto gli ebrei rientravano dunque nella legge e nelle autorità ebraiche. Ma di fatto la situazione era diversissima in Palestina e nella Diaspora. In Giudea e in Galilea, le autorità ebraiche avevano la forza coercitiva (tranne, man in condizioni mal definite, lo jus gladii). Nella Diaspora, al contrario, le sinagoghe erano obbligate a fare appello al braccio secolare, vale a dire al magistrato romano, il quale poteva sempre rifiutare la sua assistenza. E questa è una situazione sulla quale avremo da ritornare.
La legge di Mosè. — Quella «legge dei loro antenati» sotto la quale l'autorità romana permetteva agli ebrei di vivere in tutta l'estensione dell'Impero era, beninteso, la legge di Mosè tale come era scritta nei libri sacri del giudaismo. Ma non si comprenderà nulla, oso dire: si continuerà a non comprendere nulla degli inizi del cristianesimo, se si ignorano o si misconoscono due fatti:
1° La legge di Mosè è una legge civile e penale tanto quanto una legge religiosa; non ordina solo la vita religiosa e cultuale; regola la vita laica; è un codice civile, processuale e penale tanto quanto un codice cultuale;
2° Nessuna discriminazione è ammessa tra le ordinanze civili e le religiose, che sono egualmente obbligatorie; il più grave errore sarebbe di immaginare che un ebreo, a Gerusalemme, sia stato nella situazione di un francese del nostro tempo, costretto ad osservare le disposizioni del codice civile, ma libero di essere grasso il venerdì, se ben gli sembra, e non meno libero di bestemmiare tutto il giorno. L'ebreo è costretto ad obbedire a tutte le disposizioni della legge mosaica, sotto pena di sanzioni positive; e quando egli si sottrae all'una o all'altra, è perché il sorvegliante manca o non ha la presa abbastanza solida.
L'intero sforzo degli ortodossi, tanto in Giudea quanto nel resto dell'Impero, era di mantenere nel suo estremo rigore quell'autorità della legge mosaica. Il partito fariseo, nato da poco e che univa alle novità che aveva portato il sentimento nazionale più intransigente, considerava la legge mosaica il fondamento del giudaismo e ne faceva la condizione stessa dell'esistenza di Israele. Non si trattava di un vano formalismo, ma di una convinzione tanto ardente quanto ragionata, nata, come tutte le grandi cose, nell'inconscio d'uomini superiori e di là passata nella loro coscienza. Il cristianesimo ha calunniato i Farisei.
In Giudea e in Galilea i Farisei erano potenti, e sembra che siano riusciti praticamente a imporre le loro idee; non si vede come sia stato possibile agli ebrei non farvi circoncidere i loro figli e non osservare le prescrizioni ritenute essenziali della legge mosaica.
Nella diaspora, tutto dipendeva dall'autorità del partito fariseo nella sinagoga. Dove il partito dominava, la legge era strettamente seguita. In realtà, un gran numero di sinagoghe erano ortodosse; ma in un gran numero un rilassamento si era prodotto; e in un gran numero anche delle dissidenze.
Ma ecco cos'è essenziale. Non bastava che una sinagoga fosse ortodossa perché l'osservanza della legge mosaica fosse di fatto imposta a tutti gli ebrei della regione. Abbiamo appena spiegato che, se le autorità ebraiche avevano in Giudea e Galilea il potere coercitivo, esse non lo avevano nella Diaspora; le sinagoghe della Diaspora non possedendo i mezzi per punire gli ebrei che contravvenivano alle loro prescrizioni o i dissidenti, la loro forza era fare appello all'autorità romana, la quale si faceva a volte tirare l'orecchio; così, quando i motivi dell'accusa non sembravano loro di natura tale da smuovere il proconsole, esse tentavano di trasformarli in crimini contro l'Impero. .. Beninteso, la cosa non riusciva sempre. Leggere, per esempio, il racconto del libro degli Atti 18:12-17, che, benché di una storicità dubbia, dà un'impressione abbastanza esatta della realtà, e che si termina con una dettaglio di cui si gusterà l'umorismo involontario.
Gallione essendo proconsole d'Acaia, i Giudei insorsero di comune accordo contro Paolo e lo condussero al tribunale dicendo: «Costui persuade gli uomini a rendere a Dio un culto contrario alla legge». E al momento in cui Paolo stava per aprire la bocca, Gallione disse ai Giudei: «Se si trattasse, o Giudei, di qualche ingiustizia o di qualche crimine, io vi ascolterei, come di ragione; ma se si tratta di parole o di nomi e della legge che vi è propria, vedetevela voi; io non voglio, quanto a me, essere giudice di queste cose». E li fece uscire dal tribunale. E tutti i Greci presero Sostene, capo della sinagoga, e lo percossero davanti al tribunale, e Gallione non se ne curava per nulla.
Tale è la situazione degli ebrei e di conseguenza dei primi cristiani in relazione alle leggi mosaiche. In Giudea come in Galilea, obbedienza obbligatoria. Nella Diaspora, ogni possibilità di emancipazione, ma non senza tempeste.
Così, e già al presente, si comprenderà che i primi cristiani galilei, vale a dire gli «Apostoli», siano stati, prima come dopo il loro insediamento a Gerusalemme, così perfetti osservanti della legge mosaica.
Credenze. — Accanto alle osservanze ci sono le credenze. Quali erano le credenze essenziali del giudaismo? Evidentemente, e prima di tutto, ciò che è convenuto chiamare il monoteismo, vale a dire la credenza, non nel dio che insegna oggi il catechismo o nel dio delle filosofie deiste, ma nel vecchio dio d'Israele Jahvé divenuto «Dio» tout court, grande dio, dio supremo e dio unico, accanto a cui gli altri dèi non sono affatto scomparsi ma sono discesi al rango di demoni.
Al di fuori di quella credenza, sarebbe a malapena un paradosso dire che vi erano nel giudaismo solo tradizioni, le quali erano soggette a controversie di cui non si potrebbe immaginare l'asprezza. Le credenze messianiche stesse, lo vedremo presto, non erano intese dappertutto nello stesso modo. Alcuni circoli tendevano persino ad ammettere al di sotto del dio unico una sorta di secondo dio, intermediario tra lui e il mondo; e quella credenza era lungi dall'essere peculiare ai nostri eretici Galilei.
Fuori di ogni contestazione era egualmente l'autorità delle Scritture sacre.
Il giudaismo ebbe l'opportunità inaudita (che il cristianesimo ereditò da esso) non solo di avere delle Scritture sacre, ma che queste Scritture fossero state l'opera di uomini di cui alcuni furono scrittori di genio, al punto da giustificare l'affermazione della Chiesa che esse sono state ispirate dallo Spirito Santo. Si sentono certe persone professare che un'idea è sufficientemente espressa quando essa è stata enunciata con esattezza e chiarezza, e che il potere dello stile è un abbellimento con cui la verità non ha a che fare; costoro potrebbero apprendere, se non fossero risoluti a non sapere nulla, che le grandi cose che il giudaismo dapprima, poi San Paolo, poi i vangeli hanno detto al mondo, sono state ascoltate da quest'ultimo perché gli erano dette in quelle formule decisive che, non accontentandosi di esprimere la materialità stretta di ciò che enunciano, illuminano di colpo le intelligenze tanto per la loro penetrante precisione quanto per la forza evocativa delle immagini che impongono, ancor più per ciò che chiamiamo oggi il loro valore musicale, vale a dire per quella misteriosa presa spirituale che esercita sul cuore tale formula, mentre tale altra, che i nostri zoticoni dichiarerebbero simile, lo lascia freddo. L'antica scuola aveva ragione ad insegnare che nulla serve a provare se non si smuove, diciamo: se non si toccano le profondità. Alcune delle Scritture sacre del giudaismo e del cristianesimo rientrano tra le più alte manifestazioni della poesia. Ho parlato della «opportunità» che aveva avuto il giudaismo (e il giudaismo cristianizzato); vi è la in realtà solo il segno di una razza superiore; Isaia e San Paolo attestano l'elezione di Israele, come Omero e Virgilio quella dei suoi rivali.
Questi capolavori (parliamo qui della Bibbia ebraica) potevano rimanere rinchiusi in una lingua, l'ebraico, inassimilabile al mondo greco-romano? Il sociologo risponderà che ciò non poteva essere; questi libri portavano in sé la necessità della loro diffusione. Tradotti in greco dagli ebrei di Alessandria, essi furono il vangelo del giudaismo.
L'autorità delle Scritture sacre già prima del primo secolo era assoluta sotto la loro forma greca tra gli ebrei ellenistici, come sotto la loro forma originale tra i Giudei ebrei.
Cultura. — Basterà ricordare [4] che, accanto alla cultura ebraica peculiare agli ebrei, la cultura letteraria, scientifica, filosofica dell'ellenismo era allora universalmente diffusa; non è senza verosimiglianza che si sia potuto parlare dell'«Università» di Tarso, la capitale di Cilicia e la patria di San Paolo. Quanto ad Alessandria, ognuno sa che la famosa scuola di cui Filone era il maestro all'inizio del primo secolo, aveva per programma l'ellenizzazione del giudaismo.
Infiltrazioni pagane. — Per definizione, il giudaismo era una reazione contro il paganesimo, vale a dire contro tutte le religioni straniere, e fin dalla loro più giovane età gli ebrei erano ammaestrati a tenerle in abominio; ma di fatto, quasi dappertutto e quasi sempre passarono la loro vita circondati da pagani. Le penetrazioni non potevano mancare di verificarsi, soprattutto negli ambienti dove l'ortodossia farisaica non regnava, e il pericolo, come vedremo, veniva dalle religioni misteriche molto più che dalle religioni ufficiali.
I pagani che entravano nel giudaismo come «proseliti» o come semplici «timorati di Dio» non lo fecero, d'altra parte, senza portarvi molte cose della religione dove erano stati educati; i nostri missionari sanno ciò che un convertito può conservare delle sue antiche credenze e delle sue antiche pratiche!
Vi è là un insieme di fatti sui quali gli studiosi sono oggi d'accordo, a tal misura che posso ispirare la mia conclusione al signor Charles Guignebert stesso, il quale spiega «quale errore sarebbe credere in un giudaismo dappertutto lo stesso e rigorosamente ortodosso», ciò, aggiunge, «così nella Palestina stessa come nella Diaspora», mostrando anche come la sinagoga «tendesse a diventare eretica», e come le sette dissidenti brulicassero da tutte le parti. [5]
«Sette», scriveva ancora di recente, «sempre ebraiche nell'intenzione e, senza dubbio, nello spirito, ma anche penetrate da idee, spesso da speculazioni, molto lontane, quanto alle loro origini e alla loro natura essenziale, dall'autentica legge mosaica. Ci si è potuto persino domandare senza paradosso se non fosse da una di queste sette che Gesù era uscito». [6]
Al posto dell'«uomo» chiamato Gesù, di cui vuole evidentemente parlare il signor Guignebert, ascoltiamo i settari del «dio» Gesù, e ritroviamo la nostra tesi...
Vi sarebbe anche motivo di studiare lo sviluppo preso dal primo secolo dallo gnosticismo ebraico; obbligati a limitarci, rimandiamo ad alcune spiegazioni brevissime che saranno dedicate più oltre, [7] e riassumeremo, così come segue, la situazione generale delle popolazioni che costituivano il «popolo giudeo» rispetto al giudaismo ufficiale.
Quanto all'osservanza delle leggi mosaiche, è sufficiente, nella Diaspora, che l'autorità farisaica si indebolisca perché ci siano osservanti approssimativi. A Gerusalemme e in Galilea, al contrario, dove quest'ultima onnipotente, la fantasia è proibita; dopo come prima del loro insediamento a Gerusalemme, i Galilei non possono che essere stretti osservanti.
Sulla credenza monoteista e l'autorità delle Scritture sacre, adesione dappertutto, mediante a volte qualche accomodamento.
Influenza della cultura ellenica: dappertutto, anche a Gerusalemme; meno evidentemente tra i contadini, i pescatori, i piccoli artigiani della Galilea.
Infiltrazioni pagane dappertutto, non solo nella Diaspora, ma in Palestina.
Le venti pagine che precedono riguardano l'insieme del «popolo giudeo» nel primo secolo; quelle che seguiranno riguarderanno solo i precristiani e i primi cristiani galilei. Il bell'accordo in cui abbiamo avuto fin qui la gioia di trovarci con il maggior numero degli studiosi sfortunatamente non durerà.
NOTE
[1] Attestato in particolare dal vangelo secondo San Matteo 26:73.
[2] Jésus-Jeshua, Leipzig, 1922.
[3] Juster: i Juifs dans l'empire romain, Parigi, 1914, che si può consultare su tutte queste questioni.
[4] Si veda, per citare solo libri francesi e facilmente accessibili, Toussaint: l'Hellénisme et l'Apôtre Paul, Parigi, 1921, che secondo il signor Loisy, non ha potuto che esagerare certi aspetti della questione, ma che si impone nelle sue grandi linee (Revue Critique, 1921, pagina 403); anche Guignebert, il Problème de Jésus, Parigi 1914, salvo le riserve che si leggeranno più oltre.
[5] Problème de Jésus, pagine 110 e seguenti.
[6] Guignèbert: Jésus, 1933, pagina 10.
[7] Si veda Appendice V.
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