Forse le innumerevoli voci che, da Lutero e Renan fino ai nostri pubblicisti di sinistra, ripetono alla nausea che la Chiesa ha tradito il vangelo hanno ragione?... Noi diremmo, invece, che è il vangelo altrettanto bene come la politica ecclesiastica ad aver tradito il cristianesimo primitivo.
(Edouard Dujardin)
Il Dio di Coincidenza
Può qualcuno negare che
Una cosa dopo l'altra
In sequenza e logica
Mai vista prima
Non può essere che la
Interferenza di un Dio
Determinata a provare che
Ognuno che pretende
Di conoscere ora
Una cospirazione è
Demente?
(Kent Murphy)
L'esegesi del Nuovo Testamento ha dovuto svilupparsi fino al punto in cui si è sviluppata oggi — e mi riferisco all'inesistenza del Gesù storico — perché ci si rendesse conto che tutto il Nuovo Testamento era, fin dall'inizio, un testo molto sovversivo rivolto contro Roma (questo è fin troppo chiaro nel libro dell'Apocalisse).
Sarebbe interessante scoprire chi è stato il primo a scoprire tutto questo. Penso di averlo individuato nientemeno che in Edouard Dujardin.
Questi, ne Le Dieu Jésus, prolégomènes à un essai sur les origines et la formation de la légende évangélique, pubblicato nel 1927, si era accinto a stabilire che Gesù non è un uomo divinizzato dai suoi seguaci ma un dio a cui i suoi adoratori hanno finito per dare un'apparenza umana. Più precisamente, Dujardin aveva mostrato in Gesù un dio che muore e risorge, come tanti altri che si sono mantenuti, più o meno trasformati, in religioni misteriche. In quella prospettiva il cristianesimo del I° secolo non fu che un risveglio, una sorta di rinascita di un culto antichissimo del nord della Palestina. Così Dujardin l'aveva interpretato, applicando i principi formulati da Durkheim ne Les Formes élémentaires de la vie religieuse.
Quella concezione si basa innanzitutto su vari testi dell'apostolo Paolo. La loro autenticità è stata contestata da Joseph Turmel, il quale li considerò interpolazioni marcionite. Dujardin ha reagito vivamente contro quella tesi in un secondo volume intitolato Grandeur et décadence de la critique, sa rénovation. In quel libro Dujardin denuncia, in termini durissimi, gli attacchi alla autenticità della maggior parte degli scritti paolini come una mancanza di gusto e di comprensione, come una «decadenza» della critica, che ha gran bisogno, secondo Dujardin, di rinnovarsi diffidando degli abusi della critica interna.
Dujardin presenta il seguito della sua Histoire ancienne du Dieu Jésus, in un terzo volume che studia «la prima generazione cristiana, il suo destino rivoluzionario». Cos'è una rivoluzione? Un atto sanguinoso mediante il quale una società vecchia, che ha perso la sua coesione originale, viene distrutta, affinché al suo posto subentri un'altra i cui membri saranno uniti invece da legami più intimi e più forti. Di tutto ciò il dio che muore e risorge è un simbolo tanto più espressivo nella misura in cui gli si rese un culto. Perché il culto precristiano di Gesù, che risaliva a tempi antichissimi, conobbe, all'inizio della nostra era, un rinnovamento meraviglioso che fece di esso una delle grandi religioni dell'umanità?
La risposta di Dujardin: perché il vecchio mondo era caduto allo stato di un'orda confusa e sempre più si fece sentire il bisogno di un'altra società dove tutti gli uomini si sarebbero sentiti fratelli.
All'origine del mito di Gesù, un antico rito si celebrava in tempi neolitici sulle alture di Canaan e consisteva nel sacrificio di una divinità la cui morte era considerata il passaggio ad una nuova vita. La vittima iniziale era un animale, ad occorrenza un serpente, quello di cui un'effigie di rame, secondo una tradizione mosaica, fu “crocifissa” nel deserto per la salvezza del popolo. Dopo la conquista della Palestina da parte delle tribù israelite raggruppate attorno a Jahvé, il serpente fu maledetto dai vincitori in quanto un nemico del vero Dio, il suo culto sopravvisse solo sui confini della Palestina, presso il lago di Tiberiade. Nel corso del II° secolo prima della nostra era, quando la Galilea, in seguito all'azione nazionalista dei Maccabei, venne annessa alla Giudea, tale culto poté vivere solo mascherandosi e diventò così una religione misterica. Allo stesso tempo, esso si infiltrò fino alle vicinanze di Gerusalemme ed ebbe un centro cultuale sul Golgota. Col progresso della tendenza antropomorfica, il dio preistorico nel frattempo si era evoluto. Non era più conosciuto sotto la forma di un serpente ma sotto quella di un uomo tragicamente immolato come Adone in Siria e Osiride in Egitto. Certo, ad aver crocifisso Gesù furono i demoni, secondo il mito più antico. Ma non lo crocifissero tra cielo e terra, bensì nel corso del dramma sacro che rappresentava e realizzava la passione del dio.
Sotto la dominazione ebraica il dio Gesù si appropriò di diversi elementi della tradizione, sia mosaica, sia profetica, e assunse l'aspetto di legislatore e di Messia, imponendosi così sempre più alla devozione dei suoi fedeli. È così che nell'anno 27 della nostra era, in occasione di una crocifissione rituale, eseguita sul Golgota, alcuni galilei, Cefa, Giacomo e Giovanni che ne erano stati i testimoni impressionati (leggi: allucinatori), ebbero visioni del Cristo risorto, di cui si fecero da quel momento in poi gli apostoli ardenti.
Emerge dal contesto che la loro fede fu in sostanza quella di Paolo. Tutti credettero nel Dio Gesù che muore e risorge. Tutti lo videro apparire, all'irrompere della crisi mistica da cui fuoriuscì la «rinascita» cristiana. Tutti si convinsero che la salvezza consisteva nell'assimilarsi a lui morendo al mondo per vivere secondo lo spirito. Su tutti questi punti Paolo andò a confrontare le sue opinioni con quelle di Cefa, tre anni dopo la sua conversione, durante quindici giorni di permanenza presso di lui dove si decise la storia mondiale. Paolo vide il dio Gesù in rivelazione. Ecco perché si dedicò allo stesso apostolato senza provare il bisogno di mettersi alla loro scuola. D'accordo con le «colonne» per l'essenziale, egli mostrò soltanto una maggiore libertà nei confronti del giudaismo, siccome egli non operò in Palestina.
Cefa e Paolo, e con loro tutti i cristiani della prima generazione, ebbero lo stesso approccio negativo nei riguardi del vecchio mondo, la stessa fede generatrice di una nuova società. L'approccio e la fede che preconizzano le grandi epistole ai Romani, ai Corinti, ai Galati. Essi ebbero l'approccio rivoluzionario di un Lenin, di un Trotsky. Così essi differirono dalle credenze dell'età successiva, della generazione già più conformista da cui scaturì l'evemerismo in azione nei vangeli.
Dujardin stima quei primi apostoli per il loro eroismo, ma non manca di rivelare, tra le righe, l'aspetto inquietante, l'aspetto sinistro, di una tale rivoluzione.
Il cristianesimo primitivo ha inscritto alla prima pagina del suo programma la distruzione del mondo antico.
(pagina 175)
E ancora:
Un primo fatto è fuori discussione: i cristiani attesero, sperarono, sostennero con tutte le loro forze la distruzione del mondo terreno, e non si immagini che in quella distruzione generale essi abbiano accordato alla capitale dell'Impero il beneficio di un'eccezione.
(pagina 352)
La grave implicazione: è possibilissimo che furono i cristiani stessi ad avere appiccato il Grande Incendio di Roma nel 64 E.C.
L'implicito corollario è quanto basta perché si debba assolutamente concordare con le seguenti parole del filosofo Alain de Benoist:
Il cristianesimo ... è classicamente interpretato come una dissidenza progressivamente «occidentalizzata» del giudaismo. Altri vi hanno visto, in modo più originale, uno gnosticismo, cioè un antigiudaismo, progressivamente re-giudaizzato (cfr. Jean Magne, Origines chrétiennes, 2 vol., Parigi, 1975). Quel che ne sia, resta il fatto che la cristianizzazione portò a tutto il processo di pseudomorfosi europea, e che ne risultò un certo numero di interazioni che alla fine portarono ad una categoria religiosa ibrida. Una volta cristianizzata l'Europa, né la cultura europea né il cristianesimo sono stati più conformi alle loro origini e alla loro propria «natura».
(Comment peut-on être païen?, pag. 233)
La prima parte del secondo secolo, prosegue Dujardin, è l'epoca della diffusione del culto. Ma, una volta che una carriera umana fu attribuita a Gesù, una volta almeno che si cominciò a raccontare la storia della sua vita, l'originario dramma sacro non poté più restare nel periodo nebuloso che precedeva la resurrezione, e di cui nulla insomma era accaduto. Esso doveva entrare nel periodo umano di quella storia.
Ciò che colpisce, della ricostruzione generale di Dujardin, è la sua acuta osservazione che si conobbe, del dio Gesù, dapprima la sua morte, e che si inventò a partire da quella morte la sua vita pubblica sul doppio tema del battesimo e dell'eucarestia, che furono istituiti per le divinità misteriche. In seguito si inventò l'infanzia del dio, i vangeli di Matteo e di Luca essendo i più tardivi. Marcione faceva discendere Gesù sulla terra all'età di trent'anni.
ÉDOUARD DUJARDIN
LA PRIMA
GENERAZIONE CRISTIANA
SUO DESTINO RIVOLUZIONARIO
PREMESSA
«Io credo», ha detto Durkheim, «che il sacro possa essere espresso, e mi sforzo di esprimerlo in termini laici». [1] Lo storico che riuscisse a presentare «in termini laici» la storia del cristianesimo primitivo gli darebbe oggi il suo volto più comprensibile e, con ciò stesso, il più esatto; e così compirebbe un'opera di un'immensa portata.
Si sentono persone dichiarare che è loro impossibile interessarsi, nelle tragedie di Racine, agli amori di questi prìncipi e principesse così lontani da noi, non solo per la lingua che parlano, ma per la vita che conducono, per le preoccupazioni insipide ai nostri occhi che li agitano e l'assenza di quelle che ci agiterebbero al loro posto, per l'atmosfera di irrealtà in cui si muovono. L'arte del grande commediografo è far comprendere che sono esseri umani, detto altrimenti farli parlare e agire, non dico in termini laici, ma in termini di vita.
Qualunque abuso che ne sia stato fatto, non si negherà che il materialismo storico abbia reso in tal senso dei servigi alla storia. Come non alzare le spalle quando si vede la gente dilaniarsi per sapere se lo Spirito Santo proceda solo dal Padre o proceda anche dal Figlio? Ma ci si mostri che sotto quella disputa si nascondono le competizioni della natura più positiva, e noi tendiamo immediatamente l'orecchio. Allargando il quadro del materialismo storico, la sociologia ci fa vedere, in eventi che sembrerebbero per sempre superati, lo sviluppo stesso del gruppo sociale al quale apparteniamo.
Per ricorrere ad un esempio più prossimo a noi, ci si immagina a qual punto l'affare Dreyfus prenderà una diversa importanza, a seconda che si voglia vedervi una semplice revisione di un fermo giudiziario o il conflitto tra due concezioni dell'ordine sociale?
Veniamo alla storia del cristianesimo primitivo. Di cosa si tratta? Una religione che ne sostituisce un'altra? Uomini che, al posto di domandare a Jupiter pluvius la pioggia e il bel tempo, li domandano a Gesù o li domanderanno ai suoi santi? Preti che si abbigliano di nero dopo essersi abbigliati di bianco? Per un'epoca irreligiosa, ecco domande poco eccitanti. L'interesse nascerà se, sotto le formule ormai «bigotte» dei libri del Nuovo Testamento, scopriremmo dei significati che ci toccano, se in queste sante persone presunte sempre in preghiera, riconoscessimo uomini che preparano eventi le cui conseguenze non sono prossime a scomparire, se queste sante persone si rivelano dei temibili rivoluzionari.
Si dice spesso che il cristianesimo, come si è realizzato nella Chiesa, non è stato quello che i suoi fondatori avevano voluto. La questione, poniamola meglio, è sapere se hanno realizzato ciò che sembrano aver realizzato, ciò che loro stessi hanno creduto di realizzare.
È un fatto universalmente ammesso oggi tra gli studiosi che la religione è stata la forma sotto la quale si è espresso primitivamente il legame sociale. Non è meno certo che la struttura sociale, ai tempi dell'impero romano, esigeva che il rinnovamento del mondo si operasse sotto la forma di una religione nuova. L'interesse della storia del cristianesimo primitivo è di ritrovare sotto quella forma religiosa, per quanto obsoleta appaia a un gran numero dei nostri contemporanei, una verità rivoluzionaria che non è, invece, affatto superata.
Nelle epoche in cui le religioni fioriscono, le grandi formule che fanno agire gli uomini si abbigliano di vesti religiose; si abbigliano oggi di una veste laica. La formula del primo secolo è quella di un dio che muore e che risorge; quella che ha fatto il 1789 si è iscritta nei Diritti dell'Uomo; quella del 1917 è la formula marxista. I Romani portavano la toga; noi portiamo la giacca.
Pensare «in termini laici» la storia del cristianesimo primitivo, e in particolare la storia dei primi cristiani, equivarrà dunque a trascurare l'abito delle persone pie ancora in preghiera, con cui la tradizione e, ahimè!, Renan stesso continua ad abbigliarle. Equivarrà a far rappresentare Andromaque in costumi di moda nel 1935 da attori che «suonano moderni». Equivarrà a ricercare nei primi cristiani gli uomini che sono stati; equivarrà, seguendoli nel mezzo delle loro comunità, a pensare non solo a Lutero, ma a Robespierre e a Lenin prima della presa del potere. Equivarrà, per riprendere il titolo del volume, a studiare, in quella prima generazione cristiana, il suo destino rivoluzionario.
Non promettiamo però al di là delle nostre possibilità. Quella storia «in termini laici» dell'instaurazione del cristianesimo ci è possibile intraprenderla solo a condizione di presentarla innanzitutto nei «termini religiosi» secondo i quali si è prodotta. Se il significato rivoluzionario del cristianesimo primitivo si è nascosto sotto le forme di una religione nuova, ci occorre cominciare a studiare quest'ultime, cercando di svelare poco a poco a quali realtà sociologiche esse corrispondono.
C'è bisogno di aggiungere che noi non condanniamo in nessun modo (il cielo ce ne guardi!) lo studio che si può fare delle religioni in sé e per sé, indipendentemente dal loro significato sociale. Sarà sempre lecito raccontare belle avventure, evocare le immagini di un passato svanito, persino metterlo in versi; a maggior ragione (non voglio fare paragoni), gli studiosi hanno il diritto e il dovere di scrutarne i testi e di analizzarne i paralleli, limitandosi al loro compito e con il legittimo pregiudizio di non uscire dalla loro specialità.
E, dopo tutto, si permetterà ad uno studioso che ha scritto romanzi, poemi e pezzi teatrali, domandarsi se, sottostante tutti questi aspetti della storia, racconto storico, quadro storico, ricerca storica erudita, storia sociologica, non ci sia parallelamente e semplicemente lo sforzo dell'intelligenza a immaginare. Solo che, come certi generi dell'antica poetica, il genere storia è un genere a «forme fisse»; la nostra «forma fissa» a noi, come storici, è l'obbedienza ai documenti.
Per far ammettere il programma di storia del cristianesimo primitivo che intravediamo, ci tocca sfortunatamente fare la guerra su due fronti. Abbiamo contro di noi le persone che credono ancora nella realtà e persino nella realtà materiale del mito religioso, e quelle che, non credendovi, si rifiutano di comprenderne e persino di discuterne il significato. Ma la maggiore difficoltà è quella del vocabolario, e consiste nel fatto che siamo obbligati ad impiegare certe parole in un senso che non è quello che si dà loro comunemente oggi. Da qui, i più gravi malintesi. Per esempio, e soprattutto, la parola stessa «religione», e altrettanto bene quella di «dio».
È evidente che si comprenderà la storia del cristianesimo primitivo e delle sue origini solo se (contrariamente a quanto fanno la maggior parte dei marxisti così come i difensori della borghesia) la si smette di riservare l'appellativo di religioni a quelle che vediamo praticare attorno a noi o a quelle che si rappresentano sulla scena dell'Opera. Per ciò che concerne «Dio», diciamo piuttosto «gli dèi», il nostro sforzo sarà di precisare cosa gli uomini hanno posto sotto quella denominazione e quale ruolo hanno attribuito agli innumerevoli personaggi ai quali l'hanno accordato. Supplichiamo in ogni caso i nostri lettori colti, ma non specialisti, di fare lo sforzo indispensabile per scartare momentaneamente dal loro pensiero tutto ciò che la parola «Dio» è suscettibile di evocare all'ora presente; e, se è loro impossibile dimenticare le immagini che hanno fornito alla loro immaginazione altrettanto bene i quadri esposti nei nostri musei come il catechismo o i trattati di filosofia classica, io li supplicherei di voler ben aggiungervi quelle che forniranno loro i racconti degli etnografi che si sono avventurati tra gli Arunta dell'Australia centrale, o tra tali altri popoli semi-civilizzati, a scelta.
Le persone che intraprenderanno la lettura del presente volume avranno probabilmente letto i due precedenti. Li abbiamo appena avvertiti, in ogni caso, che non ne comprenderebbero una parola se si chiudessero nella concezione che ci si fa oggi di Dio e della religione; non si ritroverebbero neppure (e in particolare nelle sue prime due parti) se, sotto il nome di Gesù, si rappresentassero un personaggio storico suppliziato al tempo dell'imperatore Tiberio, e se non accettassero, almeno per il tempo della loro lettura, di mettere sotto questo nome infinitamente sacro la personalità puramente spirituale di uno degli innumerevoli dèi che avranno adorato gli uomini. Quelli dei nostri maestri e dei nostri colleghi che sono più attaccati alla storicità fisica di Gesù ci accorderanno che è impossibile comprendere un autore se (almeno, lo ripetiamo, per il tempo della lettura) non ci si colloca dal suo punto di vista.
Quanto alla tesi stessa della non-storicità fisica di Gesù, non ritorneremo sulla dimostrazione che ci siamo sforzati di dare nel primo di questi due volumi. Per quanto concerne la parte costruttiva della nostra tesi, ricorderemo soltanto che abbiamo preso per punto di partenza il principio magistralmente e definitivamente stabilito da Robertson Smith: i miti nascono dai riti, da cui abbiamo dedotto che il mito del dio sacrificato è nato dal sacrificio del dio; vale a dire che all'origine della religione di Gesù vi è un clan preistorico che immola e crocifigge una vittima in cui vede il suo dio. Così si è potuto indicare la tesi che noi abbiamo presentato col nome di tesi mitica sacrificale.
E senza dubbio il capitolo più nuovo di questo volume è quello in cui abbiamo stabilito che la crocifissione di Gesù è stata concepita come un rito sacrificale prima di essere concepita come un supplizio penale. Senza avervi ancora precisato sotto quale forma San Paolo immagina che si è effettuata la crocifissione del Signore, [2] pensiamo di avervi dimostrato che egli ignora almeno che essa sia stata l'esecuzione di una condanna giudiziaria, come dovevano più tardi raccontarla i vangeli.
Questo primo volume si terminava con una bozza dell'antico dramma sacro nel corso del quale, per secoli, in un oscuro alto luogo palestinese, il dio è stato immolato, messo in croce e sepolto, in quanto vittima espiatoria. Quella bozza, i cui elementi riappariranno nel presente volume, sarà ripresa e sviluppata nel successivo. Devo però segnalare sin d'ora che l'ultima parte è stata generalmente fraintesa. La mia colpa è apparentemente di non aver sufficientemente indicato che vi era là solo un tentativo di raccogliere, in una sorta di quadro ideale, gli elementi che si erano costruiti a poco a poco, e di mettere particolarmente in evidenza quale potesse essere l'opera della fede in una elaborazione di questo genere.
Il secondo volume della serie, Grandeur et décadence de la critique, espone la nostra posizione critica nei confronti del grande documento del cristianesimo primitivo, le epistole di San Paolo, posizione che era indispensabile precisare, dato che dall'autorità che si accorda a quest'ultime dipende l'immagine che ci si farà del cristianesimo primitivo stesso. [3]
Esso contiene anche una discussione dei metodi di cui l'abate Turmel è stato il rappresentante estremista. Non accanendoci in alcun modo sulla persona di costui, il nostro scopo è stato di lanciare un grido di allarme, in presenza del ritorno offensivo ,nella storia delle religioni, di procedure critiche scomparse per sempre dagli altri rami dell'erudizione — storia, filologia, archeologia, linguistica, etnografia e che non solo sono agli antipodi delle discipline scientifiche, ma vanno anche contro tutto ciò che ci sembra essere la giusta comprensione dei valori spirituali. È, in realtà, una concezione sociologica della storia dell'uomo che abbiamo tentato di opporre, in questo volume come in tutta la nostra opera, alla concezione pseudo-razionalista.
La bozza di una storia della prima generazione cristiana, che è l'oggetto del presente volume, potrà intendersi solo se preceduta da uno studio delle origini, e la prima parte dovrà essere dedicata alle concezioni preistoriche che sono alla base della società e alle quali il cristianesimo (questa è tutta la nostra tesi) è un ritorno (evidentemente modernizzato, evidentemente rinnovato, evidentemente idealizzato). Dopodiché, dovremo ricercare in quali circostanze, in quale ambiente, tra quali uomini esso si è costruito, sforzandoci di svelare a poco a poco, man mano che avanzeremo nel nostro studio, il carattere umano di quell'opera, e come questo carattere d'umanità sia un carattere rivoluzionario.
E riconosceremo a qual punto, tanto per le sue dottrine quanto per la sua morale e per i suoi metodi di vita, questo cristianesimo rivoluzionario della prima generazione cristiana differisca non solo dal cristianesimo che trionfò nel quarto secolo, ma dal cristianesimo degli uomini che, nel secondo secolo, hanno cercato (senza riuscirci) di riconciliarlo con l'Impero, e, d'altra parte, dal cristianesimo «evangelico» e tolstoiano che altri gruppi hanno formulato all'inizio di questo stesso secondo secolo nel Discorso della Montagna. [4] Forse le innumerevoli voci che, da Lutero e Renan fino ai nostri pubblicisti di sinistra, ripetono in continuazione che la Chiesa ha tradito il vangelo hanno ragione?... Noi diremmo, invece, che è il vangelo altrettanto bene come la politica ecclesiastica ad aver tradito il cristianesimo primitivo.
Allorché l'uomo ha raggiunto certe altezze, egli non può che ridiscendere. È uno di questi momenti culminanti che con la prima generazione cristiana noi dobbiamo studiare qui.
NOTE
[1] Détermination du fait moral, in Sociologie et philosophie, pagina 87.
[2] Ciò che indicheremo sommariamente a pagina 37 del presente volume in attesa dello studio più completo che seguirà.
[3] Si veda qui sotto Appendice 1.
[4] Tutto questo sarà spiegato nel corso della presente opera e riassunto nell'Appendice 10 (Riferimento André Gide).
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