domenica 21 febbraio 2021

I Vangeli

 

CAPITOLO V

I Vangeli


Il loro valore storico

La parola «vangelo» significa «buona novella». Sono una settantina che si raccomandano a Pietro, Taddeo, Tommaso, Marco, Filippo, Andrea, Matteo, Giacomo, Barnaba, Luca, Mattia, Bartolomeo, Giovanni e molti altri.

Ma la Chiesa onora quattro tra loro, dichiarandoli canonici: li si ha riconosciuti di passaggio.

Questa scelta sovrana tra crifi e apocrifi è dovuta al Concilio di Nicea, convocato nel 325 da Costantino con l'approvazione del papa Silvestro I. È riportato che i Padri erano molto imbarazzati. La selezione si è operata secondo criteri oggettivi, analisi critica, indagine o provenienza? Per nulla affatto. Solo la teologia ha deciso, con l'aiuto dello Spirito Santo.

È per un gioco di prestigio che i buoni libri furono designati: posti alla rinfusa su un altare, i libri da scartare caddero a terra. Voltaire esclamerà: «È un peccato che, ai nostri giorni, questa bella ricetta sia andata perduta». [81]

Per il papa Ireneo è molto più semplice: possono esserci solo quattro vangeli autentici, poiché ci sono quattro punti cardinali e i cherubini hanno quattro facce.

Trascinato da una logica tutta personale, sua santità prosegue: «Matteo confuta gli ebioniti, Luca si oppone a Marcione e Marco critica Cerinto e Giovanni Valentino».

È con tali argomenti che furono incoronati vincitori i nostri quattro vangeli.

Gli altri sono stati decretati «non ispirati» o «apocrifi», che significa «nascosti». La parola evoca la gnosi e l'iniziazione; in realtà vuol dire semplicemente «non canonico».

Monsignor Cristiani pretende che il valore storico dei vangeli apocrifi sia «rigorosamente uguale a zero». [82] Pensa così di accreditare gli altri screditando questi, allo stesso modo di «chi rinchiude alcuni folli in una casa per persuadere quelli che sono fuori che non lo siano» (Montesquieu).

Eppure la Chiesa, che non vorrebbe firmare la sua formula, non esita ad attingere dagli apocrifi quel che poi battezza Tradizione. I suoi criteri, del resto, non sono di natura storica ma dogmatica.

Ai tempi in cui il dogma si cercava ancora, tutti gli scritti erano i benvenuti. «Non spegnete lo Spirito!» aveva raccomandato Paolo (1 Tessalonicesi 5:19).

Non si estinse nulla e un gran disordine regnò fino alla fine del secondo secolo. Giuda cita Enoc e Paolo l'Apocalisse di Elia (1 Corinzi 2:19) che diventeranno apocrifi.

Il vangelo secondo gli Ebrei e l'Apocalisse di Pietro, ora sotto il moggio, brillavano allora nella chiesa di Roma.

Il Pastore di Erma era canonico per Ireneo e Clemente d'Alessandria: il concilio romano del 494 lo mettono al rango degli apocrifi.

A poco a poco, l'anarchia fece posto alla necessità di unificare: si stabilì allora una media che sarebbe diventata ortodossia. Gli oppositori passeranno presto per eretici.

Si scartò il vangelo di Pietro, un tempo prestigioso, perché favoriva i doceti. Si gettò un'ombra sui vangeli dell'infanzia dal meraviglioso troppo eccessivo.

Le comunità più sagge adottarono un vangelo per il suo tono misurato e discreto che allontanava la contestazione pur conferendogli del prestigio.

La misura nell'eccesso dei cosiddetti vangeli canonici doveva farli trionfare. Insomma, la Chiesa ha ben scelto.

Per me, tutti i vangeli si equivalgono e un canonico è un apocrifo che ha successo.

Alcune chiese resistettero a lungo: nel 367 il Concilio di Laodicea respingeva ancora l'Apocalisse. Ma lo Spirito Santo, che aveva timbrato i canonici, seppe imporli.

Possa farceli apprezzare!

A quando datano i angeli?

A dispetto delle affermazioni della Chiesa, nessun vangelo canonico è anteriore al 150. 

Insistiamo su questo fatto: non esiste alcuno scritto redatto prima del 150 che fa menzione della vita di Gesù. In compenso, gli indizi sono numerosi quanto alla composizione dei quattro vangeli dopo quella data.

Intorno al 160-165, Giustino, uno dei primi autori cristiani, ignora ancora l'esistenza dei vangeli: fa allusione solo ad una raccolta di «Logia» (detti o profezie) attribuiti a Gesù che descrive come «brevi e concisi».

Questi «Logia» non ci sono pervenuti, benché siano probabilmente all'origine del vangelo attribuito a Marco.

Notiamo che Giustino ignora anche gli «Atti degli Apostoli», raccolta composita risalente alla fine del II° secolo.

I vangeli sono stati scritti dal 140 al 150 dopo i fatti che sono creduti riportare. Nessuno di loro è realmente dell'autore che gli si è attribuito, e nessun editore ne è stato il testimone diretto. Inoltre, sono stati scritti lontano dalla scena dell'azione e almeno due di loro, Marco e Luca, sono di origine romana.

La lingua originale utilizzata è il greco, ossia una lingua straniera. Solo Matteo potrebbe essere stato scritto in aramaico, ma questo punto è contestato da numerosi storici.

Ne risulta che il valore storico dei vangeli è pressappoco zero.

Immaginate il racconto della rivoluzione del 1848 negli Stati Uniti, scritto in spagnolo e riferito oralmente dai discendenti di emigrati: si immagina facilmente la parte di leggende, di distorsioni e di imprecisioni, che esigerebbero le maggiori riserve quanto alla veridicità degli eventi riportati.

Potrebbe essere tuttavia che potesse sussistere, al di là delle inevitabili deformazioni, il vago ricordo di fatti reali. Vedremo che nel caso dei vangeli, i racconti della vita di Gesù sono stati composti in maniera totalmente artificiale.


La Tradizione

La Chiesa afferma che i vangeli riportano una Tradizione ma nessuno può certificarla. Le incongruenze del racconto, il meraviglioso, bastano a sospettare le leggende. Inoltre, per stabilirsi, una tradizione dovrebbe risalire a testimoni diretti.

Ma nessuno risponde all'appello. La comunità di Gerusalemme è scomparsa nell'anno 70 senza lasciare traccia. Nessuno sa cosa ne è stato di Pietro-Cefa, ammesso che anche lui sia esistito. Lo si vede svanire bruscamente negli Atti degli Apostoli (12:17), recarsi «in un altro luogo» per non dare più segno di vita.

Quanto all'esistenza dei dodici, è così problematica che noi autori non ci intendiamo nemmeno sui loro nomi. L'unico conosciuto è Giacomo, e non si può dire se fosse cristiano e ancor meno che abbia parlato di Gesù.

Paolo, lo si è constatato, non ha visto niente con i suoi occhi e non ne sa niente.

L'autore dell'Apocalisse ignora ancora nell'anno 95 la venuta del Cristo sulla terra e la colloca nel futuro.

Allora, a chi dunque risale la Tradizione?

Per attestarla, la Chiesa ha fatto di Marco un discepolo di Pietro, di Matteo uno dei dodici apostoli, di Luca un compagno di Paolo. Ma questo montaggio grossolano non regge davanti alla cronologia editoriale dei vangeli.

Riguardo a Gesù, i racconti evangelici non hanno alcun ruolo biografico: non sono ordinati secondo i fatti, ma secondo un intento apologetico. Celso lo aveva notato: «essi sono stati alterati più volte per confutare le obiezioni rivolte ai cristiani, e secondo i bisogni della controversia».

Di solito, i vangeli sono scritti in prosa. Ma l'analisi del testo greco offre un interesse tutto particolare: numerosi passi appaiono, se non versificati, almeno in prosa ritmica, formati da strofe uguali, destinate ad essere salmodiate nelle cerimonie del culto.

Questa divisione è molto istruttiva, perché non si scrive un racconto storico in quella forma, ma soprattutto questo stile indica che un culto era già costituito. Forse si è anche tentato in quella maniera di iniziare gli illetterati, permettendo loro di apprendere a memoria interi frammenti.

Comunque sia, l'esistenza di tali versi nel testo greco è stata ben messa in evidenza da Loisy, sia nello pseudo-Marco che nello pseudo-Luca. [83]


Vangelo secondo Matteo

Nessuno parla di questo vangelo — nemmeno degli altri — prima di Papia, vescovo di Ierapoli in Frigia. Egli scriveva intorno al 140: «Matteo ha riunito i detti del Signore in lingua ebraica e ciascuno li tradusse come poteva».

Quella attribuzione si basa sul ragionamento seguente: il nostro vangelo è l'unico a nominare Matteo il pubblicano che Marco e Luca chiamano Levi; è, a quanto pare, la firma dell'autore.

Rops, tra gli altri, pretende che Matteo si sia definito lui stesso «scriba perfettamente istruito in quel che concerne il regno dei cieli» [84] e dà come riferimento Matteo 13:52. È facile constatare che non lo è affatto; tali espedienti giudicano una tesi.

In realtà, tutti gli apostoli furono privilegiati di un vangelo, perfino Giuda. Matteo si vide adornato dalla stessa aureola comune e se il «suo» scritto ebbe più fortuna di altri, non è affatto per ragioni storiche, ma dottrinali.

L'originale, precisa Papia, era scritto in ebraico, o meglio in aramaico, dialetto siro-caldeo; ma il vangelo attuale è in greco. Tra lo pseudo-Matteo e noi vi è dunque un intermediario. San Girolamo confessa di ignorare il suo nome, noi ignoriamo altrettanto la sua competenza. Padre de Grandmaison prende per una «congettura plausibile» che Matteo si fosse tradotto lui stesso [85] ma la confessione di Papia smentisce questo bel ottimismo.

Il nostro vangelo, in ogni caso, non traduce l'aramaico ma lo adatta, come prova la filologia. È anche certo che il traduttore ha conosciuto il vangelo di Marco da cui copia a volte parola per parola.

In sintesi, un testo aramaico non identificato poi rapidamente scomparso fu adattato in greco e ritoccato da un anonimo. La Chiesa venera il tutto sotto il patronimico di Matteo.


Vangelo secondo Marco

È ancora Papia che lo segnala per primo. Ricava da un certo Giovanni il Presbitero che Marco non ascoltò lui stesso il Signore, ma ricevette l'insegnamento di Pietro di cui era il discepolo e l'amico.

È poco credibile: Marco insiste sul rinnegamento dell'apostolo e tace il Tu es Petrus. Un avversario agirebbe diversamente? Si è cercato di spiegare questo silenzio con l'umiltà di san Pietro, ma la modestia personale deve cedere all'autorità della funzione.

Il principio trascende l'uomo e ha su di lui delle esigenze. Pietro e il suo discepolo l'avrebbero ben compreso; d'altronde, lo Spirito Santo non era là ad illuminarli?

È possibile che questo vangelo abbia avuto per autore un personaggio oscuro di nome Marco a cui si è voluto dare una leggenda. Gli Atti parlano precisamente di due Marco: uno era discepolo di Pietro (12:12), l'altro di Paolo (15:37).

Fondendoli, otteniamo un Marco volubile che era passato da Paolo a Pietro con un intervallo presso Barnaba (Atti 15:39). Restava da identificare questo bicefalo con l'evangelista sconosciuto. Questo fu un gioco di cui esistono altri venti esempi nella storia della Chiesa.

Così l'abate Hildouin, nel IX° secolo, confonde Dionigi l'Aeropagita con il primo vescovo di Parigi. Si dà ancora a san Bernardo (XII° secolo) la piagnucolosa preghiera del Memorare composta da monsignor Bernard sotto Luigi XIV: l'errore è solo di cinque secoli.

La sua redazione è certamente posteriore al 135, poiché Marco ha conoscenza della disfatta di Bar-Kochba in quella data. Per gli iniziati, l'allusione alla rivolta ebraica del 132 [86] è senza ambiguità.

Non si è tuttavia sicuri che il vangelo di cui parla Papia sia quello che noi possediamo. Infatti Papia lo accusa di mancare di ordine e il nostro ne ha da vendere.

Alfaric ha mostrato che tutto vi va per tre: miracoli, preghiere e parabole. Harnack vede anche tre strati editoriali. Così, il più antico dei vangeli è già alterato.


Vangelo secondo Luca

Il primo che cita il suo nome è Ireneo intorno al 180. Prima di lui, il silenzio è monolitico. Senza dubbio Marcione conosceva approssimativamente questo vangelo, ma ne ignorava l'autore.

Può darsi che uno scritto corresse già sotto il nome di Luca, uno sconosciuto che si convertirà in seguito in discepolo di Paolo. Quest'ultimo parla del «caro medico Luca» nell'epistola ai Colossesi (4:14) e loda altrove un fratello anonimo che predicava un vangelo, cioè più semplicemente la Buona Novella, nel senso in cui Paolo la intendeva.

In seguito l'arbitrarietà riprende i suoi diritti: si fonderanno questi due uomini con il Luca sconosciuto tramite quella alchimia prodigiosa che trasforma il piombo delle ipotesi nell'oro delle certezze.

La metamorfosi richiese lunghi anni ma zoppica ancora: per Mons. Ricciotti, questa è ancora solo un'ipotesi. [87] Quanto all'intrepido Daniel-Rops, scrive senza batter ciglio che il nostro Luca era medico «secondo una tradizione che risale allo stesso Paolo». [88]

Luca riconosce di non aver visto affatto quello che racconta ma ha consultato, dice, le relazioni di coloro che hanno visto (1:2), il che equivale a credere sulla parola uno sconosciuto che ne ripete altri.

Alcuni assicurano che egli fosse informato dalla Vergine stessa, in particolare sull'infanzia di Gesù. Luca dice in effetti: «Maria serbava tutte queste cose nel suo cuore» (2:19) e Rops, sempre nel segreto degli dèi, è convinto che lei gliele abbia dette. [89]

La logica vorrebbe comunque che se Maria le avesse custodite, non le avrebbe consegnate.

Credete ora quello che vi piacerà: innocens credit omni verbo (Proverbi 14:15).

A quando risale la sua redazione? Essa è necessariamente posteriore al 144, perché lo pseudo-Luca conosce anche lui il sollevamento fallito di Bar-Kochba nel 135: «Guardate di non lasciarvi ingannare» dice (21:8).

Egli tempera l'impazienza di coloro che attendono l'imminente regno di Dio (19:11) e le sue parole si uniscono a quelle di Clemente nella sua epistola ai Corinzi: «Queste cose udimmo già dai padri nostri, ora siamo diventati vecchi e nulla di questo ci è accaduto».

Il fallimento della rivolta del 135 è quindi già stato accettato e meditato, il che ci riconduce agli anni 150-160. Non si può precisare di più.


Il vangelo secondo Giovanni

Nessuno, prima di Ireneo, ha conosciuto il vangelo di Giovanni, nemmeno Policarpo che era però, dopo la famiglia, il discepolo dell'apostolo. Anche Giustino e Marcione lo ignorano egualmente.

Ma un silenzio sorprendente è quello di Papia che viveva presso Efeso, dove la tradizione ambienta la vecchiaia di Giovanni. Egli ha conosciuto Giovanni il Presbitero, che si è voluto identificare senza alcuna probabilità all'apostolo: sarebbe strano se Papia avesse conosciuto l'evangelista e ignorato il vangelo. Ecco perché gli apologeti, vedendo il pericolo, si sono affrettati ad ammettere e a distinguere i due Giovanni.

L'attribuzione tardiva del vangelo all'apostolo, alla fine del secondo secolo, incontrò una decisa opposizione. Ancora recentemente, padre Lagrange ritirava segretamente a Giovanni il vangelo che gli restituiva in pubblico. [90]

È davvero inconcepibile che un pescatore di Tiberiade possa aver scritto questo trattato teologico: Giovanni, dicono gli Atti (4:13), era un uomo del popolo senza istruzione.

Senza dubbio ha potuto istruirsi in seguito, ma avrebbe mantenuto del suo primo stato la semplicità narrativa ed avrebbe evitato quelle fumose invettive in cui Gesù parla di sé in terza Persona: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (17:2).

Ma l'interrogato non risponde: si è addormentato e gli apostoli pure (Matteo 26:40).

È così che si procedette ad attribuire questo guazzabuglio al bravo pescatore.

Si legge in questo vangelo: «Questo è il discepolo che rende testimonianza di queste cose, e che ha scritto queste cose» (21:24). Tre versi più sopra, lo stesso è chiamato: «Il discepolo che Gesù amava».

Ma Gesù testimonia la sua predilezione per tre apostoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. È quindi tra questi tre personaggi che va scelto l'autore del libro. Essendo i primi due già provvisti di un vangelo — quello di Pietro era anche il più anziano — solo Giovanni restava in corsa: la scelta si è imposta naturalmente e ci si rassegnò.

La menzione «il discepolo che Gesù amava», nella sua goffaggine narcisistica, avrebbe potuto rimettere tutto in discussione. Ma la Chiesa seppe far credere che quella orgogliosa formula odorasse di umiltà.

So che certi ci credono ancora.


I sinottici

Il vangelo di Giovanni, come un angelo, è una specie a sé stante e si distingue dagli altri tre. Quest'ultimi sono correlati. Spesso raccontano gli stessi fatti e si è potuto dividere i loro versi in colonne parallele che un solo sguardo può abbracciare: synopsis. Da qui il loro nome barbaro di Sinottici.

Se i tre vangeli a volte si copiano parola per parola sull'accessorio, si oppongono di frequente sull'essenziale. Questa constatazione di divergenze e di somiglianze pone un problema difficile.

Quando i Sinottici si ripetono, si può concluderne che dipendono l'uno dall'altro o tutti e tre da una stessa fonte. Ma la fonte comune è scomparsa, il che impedisce di giudicare.

Quanto alla dipendenza reciproca, essa è di una complessità estrema. I geologi dell'esegesi rilevano diversi strati nei vangeli, il che permette di scrivere ad esempio: «La sostanza di Marco è precedente al nostro Matteo, ma la sostanza di Matteo potrebbe essere precedente al nostro Marco». [91]

Sotto, vi è soprattutto la sostanza delle cose dove molti non si avventurano, per paura di restarci.

Difficile vederci chiaramente. La fumosa teologia cattolica giudica sulle nostre stesse basi, il che svaluta la loro bella certezza.

Anche l'esegeta protestante non si pronuncia: «L'attribuzione del secondo vangelo a Marco non può essere considerata rigorosamente stabilita. (...) L'attribuzione del terzo vangelo a Luca è molto discutibile e quella del primo e del quarto a Matteo e a Giovanni è certamente infondata». [92]

Insomma, non si sa niente.

Infine, precisiamo che i calvinisti distinguono in ciascuno dei quattro Vangeli un carattere particolare del Cristo: così Matteo sottolinea, a quanto pare, la sua messianicità, Marco insiste sui suoi attributi di Servo, va visto come Figlio dell'Uomo in Luca e venerato come Figlio di Dio in Giovanni.

Questo catalogo dai tratti variabili non prova nulla; tutt'al più sottolinea la natura eminentemente teologica degli scritti evangelici.


ANTICHITÀ DEI VANGELI

Dimentichiamo per un momento i loro autori e cerchiamo di datare più precisamente i vangeli. Notiamo che l'antichità di un testo non prova la sua veridicità: una menzogna non diventa verità invecchiando. Si può tuttavia concedere un pregiudizio favorevole ai contemporanei.


I manoscritti

Per datare un testo, si interrogano se possibile i manoscritti originali. Se ne esamina dapprima il materiale: la pelle e il papiro sono, in linea di principio, antecedenti alla pergamena che difficilmente compare fino al IV° secolo. Si studia ancora la natura dell'inchiostro (metallico o meno) e la forma delle lettere che si è evoluta nel corso dei secoli.

Non disponiamo degli originali evangelici. I più antichi manoscritti, il Sinaiticus e il Vaticanus, risalgono solo al IV° secolo. Sono quindi posteriori di trecento anni agli eventi che pretendono di riportare. Il divario è considerevole.

«Non importa», ha detto Rops, «che possediamo 2.500 manoscritti, di cui quaranta hanno più di mille anni. Contano solo i due più anziani». [93]

Las Vergnas, sarcastico, fa sottolineare le 200.000 varianti individuate in questi manoscritti: lo Spirito Santo, che ispirò il testo, avrebbe dovuto ispirarne il rispetto.

Si parla tanto di quattro versi giovannei ritrovati nel 1933 in un papiro egiziano, il famoso Rylands di Manchester. Li si data all'anno 130 senza specificare il giorno e l'ora e questo è deplorevole. [94] Quella arroganza è tanto più colpevole in quanto uno dei versi chiede: «Che cos'è la verità?»

Ma la paleolitica è incerta. Lo si è visto di recente in un frammento del Levitico ritrovato nei manoscritti del Mar Morto: gli studiosi lo hanno sballottato dal 450 al 50 prima della nostra era.


L'esame dei testi

In assenza dei manoscritti originali, l'esegesi non esita a ricorrere al testo stesso per datarlo. Così il vangelo di Marco, assicurano i Cattolici, fu scritto prima del 70 poiché profetizza la rovina di Gerusalemme che ebbe luogo quell'anno.

«Quell'annuncio», scrive padre Renié, «non permette di supporre che la catastrofe si sia già verificata». [95] Ma uno spirito malizioso conclude al contrario: «L'evento annunciato si è realizzato nell'anno 70. È quindi solo dopo quella data che il testo è stato scritto». [96]

Alfaric pecca per apriorismo e padre Renié per sofisma: perché l'argomento profetico sia convincente, occorrerebbe che la profezia fosse conosciuta prima della sua realizzazione, e non dopo.

Per altri, i vangeli provano la loro antichità descrivendo la società ebraica scomparsa nel 70.

Ma le opere di Giuseppe, nonché poche memorie o archivi, sarebbero sufficienti a informarci sull'essenziale. Per di più, la relativa erudizione degli autori è spesso discutibile, lo si vedrà in seguito.

Infine, alcuni datano i libri sacri al primo secolo «perché non vi si trova alcuna allusione alle eresie e controversie che si verificheranno più tardi». L'astuto ragionamento proverebbe piuttosto l'abilità degli scrittori e non l'autenticità degli scritti; vedremo che questo non è il caso. [97]

Ci sono certamente pagine molto antiche nei vangeli come quella, attinta ad un'apocalisse, che predice che la fine del mondo seguirà da vicino la caduta di Gerusalemme. Ma quest'altra rivendica la sua appartenenza al secondo secolo perché suppone un lungo passato ecclesiale (Matteo 18:17) o teologico: non si è arrivati ​​di colpo alla formula trinitaria di Matteo (28:19).

Così il «Tu sei Petrus» di Matteo 16:18, che rompe il filo del racconto, manca a Luca (9:18 ss) e a Marco (8:27 ss) malgrado il contesto assolutamente identico che Ireneo non conosce ancora nel 180. L'interpolazione tardiva è evidente. [98]

I ritocchi si estendono su due secoli e più, il che proibisce di datare in blocco un vangelo. Ciascun verso ha la sua età che non confessa facilmente e si scontra talvolta violentemente se lo si accosta ad un altro. 

Così Gesù dice in Matteo 10:23: «Non avrete finito di percorrere le città d'Israele, prima che il Figlio dell'uomo sia venuto» e più oltre: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni: io sono con voi fino alla fine del mondo» (Matteo 28:19). Si trovano entrambi i versi nello stesso vangelo: eppure vi è più di un secolo tra le due versioni.

Citiamo altre due interpolazioni, non meno curiose. Origene, nel Contra Celsum (6:36), nega esplicitamente che il vangelo qualifichi Gesù come carpentiere: eppure Marco lo afferma a chiare lettere (6:3). Il Vangelo di Origene, intorno al 240, non era quindi il nostro.

Meglio ancora: i primi due capitoli di Luca, relativi alla nascita del Cristo, sono un'interpolazione molto tardiva. Taziano, nel 175 circa, li ignorava e Marcione non li menziona nella sua edizione evangelica. Tertulliano lo accusa di averli cancellati con un colpo di spugna e invita addirittura quest'ultimo ad arrossire di vergogna: Erubescat spongia Marcionis!

È una calunnia gratuita, allo stesso modo in cui Maometto accuserà i cristiani di aver sottratto ai vangeli i passi figurativi che annunciavano la sua venuta.

Si potrà obiettare che Marcione, stimando la materia impura, donasse a Cristo un corpo astrale: non avrebbe ammesso che Gesù sia nato da una donna come Luca racconta. Da qui la sua spugna aspirante.

Bah! Una metamorfosi lo avrebbe tratto d'impaccio, come i teologi di tutti i tempi; ma non avrebbe potuto cancellare due capitoli interi (132 versi) accertati da tutti. Era troppo perfino per una spugna arrossante.

Il Vangelo che ha cominciato cominciava coll'incipit sonoro del terzo capitolo: «Nel quindicesimo anno del regno di Tiberio Cesare, Ponzio Pilato essendo governatore di Giudea...».

Poi Giovanni il Battista monta sul podio per annunciare di persona il Maestro. Questa volta capisco la sfilata e la applaudo. Ma i due capitoli precedenti fanno mancare l'ingresso e si escludono da sé. Inoltre, secondo Epifanio, i primi cristiani della Palestina non possedevano alcun racconto della nascita di Gesù. [99]

L'innocenza di Marcione sembra innegabile, ma l'accusa di Tertulliano prova la possibilità del reato: altri ebbero la spugna tanto facile quanto il calamo. Sempre secondo Epifanio [100] si leggeva in Luca che Gesù pianse nella sua agonia ma alcuni, pretende, hanno cancellato il brano.

Ireneo lo aveva obiettato ai doceti che negavano la realtà carnale del corpo di Gesù: è contro di loro che lo si aveva scritto. Scomparsa l'eresia, questo genere di versi parve strano e pericoloso, così si tentò di cancellarli. Equivale a non intendere niente cercarvi, come gli storicisti, una prova dell'esistenza umana di Gesù.

Infine, secondo sant'Ilario, si tentò anche di pulire la sudorazione del sangue. [101]

Giustino, intorno al 150, racconta nella sua Apologia il battesimo di Cristo senza nemmeno citare Giovanni il Battista ma ci insegna che «mentre Gesù scendeva nell'acqua, il fuoco si accese nel Giordano». Questo dettaglio non figura più nei vangeli che testimoniano un cristianesimo raffreddato.

I manoscritti erano allora rari e cari; occorrevano due anni ad un bravo copista per trascrivere la bibbia: era quindi facile falsificare i testi o adattarli secondo i suoi gusti.

San Girolamo, nella prefazione al suo «Commentario su Giosuè», nota le discrepanze tra i manoscritti evangelici: «Ci sono», dice, «tante versioni quante sono le copie: ognuno ha aggiunto o sottratto quello che gli pareva».

Eppure fece lo stesso nella sua revisione della Septuaginta e nella sua edizione della Vulgata; Rufino se ne stupì e lo accusò di falso, senza preoccuparsi di attribuire agli apostoli il famoso simbolo di cui lui è autore.

Il malizioso redattore dell'Apocalisse, che conosceva la procedura, condanna alle piaghe divine i mutilatori del suo libro (Apocalisse 22:18).

Quello della 2° Epistola ai Tessalonicesi (2:2) mette in guardia contro le false lettere che potevano correre sotto il suo nome.

I vangeli non si sottraggono alla regola e, verso la fine del secondo secolo, Dionigi di Corinto si lamenta che alcuni hanno alterato le sue lettere «come altri hanno falsificato le Scritture del Signore». [102]

In quei tempi benedetti, si truccava tutto per la gloria di Dio, perfino l'elenco dei martiri, dei vescovi e dei papi. Secondo Tertulliano, Eusebio e Orosio, si imputava a Marco Aurelio un rescritto che puniva con la morte i delatori dei cristiani.

Si inventò di sana pianta una corrispondenza tra Paolo e Seneca, che la Chiesa primitiva teneva per autentica. [103]

Il medioevo seguirà la tradizione. Nel 754, il papa Stefano II invia a Pipino il Breve una lettera di san Pietro mandata dal cielo. [104]

Si fabbricheranno migliaia di apocrifi per provare l'apostolicità delle chiese e delle abbazie, con grande scandalo di Mabillon, che peccò lui stesso a proposito della «santa lacrima di Vendôme».

Si conoscono i falsi decretali, le false donazioni di Costantino e di Ludovico il Pio, nonché i falsi concili come quello di Sinuesse.

Nella sua Cronologia spiegata dalle medaglie (1696), il gesuita Hédouin pretende che tutta la storia antica fosse inventata dai monaci sulla base di Erodoto, Plinio e gli altri. È una folle esagerazione, ma il medioevo ha spesso superato la Graecia mendax

I tempi moderni non hanno nulla da invidiare. Nel XVII° secolo, il gesuita spagnolo Higuera pubblicò a Saragozza una presunta Cronaca di Flavio ​​Destro, storico citato da san Girolamo. Ma la ha scritta lui stesso e se la fece spedire dalla Germania da un complice.

Le lettere di Gesù e di Maria non si contano più e molte sono autenticate da vescovi [105] o da dottori della Sorbona. [106]

Più vicino a noi, si conosce il messaggio di Pio X a François Joseph e il Segreto a episodi di Fatima.

Le bugie di ieri e di oggi ci fanno capire quelle del passato.

Non si tratta qui di fare la psicologia dei falsari. Notiamo tuttavia che questi trovano la loro scusa in uno strano lassismo che è sfuggito a Pascal.

La seconda epistola di Pietro, senza dubbio redatta nel II° secolo, si dice scritta dallo stesso apostolo. Diciamolo brutalmente: in buon francese, è un falso. Eppure padre Renié dichiara al riguardo «che una finzione letteraria resta di per sé possibile e perfettamente compatibile con l'ispirazione». [107]

Nel suo Metodo storico, padre Lagrange fa un'osservazione identica a proposito dello pseudo-Daniele.

Come allora distinguere il vero dal falso testimone?

L'inquietudine di un padre Pouget assume quindi tutto il suo significato: «I dubbi sulla fede sono inevitabili in chi riflette sui fondamenti della nostra fede, non nello scienziato che può benissimo conciliare la scienza con la fede del carbonaio». [108]

Sant'Agostino aveva già detto: «Io non crederei ai vangeli, se non vi fossi costretto dall'autorità della Chiesa»Ego vero Evangelio non crederem nisi me catholicae ecclesiae commoveret auctoritas. [109]

Circolo vizioso? Senza dubbio no, perché la Chiesa esiste al di fuori dei vangeli ed è loro persino antecedente se li si prende nella loro forma attuale. Ha quindi la sua parola da dire.

La sua testimonianza si vuole duplice: la Tradizione e la Testimonianza dei Martiri.


I vangeli e la Tradizione

Diciamo da subito che la tradizione comincia molto più tardi e si basa esclusivamente su degli sconosciuti.

È intorno al 140, lo si è visto, che spuntano dal nulla i nomi di Marco e di Matteo. Queste prime apparizioni sono dovute a Papia su cui si basa tutta la tradizione.

Sfortunatamente, a detta di Eusebio, il vescovo di Ierapoli sul Meandro — la città di Epitteto lo stoico — [110] era poco intelligente. [111] Egli lo accusa di aver attribuito al Salvatore «certe parole e insegnamenti che hanno di che sorprendere, così come racconti interamente favolosi. Così Gesù avrebbe predetto che verranno giorni in cui sorgeranno vigne, che avranno ciascuna 10000 viti; ogni vite avrà 10000 tralci; ogni tralcio avrà 10000 bracci; ogni braccio 10000 grappoli; ogni grappolo 10000 acini; ogni acino, spremuto, darà 25 metrete di vino». [112]

Il Gesù illetterato — perlomeno non ha lasciato alcuno scritto — avrebbe quindi avuto un debole per i numeri.

Questo bel discorso pitagorico, Papia lo ricavò dagli Anziani, che lo ricevettero da Giovanni, che l'aveva udito dal Signore stesso; Ireneo lo riconosce espressamente.

Che magnifica tradizione!

Eppure alcuni ne diffidano, come padre Pinard de la Boullaye. «Il vecchio vescovo sembra aver collezionato senza critica tutto quello che gli si riportava». [113]

Perché mai dovremmo credergli quando parla di Marco e di Matteo? È troppo facile evocare Papia quando vi piace e congedarlo se vi imbarazza.

La mancanza di pensiero critico era allora generale. Quando Ireneo ci assicura che Papia era il discepolo dell'apostolo Giovanni, mostra che le tradizioni sono soprattutto intessute di ricordi immaginari. L'intenzione di formare la catena fino all'apostolo falsifica allora ogni discernimento.

Ma bisogna davvero credere, riguardo a Marco e Matteo, che Papia abbia veramente detto quello che gli si è fatto dire? Lo conosciamo in effetti solo da Eusebio che visse nel IV° secolo. È quindi, in definitiva, a quest'ultimo che bisogna credere.

Ahimè, questo padre della storia ecclesiastica è spesso il padre della menzogna. Lo si designa spesso con il termine poco lusinghiero di «Eusebio il falsario». È lui che pretende, a dispetto dell'evidenza, che il Cefa castigato da Paolo fosse solo un discepolo di Pietro.

Gli si deve anche la favola del battesimo di Costantino da parte del papa Silvestro. Non ha paura di citare a favore di Gesù versi della Sibilla di Eritrea o presunti oracoli tratti da Porfirio. Una tale pagina in cui Filone parla degli Esseni d'Egitto diventa in Eusebio un'apologia dei cristiani. Ha rispettato meglio Papia?

Da buon principe, io immagino avesse ragione: resta ancora un intervallo di un secolo tra Papia e gli apostoli.

Mi si obietterà, ben di sicuro, i cosiddetti Padri Apostolici perché avrebbero più o meno conosciuto gli apostoli. Sono Clemente di Roma e Ignazio di Antiochia che brillano, a quanto pare, alla fine del I° secolo, ed è Policarpo che abbellì il secondo. Ma cosa si sa su ciascuno di loro?

La vita di san Clemente è circondata da leggende e non si è nemmeno custodito il ricordo della sua morte. È solo nel VI° secolo che gli si darà una biografia fantasiosa.

Eppure godeva di un grande prestigio dal 150, perché si aveva fatto di lui il successore di Pietro. Così si mise sotto il suo docile patrocinio un intero sacco di libri che già formano una sorta di diritto canonico.

Renan se ne stupisce a ragione: «La sua presunta letteratura, benché non debba portarne personalmente la responsabilità, è una letteratura di autorità, che inculca ad ogni pagina la gerarchia, l'obbedienza ai preti, ai vescovi. Ogni frase che gli si attribuisce è una legge, un decretale». [114]

Detto altrimenti, l'opera dello pseudo-Clemente suppone un lungo passato ecclesiastico ma appare nella seconda metà del secondo secolo.

Le lettere di Ignazio di Antiochia non sono più certe. Le si datavano una volta al 112 ma Turmel e Loisy le riportano al 160 e perfino oltre. Nel IV° secolo vi si aggiunsero ancora sei lettere.

Cosa si sa su Ignazio stesso? Per lungo tempo il suo martirio fu situato a Roma tra il 107 e il 117 sotto Traiano. Vi era venuto, si dice, «per essere macinato dai denti delle fiere».

Eppure le fiere di Antiochia non mancavano di molari; è anche ad Antiochia che egli fu sbranato, secondo il cronista bizantino Giovanni Malala. Alcuni ne concludono che il martirio di Ignazio e la sua venuta a Roma siano altrettanto «apocrifi» come le sue lettere.

Non se ne sa di più su Policarpo, presunto discepolo di Giovanni. Si avrebbe di lui una Epistola ai Filippesi, rimarchevole soprattutto per le sue omissioni. «Ci sono seri dubbi sull'autenticità di quella epistola», avverte Renan. [115] La si data di solito dal 150 al 166 con interpolazioni ulteriori.

Insomma, la tradizione non è minimamente brillante. «I Padri Apostolici», confessa Renié, «non contengono alcuna citazione certa del secondo vangelo». [116] Parla sicuramente di Marco, il più antico dei quattro.

Il gentile Fillion riconosce anche che nessuna citazione dei Padri è «assolutamente conclusiva» ma, dice, è «il loro insieme che va considerato». [117] Cosa aspettarsi da un insieme di zeri?

Quanto ai Padri della Chiesa venuti nel terzo secolo e più tardi, non sono per nulla i testimoni di una tradizione storica: testimoniano soltanto le credenze della loro epoca. Interessano il teologo, non l'esegeta.

La tradizione si basa su degli sconosciuti.

Equivale a farfugliare affermare: «Papia fu documentato da Giovanni il Presbitero; tra Giovanni e Ireneo, c'era Policarpo». Eccoci ben avanzati!

Vedo solo una lista di nomi che si susseguono: sostituisci Policarpo con un altro e ne saprete altrettanto, perché il nome da solo, sprovvisto del personaggio, non significa niente.

Un elenco di testimoni può perfino volgersi in farsa; vedete Pascal: «Sem, che aveva visto Lamech, che ha visto Adamo, ha visto anche Giacobbe, che ha visto quelli che hanno visto Mosè: dunque il diluvio e la creazione sono veri» (Pensieri 625).

È certo che queste persone siano esistite? Giustino, Clemente d'Alessandria, Lattanzio hanno sostenuto la testimonianza di Ermete Trismegisto!

Nella stessa gamma di battute, ricordiamo il famoso verso di Paolo: «Egli apparve a più di cinquecento fratelli in una volta, dei quali la maggior parte rimane ancora in vita» (1 Corinzi 15:6).

Non lo sono più da molto tempo, ahimè.

L'astuzia paolina ha avuto successo. Quadrato, che sarebbe stato vescovo di Atene, afferma in un'apologia dedicata all'imperatore Adriano che molti dei risorti del venerdì santo vivevano ancora ai suoi tempi. [118]

Il vangelo di Nicodemo mobilita due di loro, Leucio e Carino, per provare la discesa di Cristo agli inferi.

Allo stesso modo Tacito racconta due miracoli di Vespasiano, aggiungendo: «Questi due prodigi dei testimoni oculari li attestano ancora oggi, e la menzogna è per loro senza interesse». [119]

E Blaise Pascal si infiamma: «Gli increduli sono in realtà i più credenti, per non credere nei miracoli di Mosè, credono in quelli di Vespasiano» (Pensieri 816). Che l'eloquente giansenista si rassicuri: noi non crediamo a nessuno, perché una testimonianza senza testimoni si squalifica da sé.

Policarpo e il presbitero erano qualificati per portarne uno?

Si sono visti uomini straordinari avallare delle assurdità. Così sant'Agostino sostiene l'esistenza degli incubi e dei succubi. [120] Nel  suo 33° sermone, dichiara con sfacciata naturalezza: «Ero già vescovo di Ippona quando andai in Etiopia con alcuni servi di Cristo per predicarvi il vangelo. Vedemmo in questo paese molti uomini e donne senza testa, che avevano due grossi occhi sul petto».

Secondo san Girolamo «tutta Alessandria ha potuto vedere un satiro vivo» che ha lui stesso contemplato e ci assicura che i centauri hanno reso un pubblico omaggio a Gesù Cristo. [121]

Lutero riporta che il tentatore di una giovane ragazza ha preso improvvisamente la forma di un serpente e le ha morso l'orecchio. L'illustre riformatore ha visto scorrere il sangue «nello stesso tempo di tante altre persone». [122]

Il Cardinale de Retz registra nelle sue Memorie che un sacrestano senza una gamba di Saragozza si strofinò il moncone con l'acqua santa e che subito gli rispuntò la gamba. Il decano della cattedrale e ventimila persone si dicono garanti del miracolo. [123]

Più di cento storie hujus farinae di questo tipo potrebbero sorgere dalla follia della Chiesa. Ad esempio, il gesuita Jubaru obietta al razionalista Loisy che lui, con i suoi occhi, ha visto un feticista tenersi sospeso in aria per cinque minuti. [124]

Padre Jandel, futuro maestro generale dei Domenicani, riferisce che fu coinvolto una sera da uno sconosciuto alla Loggia massonica di Lione. Appena entrato, brandì una croce: all'istante lo sconosciuto svanì, «le luci si spengono, una scossa fa tremare i muri. Spaventati, i massoni si gettano verso il portone e scappano». [125]

Jean Guitton ha visto un fantasma in Gran Bretagna: «Nel cuore della notte, ho visto con i miei occhi questo spettro uscire da una botola e attraversare la stanza. Ricordo molto bene le mie operazioni logiche. Non potevo negare i dati dei miei sensi: era proprio un essere umano, un ragazzino con un'orrenda maschera cinese in testa e che emetteva dei gemiti». [126]

Infine, una folla immensa ha visto il sole danzare su Fatima: «Tutti guardano, scrive il cardinale Roncalli, sono 60 o 70000 che constatano il fenomeno». [127]

Quel giorno, una tradizione è nata.

Il 18 novembre 1951 l'Osservatore Romano, giornale ufficiale del Vaticano, ha pubblicato «due fotografie del miracolo solare, tenute segrete per trentaquattro anni e rigorosamente autentiche». In seguito, il pio quotidiano è stato condannato per impostura. [128]

— Voi non credete minimamente alla testimonianza umana, mi si obietterà. 

— Abbastanza poco, in effetti. Soprattutto trovo difficile credere al credente: lo conosco troppo bene. Penso a quell'abate, del Seminario Maggiore di Digione, che ha creduto in Cristo perché ha visto la grotta di Betlemme.

Ho visitato questo luogo mitico: la grazia divina non mi ha affatto toccato.

Un'ultima parola sulle parole dei testimoni: immagino il sorriso di Mérimée a cui si raccontava che George Sand si era concessa per cento centesimi a un ammiratore.

— È improbabile, disse lo scrittore.

— Come? disse l'altro; io ho visto la moneta da cento centesimi. 

Molti ragionano in quel modo e nulla li sorprende nel fatto che un dio sia nato, morto e risorto in Palestina.

Ma passiamo ai martiri, altro criterio della verità cristiana.


La testimonianza dei Martiri

Martire significa Testimone. Prima di valutare il valore della testimonianza, vediamo se è reale. Il martirio degli apostoli è stabilito?

Non lo è, evidentemente, più dell'esistenza stessa degli apostoli. Convinto che il cristianesimo non appare che dopo il 70, io non crederò ai martiri di Pietro e di Paolo intorno al 64.

Ma vediamo la leggenda cristiana così come si presenta.

Passiamo sopra al martirio di san Paolo, trattato più sopra in quest'opera: il suo supplizio finale non è accertato. 


San Pietro

Si dice che sia venuto a Roma e che lì sia morto. Che vi sia venuto non ha nulla di sorprendente: tutte le strade vi portano. Eppure, si danno troppe ragioni perché qualcuna di loro sia convincente.

«I testi sono tardivi e poco espliciti», constata Goguel. Il più noto, dovuto al sacerdote Gaio, risale intorno all'anno 200.

Gli scavi del XX° secolo in Vaticano sono un pomposo fallimento. Vi si sarebbe ritrovato, a quanto pare, «il sito della tomba dell'apostolo» [128] ma ritrovare un sito non è difficile.

Si parla anche di una «misteriosa» tomba che è necessariamente quella di Pietro. [129] Voltaire non ci crede, e la maggior parte dubita. Per Cullmann, Peter morì a Roma, perché nessuno afferma che sia morto altrove. Molti ragionano così.

Il suo martirio fu lungo da mettere a punto. Si seppe dapprima che avrebbe pianto mentre andava al supplizio dove lo si trascinava con la forza. [130] Si apprese in seguito che aveva visto morire sua moglie prima di lui. Nel IV° secolo, infine, si saprà che fu crocifisso a testa in giù.

Si cercano invano le cause del suo calvario. I Romani erano, infatti, i più tolleranti dei popoli e la capitale dell'Impero si apriva tutti gli dèi. [131]

Quando Ignazio viene a Roma, i fedeli lo accolgono in processione. Paolo, agli arresti domiciliari, riceve chi vuole e coltiva l'arte epistolare. Non si punivano dunque le idee o la credenza, ma la persona.

La persecuzione religiosa, come viene spesso presentata, non può esistere in ambiente pagano: essa esige il monoteismo, dogma rigido, e un sacerdozio autoritario. Si scatenerà più tardi, da cristiano a infedele, e da cattolico a protestante.

Così il martirio di Bruno e di Vanini da parte dei cattolici è possibile, non quello di Pietro da parte dei Romani. Saggi come Antonino e Marco Aurelio non potevano scadere a Torquemada. I mostri à la Nerone si piccavano poco di teologia.

Se un quarto dei cristiani fu più o meno danneggiato, fu per altre ragioni. Non sono peraltro cambiate, e padre Renié le riassume molto bene: «Il cristianesimo mostrava pretese totalitarie». [132]

I martiri morirono affinché i loro figli potessero uccidere: il seguito lo ha mostrato. Lo stesso Origene concorda: «Un piccolo numero di cristiani, tanto pochi che potevano facilmente contarsi, è morto, al tempo segnato, per la religione di Cristo». [133]

Non andrò a sputare sulle loro catacombe, ma porto altrove i miei crisantemi.

Il cristianesimo, ai suoi inizi, nascondeva ancora le sue pretese: perché lo si sarebbe perseguitato? Spiegare il martirio di Pietro non andava da sé.

Lo pseudo-Marcello, che si proclama discepolo dell'apostolo, vi rischiò per prima. A credergli, Pietro rivaleggiava in miracoli con Simon Mago alla corte stessa dell'imperatore; un giorno che Simone volava in aria, l'altro, con una fervente preghiera, lo fece cadere al suolo dove si schiantò. Furioso, Nerone condannò Pietro al supplizio. Marcello afferma ovviamente che ha visto. [134]

Era ridicolo. In seguito, si legò la morte di Pietro all'incendio di Roma che scoppiò il 19 luglio 64. Secondo Tacito (Annali 15), Nerone ne accusò i cristiani poi ne fece delle torce per illuminare i suoi giardini.

«Quel modo di bruciare», disse Renan,«non era nuovo: era la pena ordinaria degli incendiari, ma non se ne era mai fatto un sistema di illuminazione». Trova l'idea «geniale».

È soprattutto strana. Suppongo che un cristiano che brucia come una candela, anche ricoperto di cera, sfrigola, fa fumo, appesta ma illumina poco. Molto fumo per poca luce. Si dovrebbe tentare l'esperimento su due o tre cappuccini.

Più seriamente, credo che nei giardini imperiali i cristiani brillassero per la loro assenza, come dice Tacito a proposito di altri personaggi — Praefulgebant eo ipso quod non videnatur (Annali 3).

Si è sospettato questo passo degli Annali. Il Tacito dalle digressioni fulminee, qui, sonnecchia e si blocca. Notiamo anche che il testo più antico che faccia allusione alla morte di Pietro, l'Epistola di Clemente ai Corinzi, non la associa in alcun modo all'incendio di Roma e non si azzarda a datarla.

Ma poco ci importa (!). Se Pietro morì in questa circostanza, non ha testimoniato per il Cristo più di quanto gli ebrei bruciati da Hitler non hanno testimoniato per Abramo.

Sono delle vittime, ma non, etimologicamente, dei martiri.

Ecco perché il termine Olocausto è senza dubbio inappropriato, applicato al genocidio del popolo ebraico durante l'ultima guerra mondiale: la parola Shoa, che significa catastrofe, è più appropriata.


San Giacomo il Maggiore

Secondo gli Atti degli Apostoli (12:1), Erode lo fece decapitare a Gerusalemme. Secondo gli Atti di san Giacomo, sarà crocifisso. Se si crede ad Isidoro di Siviglia, ha evangelizzato la Spagna, il che permette a Claudel di precisare: «San Giacomo, alla fine di luglio, perì di spada in Spagna». [135]

Il racconto degli Atti non è più serio degli altri due. Sfortunatamente il libro è tardivo; Loisy e Guignebert lo datano agli anni 30 e Alfaric lo situa all'anno 150, negandogli ogni valore storico. La scuola olandese lo tratta da «romanzo puro».

Né si può più, in queste condizioni, fissare la data delle epistole paoline secondo la cronologia degli Atti, essi stessi in questione.

Gli Atti respirano lo strano: tutto è miracolo ed edificazione. La morte di Erode, naturale agli occhi di Giuseppe, [136] è attribuita ad un angelo. Può darsi che la morte di Giacomo, affrettata in tre parole, sia fittizia. In ogni caso, non è detto che Giacomo sia morto per «testimoniare».


Giacomo il Minore

Era un asceta. Se si deve credere a Epifanio, si asteneva dai bagni, non si rasava mai e aveva, a forza di pregare, «la pelle alle ginocchia dura come quella d'un cammello».

Secondo la Chiesa, fu il primo vescovo di Gerusalemme e morì poco prima della caduta di quella città, vista da alcuni come il castigo della sua morte violenta. 

Si hanno di quella due relazioni difficilmente conciliabili: secondo Egesippo, Giacomo morì da martire cristiano. [137] Giuseppe lo vede morire da ebreo fedele: se Anano lo fa lapidare, è per gelosia di influenza più politica che religiosa; tutto avviene tra ebrei. [138]

I cristiani non vi guardarono così da vicino e annessero questo Giacomo con l'etichetta di una santità poco sagace ma estesa. Poi, secondo il costume, lo fusero con l'apostolo e il «fratello del Signore» che ritroveremo più oltre. Da qui la celebre interpolazione di una mano cristiana caduta a picco nel mezzo di un testo confuso.


Giovanni l'Evangelista

Morì nel suo letto come un generale. Alcuni furono inconsolabili, come Giorgio Hamartole, cronista bizantino del IX° secolo. Afferma imprudentemente nella sua Cronaca dell'anno 850: «Papia, testimone dell'evento, dice che Giovanni fu ucciso dai Giudei». Papia non aveva visto niente e non aveva detto niente.

Goguel e Loisy, appoggiandosi a Matteo 20:23 e a Marco 10:39, pensano che Giovanni sia morto nello stesso tempo di suo fratello Giacomo il Maggiore. Il martirologio siriano (inizio del IV° secolo) indica anche, il 27 dicembre, la morte violenta dei due fratelli. Ma Giovanni (21:22) fa ostacolo a quella leggenda.

Tertulliano racconta che l'apostolo, gettato a Roma in un calderone di olio bollente, ne uscì rinfrescato. [139] L'apologeta unisce nello stesso brano i martiri di Pietro, di Paolo e di Giovanni, quest'ultimo screditando gli altri due.

Martire per metà, Giovanni morì a metà: nella sua tomba, ad Efeso, lo si sentiva muoversi due volte al giorno al tempo di sant'Agostino. Ora, tutto è calmo.

In definitiva, Giovanni non è che un martire onorario.


Marco e Luca

«La Chiesa cattolica venera san Marco come martire», disse padre Renié, «ma la data e le circostanze della sua morte gloriosa ci sono sconosciute». [140]

Severo Amba afferma nel IX° secolo che Marco gli è apparso per raccontargli la sua vita: era ora.

Si fa morire Luca in Acaia, in Egitto, in Beozia e altrove. Padre Huby sa che Luca è morto vergine a 84 anni. [141]


Gli altri

Matteo sarebbe morto a Luch, a Ieropolis e a Naddaver. Eracleone nega il martirio che nessuno gli attribuisce.

Sant'Andrea fu appeso ad un albero secondo san Pietro Crisologo, [142] crocifisso in croce secondo altri. Jules Renard annota persino nel suo Diario: «Sant'Andrea messo in croce predica per due giorni a ventimila persone. Tutti lo ascoltano affascinati, ma nemmeno uno si sogna di liberarlo».

Ci si è poco interessati agli altri che si sono inviati, per sbarazzarsene, in paesi impossibili come la Paflagonia.

Mattia morì in Giudea e in Etiopia; il suo cranio è a Roma e Treviri. È lui che la sorte diede per successore a Giuda. Ai nostri giorni, si voterebbe. Rops ha detto dell'elezione di Pio XII: «Non ci sono voluti molti scrutini perché lo Spirito Santo lo nominasse». [143]

La morte degli apostoli è quindi avvolta da un velo oscuro. Quanto ai martiri successivi, sono fuori stagione. La Chiesa ne moltiplica invano il numero facendo appello alle famiglie numerose, alla soldatesca e ai reggimenti di tutti i sessi: Santa Sinforosa ha sette figli, Santa Felicita sette figli; Roma elenca anche i seimila uomini della Legione Tebana e le undicimila vergini di Colonia.

C'è anche un posto per il gioco di parole: la salvezza romana Perpetua Felicitas genera santa Perpetua e Felicita.

Impossibile quindi, credere sulla parola. Non si dice più con Pascal: «Credo solo ai racconti di quei testimoni che si farebbero sgozzare» (Pensieri 593).

Si pensa piuttosto con Jean Rostand: «È più facile morire per quello che si crede che crederci un po' meno». [144]

Si deve ben concludere che i libri cristiani non offrono le garanzie storiche che si esigono da loro.

Mi si dirà: non siete così difficile per altri scritti dell'antichità: Omero, Erodoto o Polibio.

Attenzione, sfumatura: mi aspetto riferimenti tanto più seri quanto più sono improbabili i fatti in questione. Se mi dite che Richelieu a volte fosse di umore cupo, vi credo. Ammetto anche senza difficoltà che preferisse le sue amanti al suo breviario. Ma se pretendete che Sua Eminenza avesse le sue follie, che strisciasse a quattro zampe attorno ad un biliardo, che corresse, scalpitasse, sbuffasse per un'ora, io vi domando immediatamente la vostra testimonianza.

È normale esigere ancora di più dai vangeli che raccontano la vita di un dio. Per autenticare i fatti, ci occorre qualcosa di più della spazzatura senza prove di autori sconosciuti.


Che cos'è un vangelo?

Nonostante le riserve sugli autori, è comunque un fatto: l'opera esiste. Prendiamo i vangeli tali come si presentano e raccogliamo le loro confessioni.

Conviene, in tutta logica, porre una domanda semplice in apparenza ma essenziale: che cos'è un vangelo?

Prima dei razionalisti, interroghiamo i credenti. Se i primi sono ispirati dal desiderio di comprendere, gli altri lo sono dalla grazia: a loro l'onore.

Daniel-Rops si lancia terminando: «I vangeli non sono ovviamente dei romanzi, ma non sono nemmeno dei libri di storia». [145] Abituato a parlare per non dire niente, non si smuove. Per sapere cosa sono, guardiamo altrove.

Padre Lagrange ritiene i vangeli «insufficienti come documenti storici per scrivere una storia di Gesù Cristo» ma sono un fedele «riflesso della vita e della dottrina di Gesù». [146] Lagrange l'iniziato ha dunque visto il fuoco per giudicare il riflesso.

Per padre de Grandmaison sono biografie di tendenza dottrinale e apologetica, ma «esse sole aprono e chiudono una varietà nuova alla quale nulla rassomiglia». [147] Questo è l'eterno argomento irrazionale: per pensare così occorre la fede.

Gli esegeti darbisti ne sanno di più, esprimendo anche l'intenzione dei quattro vangeli: «La ragione sta nel fatto che il Signore doveva essere presentato sotto caratteri diversi».

L'incoerenza dei racconti su Gesù non li turbano per nulla: «Ci sono voluti, per rivelare una Persona così gloriosa, quattro racconti che lo presentano sotto i quattro grandi caratteri di cui i profeti avevano parlato». [148]

Queste risposte abbindolano e annoiano senza istruire. È vano seguire i meandri di una logica che non è la nostra.

Ridotti a noi stessi, leggiamo senza pregiudizi i vangeli e tentiamo di apprendere la loro natura secondo l'intenzione degli autori: è il solo modo per recare un giudizio su un testo.

Questo esempio chiarisce il mio punto: accadde dopo una battaglia di Napoleone. Nel bollettino scritto da un aiutante di campo, si poteva leggere che l'imperatore era vittorioso con truppe inferiori in numero all'armata avversaria.

Allora Bonaparte afferra la penna, cancella e scarabocchia: «Con forze più numerose di quelle del nemico». Io ho abbastanza gloria militare, disse, ma bisogna che mi si creda con più soldati di quanti ne ho.

In definitiva, è l'intenzione che chiarisce.

La Chiesa si è ben guardata dall'inserire la menzogna ​​tra i peccati capitali, senza dubbio per indulgenza verso sé stessa.

Ora i vangeli sono scritti «affinché voi crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome» (Giovanni 20:31).

Siamo quindi avvertiti.


Il vangelo è una catechesi

Gli evangelisti hanno scritto il loro racconto per provare una tesi, il che compromette l'equità della storia e la veridicità dei fatti.

Celso aveva osservato questo adattamento sistematico del testo all'apologetica. Intorno al 178, diceva ai cristiani: «È di tutta notorietà che parecchi tra voi, come se in seguito all'ubriachezza arrivano ad azzuffarsi fra loro, riscrivono tre, quattro, tante volte il testo primitivo del vangelo e lo rimaneggiano al fine di poterlo rinnegare di fronte alle confutazioni». [149]

Quella precisazione minuziosa e divertente ha ispirato a Las Vergnas questo dialogo immaginario tra Celso e il suo cristiano: lo ha limitato alla resurrezione.

— Il vostro Gesù restò in croce solo tre ore. Quando lo si staccò, non era morto e tornò in sé nel sepolcro. [150]

— Leggete dunque Marco 15:44: «Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, lo interrogò se fosse morto da tempo. Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe».

— Allora i discepoli hanno rimosso il corpo durante la notte.

— Impossibile: «i Giudei assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia» (Matteo 27:66).

— Le guardie non avrebbero potuto tacere la resurrezione; ma non hanno detto nulla.

«Essi diedero una forte somma di denaro ai soldati, dicendo: Dite così: I suoi discepoli sono venuti di notte e lo hanno rubato mentre dormivamo. E se mai questo viene alle orecchie del governatore, noi lo persuaderemo e vi solleveremo da ogni preoccupazione. Ed essi, preso il denaro, fecero secondo le istruzioni ricevute e quella diceria è stata divulgata tra i Giudei, fino al giorno d'oggi» (Matteo 28:13 ss).

— Dopotutto è possibile.

— No. Si è ritrovato nella tomba il sudario accuratamente ripiegato e le bende a parte, ben in ordine (Giovanni 20:7). I discepoli, nella loro fretta di portare via il corpo, avrebbero preso tutto.

— Le sante donne erano già arrivate: sono loro che avevano piegato le bende.

— Non avrebbero potuto far scivolare la pietra della tomba troppo pesante per loro (Marco 16:4).

— Tutti allucinati: apostoli e pie donne! Attendevano febbrilmente la resurrezione...

— Ben al contrario: hanno persino aromatizzato Gesù (Giovanni 19:40). Nessuno in seguito voleva crederlo risorto. «Hanno portato via il Signore!» lamentò Maddalena davanti alla tomba vuota (Giovanni 20:2). E Gesù, che lei prende per il giardiniere, non arriva a farsi riconoscere (Giovanni 20:14 ss).

— Eppure aveva annunciato la sua resurrezione (Marco 10:34). Gli apostoli dovevano aspettarsela.

— Nessuno di loro aveva compreso (Marco 9:31).

— Dovevano solo interrogare il Maestro.

— Non osavano interrogarlo (Marco 9:31).

 Gli ebrei avevano capito più velocemente (Matteo 27:63). I vostri apostoli erano limitati.

— Per fortuna! Avevano troppo poco ingegno per inventare. [151]

A volte un libro corregge l'altro al rischio di contraddirlo. Secondo Marco e Matteo, Gesù passa senza soluzione di continuità dal sepolcro al cielo. La manovra è così rapida che rende incontrollabile la resurrezione.

Ma gli Atti vi rimediano, concedendo quaranta giorni di vita postuma al Signore.

Il Vangelo di Valentino la estende anche fino a diciotto mesi, invocando lo stesso Paolo, e ne fornisce le «prove». [152]

Si rispondeva pan per focaccia con una pia serenità: «Come prove», diceva Anatole France, «le testimonianze false valgono più di quelle vere, perché vengono create espressamente per le necessità della causa». [153]

Incolperò gli evangelisti per non essere stati abbastanza furbi da evitare di esserlo troppo. La perfezione delle prove tradisce il falsario.

L'innocente Fillion prova agli scettici la realtà dell'ascensione con «le parole del Salvatore che la predicono». [154]

Padre Renié constata che Pietro afferma la resurrezione con una «tranquilla certezza» che non teme «alcuna smentita da parte degli avversari». [155]

Un altro ammira lo spirito scientifico di san Tommaso che vuole vedere e toccare per crederci (Giovanni 20:24 ss). Ci sono anche alcuni che provano il miracolo del cieco nato (Giovanni 9:8 ss) con l'inchiesta che l'accompagnò.

Mons. Guitton, ne La Croix, sottolineava che «la storicità così attestata della tomba vuota pone il sigillo sulla realtà delle apparizioni poiché Gesù è sottratto all'universo».

Per me, il vuoto più ingombrante non è quello della tomba.

Rops procede alla stessa maniera; si riferisce persino al metodo Coué: «Per quanto ci sembra sconcertante, Gesù è uscito dalla tomba, ha vissuto quaranta giorni di una seconda vita. Il fatto storico è stabilito tanto quanto gli altri eventi della vita del Cristo». [156]

Sì, tanto quanto.

Eppure queste persone non sono le prime venute: una insegnava alla Sorbona, l'altra era un membro dell'Istituto di Francia. Erano senza ombra di dubbio degli studiosi: la loro dialettica stupisce ancora di più.

Henri Guillemin, ne L'Affaire Jésus, si stupisce che gli storici non siano unanimi sulla realtà carnale del Cristo, la quale non suscita alcun dubbio ai suoi occhi, senza tuttavia dirne di più. Ce ne rincresce.

Ricordiamo loro che non si può provare la veridicità di un racconto per mezzo del racconto stesso. Dante, al 24° canto del Paradiso, commette questo errore. L'illustre autore della Divina Commedia prova l'autenticità dei vangeli con la testimonianza e la santità della Chiesa, unendosi a sant'Agostino. È san Pietro in persona che lo riporta alla logica.

Certamente, la lenta messa a punto dei vangeli non esclude, a priori, la storicità di Gesù. Ma non dimentichiamo la data tardiva della loro redazione: si è più informati sugli usi e le credenze del secondo secolo che sulle realtà dell'anno 30.

Se i vangeli suppongono l'esistenza del Cristo, essi non la provano.

A proposito, sono ben informati sul loro eroe?

L'ignoranza e le inadeguatezze di Origene e di Marcione ci hanno rivelato la noiosa elaborazione della leggenda cristiana. Vi sono anche le contraddizioni tra vangeli nonostante le alterazioni denunciate da Celso.


Le contraddizioni evangeliche

Esse appaiono dalle prime pagine. Matteo (1:1 ss) dà una genealogia del Cristo e Luca (3:23) un'altra: non si intendono né sul nome degli antenati né sul loro numero. Vi è uno sfasamento di sedici generazioni tra Davide e Gesù, ossia uno scarto di quattro secoli su dieci.

«L'esistenza di due genealogie divergenti», dice molto giustamente Loisy, «mostra che la tradizione non ne ha posseduto dapprima nessuna».

Notiamo che Celso ne conosceva una terza e che il Diatessaron di Taziano le ignorava tutte.

«Cosa vi è di più chiaro», sottolinea astutamente Pascal, «del fatto che ciò non è stato fatto di concerto?» (Pensieri 578).

Il concerto è però turbato dalle dissonanze; si vorrebbe che i due vangeli concordassero senza essersi concertati.

Una falsa nota tocca anche il luogo di nascita. Gesù è nato a Betlemme, affermano Matteo e Luca, ma nacque a Nazaret, secondo Marco e Giovanni (Marco 6:1 e Giovanni 4:44). Guignebert si prende la testa: «Se non è certo che Gesù non sia affatto nato a Betlemme come dicono Matteo e Luca, non è provato che sia nato a Nazaret». [157]

Non è nemmeno provato che sia nato altrove.

Rops tergiversa: «Che importano queste piccole difficoltà [158] sulle quali si scrivono volumi di glosse? Che non si sappia con precisione né l'anno della sua nascita né quello della sua morte, che si identifichi male il suo villaggio originario, tutto ciò e il resto è solo di secondaria importanza e in anguste prospettive».

Ciò importa fin troppo, al contrario: se non si sa dove è nato Gesù, la storia comincia male.

La data di nascita non è meglio conosciuta. Tutti sanno la difficoltà di conciliare il censimento di Quirino (Luca 3:1 ss) con la nascita «ai giorni di Erode» di Matteo (3:1).

I cristiani hanno preso l'idea del censimento da Giuseppe e hanno tutto imbrogliato: personaggio, tempo e luoghi. L'errore sarebbe ammesso da lungo tempo dai teologi se si trattasse di Tacito o di Svetonio, ma la fede vuole avere ragione ad ogni costo, anche la malafede.

Si ignora quindi l'anno della nascita, come quello della morte di Gesù. Gira voce che avesse reso l'anima sotto Tiberio (14:37). Infatti, i falsi Atti di Pilato, pubblicati all'inizio del IV° secolo dall'imperatore Massimino Daia, lo facevano morire nel 21. Era troppo presto, Pilato, secondo Giuseppe, essendo diventato procuratore solo nel 26.

Si fabbrica allora un altro rapporto rivolto a ... Claudio di cui egli era funzionario, se si crede a Ireneo. Ma Claudio regnò dal 41 al 54 e Pilato non era più procuratore di Giudea dal 36. Era troppo tardi.

Il Vangelo di Pietro pone la morte di Gesù sotto Erode; altri, specialmente a Gerusalemme, la riportavano fino al 58 sotto Nerone.

Non si sa quindi nulla. Ma poco importa ad alcuni docenti di storia che abusano del loro titolo per vendere monete false. Così, uno di loro scrive con una bella disinvoltura che Gesù è nato «la notte del 25 dicembre»  e che morì nel 33, senza tuttavia specificare l'ora. [159] L'anno è tanto gratuito quanto il giorno. 

In assenza di ogni documento storico, si fissava la data della morte dopo quella della nascita. Si è sostenuto che Gesù fosse morto a 33 anni, numero più o meno perfetto. La Divina Commedia, opera simbolica tra tutte, si divide in tre parti di cui ciascuna comprende trentatré canti.

Per alcuni, Gesù aveva dovuto santificare tutte le età della vita, ivi compresa la vecchiaia; così Papia raccontava che «il Signore era morto in una vecchiaia avanzata». [160]

Altri infine, prendendo la vecchiaia per una decadenza, facevano una media e assicuravano che il Cristo fosse scomparso intorno ai cinquant'anni. Era l'opinione di Ireneo che pretendeva di ricavarla dagli Anziani. [161]

Ciascuno fissava, secondo le proprie fantasticherie mistiche, l'età dell'illustre Nazareno, le date della sua morte e della sua nascita. Queste sono le incertezze del secondo secolo.

Notiamo un'altra contraddizione che va da un capo all'altro dei vangeli. Gesù moltiplica i miracoli eppure gli ebrei rimangono impassibili. Diderot si stupisce che resistano così fortemente a veri miracoli quando quelli falsi fanno correre il mondo.

Ma i cristiani di oggi hanno meritato per duemila anni la virtù di saperne di più. Per il credente medio, non ci sono contraddizioni nei vangeli, ma divergenze.

Ascoltami, credente medio: «Due fatti contraddittori», dice Marcel Boll in una sorta di nuovo Discorso sul Metodo, «sono tali che se uno è esatto, l'altro è inesatto». [162]

Se questo velo è bianco, ogni altro colore gli è contraddittorio, poiché il bianco esclude il nero o il rosso tanto quanto il verde.

Le differenze evangeliche sono dello stesso ordine. Padre Pinard de La Boullaye domanda ingenuamente: «Qualora fosse vero che certe particolarità attribuite da vari evangelisti ad uno stesso fatto sono inconciliabili, cosa ne risulterebbe?». [163]

La domanda dovrebbe essere posta allo Spirito Santo.

Questi Reverendi Padri e altre «Piatte Eminenze» credono di cavarsela con una parola di Seignobos citata mille volte: «Questi sono i punti di accordo delle affermazioni divergenti che costituiscono i fatti scientificamente stabiliti».

Questo non è il mio avviso. Innanzitutto la storia non è scienza ma erudizione: chi confonde le parole confonde le idee.

In seguito due falsi testimoni possono contraddirsi in tutto e ritrovarsi su una stessa menzogna: il fatto è pertanto stabilito ?

Notate che lo Spirito Santo ha un principio esattamente contrario. Nel capitolo 13 di Daniele, due vecchioni accusano la casta Susanna di aver fornicato sotto un albero.

— Quale albero? domanda il profeta.

— Un leccio, dice l'uno.

— Un lentisco, dice l'altro.

Daniele, approvato da Dio, conclude che se mentono sui dettagli, la menzogna è accertata per il resto e proclama l'accusata innocente. Giudizio sommario, perché i nostri due compari avrebbero potuto osservare perfettamente il peccato senza identificare l'albero.

Non insistiamo, ma constatiamo questo: contraddicendosi sui punti essenziali, gli evangelisti segnalano una profonda mancanza di informazione su Gesù.


Una geografia fantasiosa

Ne sanno di più sul contesto geografico? Certo, si riscontrano ad ogni pagina nomi come Gerusalemme, Gerico o Cafarnao, ma la geografia si perde nei sobborghi.

Il vangelo non conosce più nient'altro che il deserto, la pianura e la montagna e Gesù, visto dall'alto al basso di terre vaghe. Il nostro divino atleta allinea i chilometri che un ecclesiastico ha avuto l'intelligente idea di contare: l'abate Bousquet, curato di Vanves, fornisce nel dettaglio i 2740 km, 649 m 58. [164]

Se si lascia la vaghezza, di solito è per l'impreciso. Luca (7:17) trasporta Naim di Galilea in Giudea. Marco (8:10) inventa la terra di Dalmanutha dove si deve senza dubbio collocare la Jerimadeth di Hugo.

Il geografo Dalman rileva una ventina di errori o difficoltà e conclude che i loro autori «non conoscevano bene in dettaglio la topografia e non la descrivono da testimoni oculari». [165]

Si può naturalmente dedurne che non hanno visto di più i fatti che riportano.

Si noti che una geografia impeccabile non proverebbe l'esistenza del Cristo perché si possono collocare personaggi favolosi in luoghi molto reali come una falsa tela in una cornice d'epoca. L'esumazione della corte di Pilato non autentica il processo di Gesù.

Alcuni credono però il contrario: l'abate Gauthier, del Seminario Maggiore di Digione, crede in Cristo perché ha visto la grotta di Betlemme.

L'ho visitata anch'io, senza essere toccato dalla grazia. La chiesa della natività a Nazaret ha avuto sul mio scetticismo lo stesso effetto di indifferenza.

Ma quest'ultima città mi ha permesso di constatare che non è situata né presso un lago, né ai piedi di una montagna, come lo pretendono Matteo (14:13) e Luca (4:29): tutto è scomparso.

Invece di disturbarlo, il fedele adora: qui la fede trasporta le montagne e i laghi sono miracolosi.

Diamo un ultimo esempio di quella geografia magica. Si legge nei vangeli che un branco di duemila porci pascolava a Gerasa. [166] Dei porci, animali proibiti agli ebrei!

La parata cristiana è folgorante: vi trasporta Gerasa e i suoi maiali nella Decapoli, territorio pagano ai confini della Palestina. È tutto più facile poiché Gerasa resta ancora da scoprire e la si può mettere dove si vuole. Proprio come un umorista proponeva di far passare la linea dell'Equatore attraverso i due poli per riscaldarli. [167]

Ma ecco la parte più piccante della storia: Gerasa non è esistita. Il suo nome è un gioco di parole che significa: egli espelle, per allusione al miracolo che vi si verificherà.

E che miracolo! Gesù scaccia i demoni di un povero diavolo e li trasferisce nel branco di porci che c'erano e che all'improvviso, indiavolati, si precipitano nel mare, dove annegano.

— Qual è il tuo nome ? domanda Gesù allo spirito impuro.

— Il mio nome è Legione! dice l'altro.

È una sottile allusione alle legioni romane che allora occupavano la Palestina; la 10° Legione Fretensis, di stanza a Gerusalemme dal 70, aveva addirittura un maiale come emblema.

Gli ebrei, ovviamente, volevano tutte queste legioni sul fondo del lago: ecco cosa succede con questo strano prodigio. Qui abbiamo una bella storia della Resistenza, di un sale grossolano ma salutare.

I cristiani hanno preso quella diavoleria per un indemoniato. È proprio il caso di dire con Désaugiers: «Togliamo! Togliamo i tratti della satira!». [168]


I miracoli

Nella misura in cui li confessa, i vangeli offrono un aspetto più irreale. Ma respingere i miracoli con il pretesto che contengono del miracoloso è un'opzione filosofica da cui mi astengo.

Meglio ancora: sono pronto a credere; tocca ai vangeli convincermi. Non capisco perché ci si rovelli sui miracoli evangelici se si ammette la veridicità dei libri sacri.

Rops, credente vergognoso, spiega la pesca miracolosa per mezzo di una miscela naturale di acqua calda e di acqua fredda: rifiuto quella spiegazione da bagnino. E allora perché mantenere la metamorfosi di Cana? [169] Entrambe le scene rientrano nella fisica divertente.

Uno dei miei professori spiegava il ritiro delle acque del Mar Rosso, al passaggio degli ebrei, con un fenomeno di marea; costruita sulla sabbia, la sua interpretazione «nouvelle vague» ignorava superbamente le leggi della geofisica.

Un altro ammette la divinità del Cristo e rifiuta la sua presenza reale nell'ostia, nel pane e nel vino: non ne capisco di più.

«Come odio la stupidità», si indigna Pascal, «di non credere nell'Eucarestia. Se il Vangelo è vero, se Gesù Cristo è Dio, che difficoltà c'è?» (Pensiero 224).

Non so se sia indispensabile che Dio si faccia uomo, come pretende Spinoza, che precisa: «Questo non è meno assurdo di dire che il cerchio ha preso la forma di un quadrato». [170]

Tutto è possibile, in effetti: può anche darsi che l'illustre cartesiano, toccato dalla grazia, diventi ciotola o bicorno accademico.


Dei racconti puramente simbolici

Lasciamo la questione dei miracoli e apriamo a caso il Nuovo Testamento.

Qui, Satana trasporta Gesù su una montagna e gli mostra tutti i regni della terra. [171] Questo alla lettera è impossibile per le ragioni che tutti sappiamo. Ma quella visione immaginaria, ispirata al buddismo, si presenta come un fatto reale che si lega agli altri: Gesù passa dal Giordano al deserto, da lì sulla montagna, poi in Galilea.

Decisamente, gli evangelisti hanno un ben curioso senso della realtà.

Altrove, il simbolo evoca l'apoteosi finale delle migliori opere. Al battesimo del Cristo, tutta la Trinità va in scena: Gesù ha i piedi nell'acqua, lo Spirito aleggia in veste di colomba e la voce del Padre, caduta dal soffitto, cita in maniera scorretta Isaia. [172]

Sono ben disposto a credere ad una drammatizzazione della teologia, ma il cristiano vi vede un fatto reale; ci sono anche chi pensa di confonderci specificando che Giovanni il Battista vi assistette. [173]

La trasfigurazione del Signore è dello stesso ordine. [174] La ​​sua divinità sfolgora di neve e di sole, e due personaggi simbolici vengono a circondarlo: Mosè, che rappresenta l'antica alleanza, ed Elia, programmato per ritornare sulla terra all'apparizione del Messia.

A proposito di quest'ultimo, Giustino riporta che l'ebreo Trifone, nel 150 circa, gli fece questa confessione: «Poiché il profeta Elia non è venuto, io ritengo che Gesù non sia il Cristo». [175]

Queste figure tipologiche abbondano nei vangeli, come il vecchio Simeone, la Samaritana, il notturno Nicodemo e Simone di Cirene.

Entriamo un attimo nel focolare poliglotta di quest'ultimo: il padre porta un nome ebraico e i suoi due figli, Alessandro e Rufo, dei nomi greci e latini. Incarna la Chiesa che, nata ebraica, presta al Cristo le gentilità greca e romana.

Il simbolo è anche nel miracolo che arriva al momento giusto per concretizzare la parola del Cristo. «Io sono la resurrezione e la vita» dice Gesù (Giovanni 11:25) e Lazzaro, che intende, già si rallegra nel sepolcro.

Se quella rinascita spettacolare non è un puro simbolo inventato da Giovanni, è inconcepibile che gli altri tre l'abbiano rimossa o ignorata.

La parabola del fico maledetto è di un genere simile: vi si vede Gesù seccare di colpo  maledicendolo un onesto albero che non portava fichi fuori stagione (Marco 11:13). Confesso di aver difficoltà ad afferrare l'insegnamento che si può trarre da questo inglorioso gioco di prestigio. Alain, a quanto pare, ci riesce. [176]

I vangeli a volte sono pitagorici, quindi si preoccupano del simbolismo dei numeri. Se ci sono nella rete di Pietro 153 pesci ben contati (Giovanni 21:11), siate certi che gli iniziati sapevano perché.

Il numero degli apostoli è più certo di quello dei pesci? Erano dodici, a quanto pare, come le tribù d'Israele che dovevano giudicare (Matteo 19:28). Ma l'elenco dei Dodici, che fu lungo da stabilire, varia a seconda dei vangeli. La Chiesa, imbarazzata, pretende che diversi apostoli avessero lo stesso nome.

Si deve essere più sicuri con i settanta discepoli destinati alle settanta nazioni, che enumera la Genesi (Cap. 10)?

E la Bibbia, detta dei Settanta? La versione greca è stata tradotta ad Alessandria, nell'isola di Faro, per ordine di Tolomeo Filadelfo nel 283 o 282 prima della nostra era. Essa fu l'oggetto di una favola concepita dai Padri della Chiesa: settantadue interpreti (settanta in cifre tonde) sarebbero stati collocati a due a due in trentasei celle, facendo così trentasei traduzioni d'accordo tra loro. [177]

Questi simboli numerici ci sembrano puerili ma gli Anziani giudicavano diversamente: Gesù stesso, secondo Marco (8:21), sottolinea il valore mitico del numero 7. È il numero dell'universalità: la creazione ha richiesto sette giorni, se si conta il giorno del riposo che il Creatore si è concesso.

Le sette ceste simboleggiano in Marco i sette diaconi inviati nel mondo greco-romano. Si ritrova il numero sette tra i Semiti, proveniente dai sette elementi del cielo riconosciuti dall'astronomia mesopotamica: sole, luna e cinque pianeti visibili ad occhio nudo. La Scrittura vi rinviene frequentemente: «Il giusto cade sette volte e si rialza, ma gli empi soccombono nella sventura».

La teologia cattolica riprende il verso: vi si trovano mescolati sette sacramenti, sette peccati capitali, sette salmi della penitenza, sette dolori, sette gioie e sette glorie nella storia della beata Vergine.

Anche il numero dodici affascina sin dalla notte dei tempi. Legato al ciclo lunare, primo punto di riferimento cronologico dell'uomo, lo si ritrova dappertutto: l'anno fu diviso in cicli, dodici volte la luna era vista in tutto il suo disco; dodici mesi nel nostro anno, dodici alla nostra vista e dodici segni nello zodiaco astrologico.

La bibbia porta la sua garanzia a questo numero magico e le dodici tribù di Israele si uniscono ai dodici apostoli del Cristo.

È un simbolo che ho messo da parte per onorarlo meglio. L'autore degli Atti (1:9 ss) ci descrive l'Ascensione come se l'avesse vista: Gesù ascende al cielo e gli apostoli lo seguono con gli occhi fino alla nube che lo nasconde. Rimangono quindi con il naso per aria, fino al momento in cui due angeli vestiti di bianco li congedano.

Sappiamo tutti che l'Ascensione è inconciliabile con la scienza moderna: ascendere al cielo non significa più nulla e i teologi, consapevoli del problema, se la cavano per una tangente tracciata in basso.  

Così padre Lagrange raffina il contorsionismo: l'ascesa al cielo è per lui una «apparizione» del Cristo agli apostoli. [178] È spedito in due righe, al volo.

Per padre Renié, Gesù si offre davanti ai suoi fedeli ad un «movimento locale nell'aria». [179] Ma la nuvola stende rapidamente il velo sulla pantomima. Si ignora il resto, essendo la nuvola rimasta muta.

Per il canonico Goossens, l'Ascensione è solo la «fine della presenza visibile del Salvatore sulla terra». Un giorno non lo si vide più quaggiù; se ne concluse che era salito lassù. La scena è raccontata secondo l'astronomia del tempo.

«Ma bisogna confessare», prosegue il canonico, «che certe verità rivelate sono formulate nel quadro di concezioni definitivamente messe da parte dalle scienze naturali». [180]

Non è più nemmeno questione di acrobazie nell'aria. Ma se l'Ascensione non è più reale della discesa agli inferi, è vera alla sua maniera che è sufficiente intendere. Questa non è più storia ma rivelazione.

Senza l'indiscrezione di Galileo, si crederebbe ancora all'Ascensione scritturale. Il credulo e l'ignorante prendono il racconto alla lettera, perfino il serpente della Genesi, come padre Renié: «Alcuni considerano questo serpente un puro simbolo, ma quella interpretazione deve essere respinta». [181]

Si brucerà vivo Cecco d'Ascoli che nega ferocemente che la terra intera possa essere vista dalla cima di una montagna. Poi ci si disillude e Pascal vola in soccorso dell'Onnipotente: «Quando la parola di Dio, che è veridica, è falsa letteralmente, essa è vera spiritualmente» (Pensiero 687).

Poi, un bel giorno, essa non lo è più del tutto. Interi libri sono scivolati dalla storia alla leggenda, come il libro di Ester. Eppure il mito si tradiva dal nome stesso dei personaggi: Mardocheo (in ebraico Mordecai) è il dio assiro Marduc, sua moglie Ester è la dea Ishtar, il ministro Aman è Amadatha.

Questa triste sorte attende il Vangelo: leggetelo velocemente prima che abbandoni la Storia.


Profezie di ogni genere

Quando avrete aperto il Libro Sacro, leggete anche l'Antico Testamento: vi constaterete che la vita del Cristo vi fu raccontata prima di essere vissuta.

Passi ancora per gli eventi maggiori che potevano tentare i profeti, ma tutto vi è previsto in dettaglio, fino all'offerta dei magi (Isaia 60:6). Malachia annuncia persino l'Annunciatore (3:1).

Alfaric ha mostrato che la tempesta placata di Marco (4:35) traspone il Salmo 102 (23 ss). La maledizione del fico concretizza una profezia di Osea (9:16). Gerasa punta già ad Isaia (65:3 ss) con i suoi porci e le sue tombe; vi si ritrova anche il «Ritirati!» di Marco (5:17).

Ma è soprattutto la Passione del Cristo che l'Antico Testamento descrive prima dell'ora con minuzia: Davide sapeva con mille anni di anticipo che si sarebbe tirata a sorte la veste del crocifisso (Salmo 22:19). Amos (2:16) profetizza: «Il più coraggioso fra i prodi fuggirà nudo in quel giorno». Non temete, lo ritroverete in Marco (14:51).

Si conoscevano da secoli le parole di Gesù in agonia: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Salmo 22:2) e le parole «Nelle tue mani rimetto il mio spirito» (Salmo 31:6). Alla fine, constata lui stesso che non ha dimenticato nulla: «Tutto è compiuto» (Giovanni 19:30). Egli può soccombere.

Allora la notte sommerge la terra: vi si preparava sin da Amos (8:9).

Poi, per soddisfare Isaia (80:9), si mette Gesù nel sepolcro di un cittadino ricco e si attende la resurrezione. Osea (6:2) l'aveva previsto per il terzo giorno: Gesù obbedì: aveva perso ogni iniziativa.

Matteo è lo specialista della profezia all'ingrosso e al dettaglio; ecco il suo capolavoro: racconta che Giuda ricevette per il suo tradimento trenta monete d'argento che porta subito ai sacerdoti che li rifiutarono. Giuda li getta allora nel tempio e fugge; alla fine, si comprerà con l'argento del crimine il «campo del vasaio» (Matteo 27:7).

Per far passare quella storia, l'autore si appella a Geremia che l'avrebbe predetta. Comincia col sbagliarsi profeta: Zaccaria, al quale pensa, non ha detto nulla di simile; racconta semplicemente la parabola di un buon pastore che, stanco di far pascolare animali indocili, domanda al suo padrone salario e congedo. [182]

Il padrone gli dà trenta sicli d'argento per tutto quanto. Tutto sembra finito, ma Jahvé veglia. Dice al pastore che è un salario derisorio e aggiunge: «Getta quell'argento al vasaio!» Il pastore obbedisce e getta l'argento nella casa stessa di Dio. 

La parabola è oscura e Matteo, a dispetto dell'assistenza divina, ha visto nell'ombra solo quattro fiaccole: buon pastore, trenta sicli, Tempio di Jahvé, vasaio. Ha mescolato tutto e ne è uscito questo strano racconto.

La cosa più interessante è che non ha afferrato la metafora ebraica «gettare l'argento al vasaio» che significa: respingere con disprezzo. Copre come meglio può quella catacresi che ben pochi esegeti hanno visto.

Si conosce l'errore dell'evangelista riguardo all'asino di Zaccaria. Persistendo nel voler adempiere una profezia mal letta, egli prova che non ha visto nulla o che vedeva doppio. [183

Altro esempio del suo metodo: si dava ai crocifissi del vino misto ad aromi per addolcire la loro agonia. Ora, secondo Matteo (27:34), i soldati offrono a Gesù in croce del vino mescolato con fiele. Questo errore proviene dal Salmo 69:22: «Nella mia sete mi hanno dato aceto da bere». Matteo, senza più attendere, passa a Gesù l'aceto. [184]

Rabelais userà con malizia lo stesso procedimento: narrando la triste avventura di sei pellegrini ingeriti nell'insalata da Gargantua, [185] si riferisce al Salmo 124 che descrive la loro odissea, punto per punto, duemila anni prima.

Pascal, ancora una volta, accorre in soccorso dell'Altissimo: «Le profezie citate nel vangelo, pensate che siano riportate per farvi credere? No, ci sono per allontanarvi dal credere» (Pensiero 568).

Vi riescono senza difficoltà.

Due profezie figuravano a volte in cattive condizioni; così, l'una faceva nascere il Messia a Betlemme (Michea 5:2) e l'altra proclamava: «Egli sarà chiamato Nazareno». [186] Il problema era di riconciliarle.

Marco e Giovanni non ci tentarono: essi ignorano Betlemme. Ma gli altri due vi rischiarono ciascuno per sé.

Secondo Matteo (2:11), Giuseppe e Maria abitavano a Betlemme e il bambino nacque nella casa dei suoi genitori, e si ritrova quella stessa indicazione nell'Ascensione di Isaia, il famoso apocrifo.

La difficoltà fu condurre la sacra famiglia a Nazaret: per eluderla, Matteo inventa il Massacro degli Innocenti, poi mostra la piccola nidiata ai coccodrilli d'Egitto prima di installarla finalmente dove serve.

A proposito di questo massacro dei primogeniti maschi di Israele, nessuno storico ne parla, nemmeno Giuseppe, sempre pronto a contare i crimini di Erode. Gli ebrei, al tempo di Origene, negavano a loro volta questa carneficina da Grand Guignol. Fatto il suo colpo, Matteo si appella a Geremia (31:15), ma il suo riferimento è deplorevole.

È folclore. Si trova un tale massacro alla nascita degli dèi e dei grandi uomini dell'antichità: Krishna, Mosè, Sargon, Ciro, Cesare, Attis e molti altri ancora.

Secondo Luca (1:26), Giuseppe e la sua compagna abitavano a Nazaret e, senza dubbio, vi si trovavano benissimo. Per condurli con la forza a Betlemme, Luca mobilita l'impero romano per un censimento da lui solo conosciuto. Concluso l'affare, riporta questo piccolo mondo a Nazaret: si possono giudicare i mezzi messi in atto per farli muovere.

Si noti che Matteo ignora il censimento di Quirino, e Luca il Massacro degli Innocenti e la passeggiata nel paese dei faraoni.

Abbiamo visto che la Nazaret dell'epoca è molto controversa. La Bibbia e Flavio Giuseppe non citano una sola volta quella città; tutti gli storici la ignorano prima di Giulio l'Africano, intorno al 230. Ma è solo nel IX° secolo che apparve in vari testi.

Alcuni ne hanno concluso, a torto o a ragione, che Matteo prende il Nazireato per una località. Il «nazireato» era una sorta di voto ascetico. [187] Forse esisteva un campo di Nazareni (Messianisti) simile a quello di Qumran e nominato approssimativamente Nazaret? [188]

Per il gesuita Bonsirven, l'inesistenza eventuale di Nazaret è secondaria. «Supponiamo», dice, «che ciò sia vero: l'esistenza di Gesù non è legata a quella di Nazaret ed è quasi sempre fuori Nazaret che ha predicato».

Allo stesso modo in cui, senza dubbio, l'esistenza dei Poldevi non è legata a quella della Poldevia. Predicare fuori da una città inesistente, e quindi, all'occasione nelle sue mura, è un tour de force ben singolare.

Così l'Antico Testamento, frainteso, è la fonte essenziale degli scritti evangelici. Alcuni lo ammettono per gli apocrifi, [189] io dico altrettanto per i canonici.

Più tardi, i Padri andranno a documentarsi sul Cristo nella bibbia ebraica. Si discusse a lungo sull'aspetto fisico di Gesù. Era brutto, dicono Tertulliano e Origene. Per Giustino, era deforme. Questi si basano su un testo di Isaia (53:2). Ma Gregorio di Nissa, Girolamo e Teodoreto ricavano dal Salmo 45:3 che il Signore era «il più bel figlio degli uomini».

Ancora più strano: Marcione affermava, verso il 140, che il Cristo era disceso dal cielo all'età di trent'anni nei pressi di Cafarnao. Abbiamo visto che il suo racconto evangelico non conteneva i racconti dell'infanzia ancora sconosciuti. [190]

Se quella precisione stupisce, la risposta sbalordisce: non si manda Marcione a documentarsi a Betlemme che non avrebbe potuto dimenticare così velocemente la notte radiosa e i suoi angeli; non lo si manda dagli abitanti di Nazaret, nonché ai cuginetti di Giuseppe e di Maria; non gli si oppone alcun riferimento storico, alcun registro delle nascite, alcuna testimonianza, alcuna tradizione.

Ma lo si confuta per mezzo di Isaia (9:5) che aveva profetizzato la nascita e i primi anni del Messia.

Allo stesso modo Giustino invoca il Salmo 22 per provare la morte di Gesù, il fatto della morte, e non il suo valore redentivo. Questa è la confessione di una grave assenza di documenti storici.

Las Vergnas conclude: «I racconti della passione si inscrivono in una logica di fedeltà ai profeti. Alcuni riterranno intorno al 180 che la morte del Cristo sia fuor di dubbio, poiché è provata dalle profezie: c'erano quindi dei documenti storici che la attestano. Se Satana li ha fatti scomparire, rifacciamoli. Da qui la lettera di Pilato o il rescritto di Tiberio. Il pio falsario non pensa di mentire: ristabilisce la verità». [191]

Se Gesù Cristo fosse solo un mito puro, sarebbe accaduto altrimenti?


Il vangelo è un rituale

Ma il vangelo non è soltanto la catechesi che ci rivela la vita e l'insegnamento di un dio. È anche il rituale della sua passione redentrice e della sua morte che immortala.

È là soprattutto che appare il carattere mitico del libro sacro: all'evidenza, il processo, la passione e la morte di Cristo si situano al di fuori di ogni realtà.

Si sono rilevate cento volte le improbabilità del processo a Gesù. È inconcepibile che il Sinedrio violi una doppia maledizione riunendosi alla Pasqua ebraica e, quel che è peggio, durante la notte santa, mentre l'Esodo (12:22) vietava di uscire fino al mattino. Tutti dovevano affaccendarsi in famiglia con l'Agnello pasquale.

Ma qui vediamo gli ebrei di Gerusalemme, ivi compresi quelli del Sinedrio, passare la notte a correre per le strade.

Anche una pratica giudiziaria è fastidiosamente trasgredita: il Misnà e il Talmud di Babilonia indicano che non si poteva portare una condanna a morte lo stesso giorno dell'interrogatorio. Questo però è quello che succede qui, malgrado una interruzione di poche ore.

Tutto si precipita ad un ritmo mozzafiato: si vola dal tribunale al pretorio, mentre Caifa e Pilato, orgogliosi in vita, scendono dal loro letto e corrono sbadigliando agli ordini della plebaglia.

Infine, per sottolineare il verdetto di questo curioso processo, si crocifigge Gesù in queste ore della Pasqua in cui ogni esecuzione capitale era proibita. E Gesù muore così rapidamente in croce che Marco (15:44) prevede l'obiezione.

C'è, ben di sicuro, una ragione per questa successione di eventi.

Quando il Cid, in un giorno, uccide il conte di Gormas, distrugge i Mori, piega Don Sanche, trafigge un cavaliere, appare dal re e calma Chimene, sappiamo che è stato spinto dal tempo, ma nessuno crede a quella corsa di ostacoli che gli impone Corneille.

Allo stesso modo qui. «Il Cristo è nostra Pasqua» aveva detto Paolo [192] assimilandolo all'Agnello pasquale. Tutto è venuto di là. Per ridurre a una breve sequenza, entro i limiti orari della Pasqua ebraica, la Cena, il Giudizio, il cammino della croce, la passione e la crocifissione, si andava a mettere in fila una buona decina di incongruenze.

Si comprende quindi che questa «operetta giudiziaria» è un dramma sacro, una liturgia: nella luce di questa vetrata, diventerà tutto chiaro.

Una prima contraddizione si osserva tra i tre sinottici e lo scritto di Giovanni. Per i primi, Gesù muore il 15 di nisan (aprile lunare) alle tre del pomeriggio. Per Giovanni, è il 14 alle sei.

Questo scarto si spiega così: ci sono due sacrifici nella liturgia della Passione. Uno è mistico: la Cena; l'altro è storico: la Crocifissione. Ma il supplizio della croce avendo luogo all'indomani dell'ultimo pasto, non si poteva far coincidere i due con l'immolazione dell'Agnello pasquale da parte degli ebrei: si doveva scegliere.

I Sinottici scelsero la Cena, e Giovanni la Crocifissione: ecco perché la loro Pasqua varia di un giorno.

A dire il vero, si aveva deciso prima di loro. Infatti Giovanni ratifica il rituale delle comunità dell'Asia. La liturgia dell'Africa e di Roma, al contrario, ispira i Sinottici. Questo intervallo di ventiquattro ore lacerava la Chiesa: i fedeli cantavano già la resurrezione mentre altri singhiozzavano ancora il calvario.

Spettacolo insopportabile ai cuori delicati. Non senza difficoltà, il papa Vittore (190-198) imporrà l'unità; nonostante gli Asiatici — tra i quali Ireneo — i Sinottici prevarranno su Giovanni. 

Le contraddizioni evangeliche, riconosciute da tutti gli uomini di buona fede, derivano quindi da liturgie pasquali differenti. Queste sono pagine di rituale, e non di storia.

Del resto, il simbolismo liturgico informa tutto il racconto. Non si spezzarono le gambe di Gesù in croce, constata Giovanni (19:36), affinché si realizzasse la Scrittura: «Nessun osso gli sarà spezzato».

Si trattava infatti dell'Agnello pasquale (Esodo 12:46) e Gesù è sepolto nello stesso luogo del supplizio perché si doveva consumare l'Agnello sul posto (Esodo 12:46).

Nel suo Dialogo con Trifone (11:3), Giustino scopre che l'Agnello pasquale, attraversato da due legni perpendicolari, prefigurava Gesù in croce. Converrà ricordarsi di questo dettaglio quando studieremo la crocifissione.

Precisiamo che prima degli evangelisti nessuno aveva parlato del Golgota, parola ebraica che significa luogo del cranio. Si trattava del cranio di Adamo sepolto là, secondo le credenze dei primi secoli cristiani. Si concretizzava così la teologia paolina: «Il Cristo vivifica coloro che erano morti in Adamo» (1 Corinzi 15:22).

Si può anche osservare l'adattamento progressivo di questi simboli liturgici. Secondo il Vangelo degli Ebrei, l'architrave della porta del Tempio si spezza alla morte di Gesù. Questo era mediocre e poco spettacolare. I Sinottici faranno di meglio: è il grande velo del Tempio che si squarcia, in un sol colpo, dall'alto in basso.

Quella apertura del sipario ha indiscutibilmente più fascino.

Vediamo i personaggi: sono più reali delle scenografie del loro teatro?

Il Pilato dei vangeli è molto lontano dal Pilato storico, che era despota e crudele, secondo Giuseppe, pronto a vessare gli ebrei, secondo Filone.

Carattere tutto d'un pezzo, non amava le mezze misure. Ma vedete questo Pilato evangelico che esita, oscilla, tergiversa, discute, condanna il Cristo che dice innocente e l'abbandona agli ebrei che disprezza: «Prendetelo voi e crocifiggetelo!» (Giovanni 19:6).

Raccontatelo ad altri!

Si sa che offre da scegliere tra Barabba e Gesù. «È inverosimile», constata Klausner, «che nel corso dei suoi quattro volumi, Giuseppe non abbia trovato il modo di citare un costume così particolare come quello di rilasciare un prigioniero in occasione della festa della Pasqua». [193]

Soprattutto quando questo prigioniero è un malfattore (Matteo 15:7), che può ricadere immediatamente nel crimine.

Questo incidente sottolinea la fantasia del racconto. Barabba, curiosamente, aveva un nome scomparso dai vangeli ma noto a Origene e letto ancora nel Codex Bezae: era Gesù.

E il suo nome di Bar Abbas, che significa Figlio del Padre, richiama evidentemente un altro personaggio. Si è quindi in presenza di due Gesù Bar Abbas: il brigante e il Cristo.

La sorpresa è ancor più grande per chi sa l'importanza del nome tra gli antichi: il patronimico era la persona stessa e poteva servire agli incantesimi.

Così Dio nasconde il suo a Mosè e il vero nome di Gerusalemme (Kedusha) era segreto. Va quindi visto, nello spirito dell'epoca, un'identificazione quasi perfetta tra i due Gesù.

Si pensa del tutto naturalmente al rito dei due capri descritto dal Levitico (Cap. 16). Si accusava uno delle colpe di Israele per un trasferimento mistico che lo rendeva colpevole; poi lo si rilasciava nel deserto: era libero.

Ma l'altro, che conservava la sua innocenza, era sacrificato e poi annientato «fuori dalla città» (Levitico 16:27). Il parallelo salta agli occhi: è il criminale Barabba che prende il largo e l'innocente Gesù che viene immolato alle porte di Gerusalemme. L'Epistola agli Ebrei (13:12) nota l'analogia.

No, la tragedia [194] di Barabba non ha avuto luogo; complimentiamoci con Pilato, che del resto non deve fregarsene. Io non riconosco l'amante di massacri in questo riluttante al lavabo.

Altro fantoccio: Giuda.

Secondo il Vangelo di Giacomo, non era un discepolo, ma un membro del Sinedrio e, da sempre, un nemico del Cristo.

Egli ricevette in seguito un altro pedigree altrettanto chimerico, ricavato dalla Bibbia come si deve. Diviene allora il familiare di Gesù (Salmo 55:13 e 14), assiste alla Cena (Salmo 41:10) e tradisce con un bacio (probabilmente Proverbi 27:6).

Tardiva fu la sua leggenda e soprattutto quella della sua morte. Si raccontava da Papia, intorno al 150, che Giuda avesse trascinato una vita deplorevole dopo il suo crimine. Il suo corpo mostruosamente gonfio era troppo largo per le strade e il suo cadavere aveva appestato la città: l'aria era ancora irrespirabile ai tempi di Papia. [195]

Si rivide quella leggenda di cattivo gusto e si raccontò che, appena commessa la colpa, si fosse impiccato. Secondo Dalman, il fico dell'impiccagione fu mostrato all'imperatore Antonino a est di Gerusalemme; cento anni più tardi, era ad ovest. Ora è nel sud ed è diventato bagolaro. [196]

Quella favola è passata nei Sinottici.

La psicologia di Giuda è così singolare che il vangelo la spiega a causa della possessione (Luca 22:31). Il suo ruolo non è meno strano: chi crederà che un bacio da melodramma fosse necessario per indicare il Cristo?

In effetti, Giuda è un'arma sleale contro gli ebrei rimasti fedeli a Mosè. «Undici degli apostoli saranno Galilei», dice Rops. Della Giudea è probabilmente solo il dodicesimo: Giuda».

Giuda è il Giudeo: il suo nome lo indica.

Ecco infine Gesù, l'eroe del dramma. Tutto di lui stupisce e confonde. Dapprima che sia là.

Di cosa lo si incolpa?

Non è rivoluzionario: «Fatevi tesori in cielo» e ancora «Rendete a Cesare quello che è di Cesare»

Si è detto che il vangelo tende al comunismo e al livellamento egualitario: questo è un errore. L'uguaglianza davanti a Dio non sopprime le classi sociali, così come l'uguaglianza davanti alla morte non abolisce le classi di sepoltura.

Gesù non predica la rivolta, ma la rassegnazione. Domanda ai ricchi di donare, non ai mendicanti di prendere.

È l'Angelo del Gran Tramonto? No, dell'Eterno Mattino.

Un tale personaggio non è da uccidere ma da sovvenzionare. Ai nostri giorni, gli si appunterebbe la Croce (d'Onore).

Respinge l'occupazione romana? Va assimilato a Giuda il Gaulonita, Teuda o Bar Cochba? Questa è l'opinione di Turmel e di molti altri.

Ma quella ipotesi si basa su un'idea preconcetta. Gesù, al contrario, accetta l'occupazione come un fatto «Rendete a Cesare quello che è di Cesare» (Matteo 22:21). Ignora gli zeloti resistenti e i sadducei collaborazionisti.

Non si trova alcuna denuncia politica alla sua condanna, nemmeno l'ombra di un sospetto di resistenza all'occupante. Pilato lo confessa lui stesso: «Non trovo nessuna colpa in quest'uomo» (Luca 23:4). Altrove, Gesù chiede che si rimetta la spada nel fodero (Giovanni 18:11).

Allora perché muore?

Per «salvare il suo popolo dai suoi peccati» (Matteo 1:21). Non è un patriota che si immola, è l'offerta espiatoria di un uomo-dio.

Da allora, tutto si spiega, anche il fallimento degli evangelisti, posti di fronte ad un problema insolubile: come far condannare legalmente l'Innocenza in persona?

Mobilitano invano i falsi testimoni, i traditori infami e altri prevaricatori e persino la folla scatenata degli ebrei.

Nel finale, occorrerà che un giudice pronunci questo verdetto stupefacente: quest'uomo è innocente, condanniamolo.

È letteralmente un Mistero: il mistero della morte salvifica di un dio. Pilato, evidentemente, non ci capisce niente: è un politico. Ma Caifa, uomo di Chiesa, ha capito subito: «Conviene per noi che un sol uomo muoia per il popolo» (Giovanni 11:50).

E l'evangelista aggiunge: «Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Giovanni 11:51).

Con ogni evidenza, si è più in Chiesa che al pretorio.

La messa in scena dell'intero dramma si presenta come una liturgia: dall'ingresso trionfale a Gerusalemme fino all'epilogo in lutto nei veli delle tenebre. Si vede in grande, e la produzione non lesina sui mezzi: sfilate, cortei, movimenti di folla, effetti di luce, comparse prestigiose come Erode e Pilato.

I riflettori focalizzano il personaggio centrale: pontefice e re, Gesù è vestito a sua volta di bianco e di porpora; riceve scettro e corona, impone la sua regalità con umiltà perché il popolo lo insulta senza riconoscerlo.

Era necessario che un dio soffrisse senza lasciarvi il suo prestigio: ci si è riusciti.

Il carattere liturgico del racconto appare nella solennità del dialogo: «Ti scongiuro, per il Dio vivente», interroga Caifa, «perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio» (Matteo 26:63).

E Gesù gli risponde nello stesso linguaggio dalle nubi del cielo e alla destra di Dio: «Tu lo dici». Allora Caifa, in tutta semplicità, si strappa con indignazione la sua veste.

Qui tutto è gesti e formule ieratici; la lentezza del ritmo evoca il culto cristiano e la grande messa o il simbolo di sant'Atanasio. Al servo che lo colpisce sulla guancia, Gesù dimentica di porgere l'altra (Matteo 5:39), ma lo confonde con una dialettica pontificia (Giovanni 18:23).

Sa che i millenni ascoltano; tutti qui parlano in bronzo e recitano in marmo.

Sullo sfondo, la strana folla evangelica; si manifesta quando la si fischia per scomparire subito. Ha seguito Gesù nel deserto, si è deliziata dei suoi miracoli culinari, lo ha coperto di rami d'ulivo, acclamandolo gioiosamente.

Ora grida: «Sia crocifisso, il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli!» (Matteo 27:25).

Giammai popolo ebbe tanto stile e tanto odio: l'Eschilo di quella formula era sacerdote. La terrificante imprecazione è una replica della liturgia: la si sente nelle cattedrali, non nelle sinagoghe o nei tribunali.

Da qui il tono neutro e rassegnato che ammirano Pascal e Flaubert. Non una volta la penna trema d'amore o di collera quando descrive la passione di Gesù; quella serenità è concepibile solo in un dramma liturgico.

Nella messa come nel culto, il sacerdote e il pastore immolano la vittima senza una parola di pietà: solo l'adorazione ha il suo posto.

Infine, si distinguono nettamente nel vangelo due cicli liturgici: quello della predicazione in Galilea che si irradia attorno al battesimo; quella della morte in Giudea che è centrata sull'eucarestia.

Giovanni riassume il tutto in un simbolo: dal fianco divino trafitto dalla lancia sono sgorgati acqua e sangue (Giovanni 19:34).

Ma solo il genere del libro specifica la morte dell'eroe. Se il vangelo è un rituale, la morte di Gesù è una liturgia.

Gesù non muore come Teuda o il Gaulonita, ma come le divinità dei Misteri e della Salvezza.

Queste divinità circondavano allora la Palestina: Attis in Frigia, Mitra in Persia, Osiride in Egitto, Adone in Siria, Tammuz in Mesopotamia, Dioniso in Grecia.

I più fortunati della Confraternita avevano persino invaso la Terra Santa: dal tempo di Ezechiele, Tammuz vi aveva il suo culto (Ezechiele 8:14). Daniele (11:37) lo chiamava «amato dalle donne» tanto che piangevano sulla sua morte. [197]

Si pensa addirittura che questo dio dei cereali abbia dato il nome a Betlemme: la casa del pane. «Betlemme che ora ci appartiene», dice san Girolamo, «era ombreggiata da un boschetto sacro a Tammuz, cioè Adone, e nella grotta dove un tempo Cristo, bambino, aveva vagito si piangeva l’amante di Venere». [198]

In attesa di vincerli, Gesù fraternizzerà con loro. Sono della stessa specie: quella degli dèi secondari, mediatori tra l'uomo e il dio supremo.

Facendo di Gesù l'eguale al Padre per dei giochi di esagerazione, la teologia cade nell'assurdo. Vi dibatte copiosamente quando decreta che un dio unico si immola lui stesso da sacrificio espiatorio.

Gesù aveva detto però: «Il Padre è più grande di me» (Giovanni 14:28). Egli lo sa meglio di chiunque altro, non dispiaccia ad alcuni. Entusiasti teologi pretendono: «Gesù è inferiore nella sua natura umana al Padre nella sua divinità».

Da quando si possono confrontare due cose o due esseri sotto una relazione diversa? Se Gesù fosse solo un uomo, passi pure. Ma lui è uomo e dio. Teologicamente, l'unica persona che è in lui è la persona divina.

Per Paolo, «c'è un solo Dio, il Padre e un solo Signore Gesù Cristo» (1 Corinzi 8:5-6). Pietro non dice altro. «Dio lo ha costituito Signore e Cristo» (Atti 2:36).

Il titolo di Signore (Kyrios) è precisamente quello degli dèi misterici che la loro resurrezione rendeva signori.

Gesù, tuttavia, è dio in «ogni pienezza» (Colossesi 1:19) ma a sua misura: un piccolo bicchiere piccolo può essere pieno tanto quanto uno grande. Venti secoli di monoteismo ci rendono difficile da capire, ma dovremo piegare la nostra mente ai testi e non i testi alla nostra mente (se ne abbiamo).

Anche adesso, un cristiano possiede più o meno grazia, questo soffio divino. Allo stesso modo gli dèi erano un tempo più o meno deificati: Mercurio era meno dio di Zeus, e Gesù lo era meno di suo Padre, ma lo erano tutti pienamente, ciascuno al suo posto.

Che Gesù fosse creatore non cambia nulla: un semplice demiurgo poteva creare.

Questi dèi avevano anche una leggenda identica: morivano e risorgevano tutti in primavera. I misteri celebravano la natura stessa che muore in inverno solo per rinascere con il bel tempo.

Più tardi, si personificarono queste forze anonime: divennero divinità e ricevettero nomi adorabili. Tammuz, Adone, Osiride, dopo tre giorni simbolici trascorsi nella tomba, risorgevano al sole primaverile. Adone riviveva il 25 marzo. Marduc, dio babilonese la cui passione ricorda quella di Gesù fin nei dettagli, ritornava alla vita l'8 di nisan.

Gesù lo seguirà di pochi giorni.

I misteri si identificavano anche all'eucarestia nel suo duplice aspetto: il memoriale del dio immolato e il banchetto rituale. L'apologeta Firmico Materno paragona la Cena di Attis a quella di Gesù. [199] Giustino constata che Mitra praticava l'oblazione del pane e del calice. [200]

Si conosce anche la formula egiziana: «Tu sei il vino, tu non sei il vino, ma le viscere di Osiride». [201]

Quella rassomiglianza del Cristo con le divinità dei misteri era riconosciuta da tutti nei primi secoli. Secondo Tertulliano, molti consideravano il nascente cristianesimo una setta mitriatica. Il sacerdote di Cibele affermò che il «dio dal berretto frigio» (Attis) era cristiano. [202]

La maggior parte dei Padri della Chiesa se ne compiacevano. A credere a loro, i pagani avevano conservato frammenti della Rivelazione primitiva, ma queste verità lacere giacevano ora tra gli errori «come damigelle d'onore tra dame di piacere». [203]

Conveniva riconoscerle e riprenderle. I Padri vi fecero del loro meglio: proclamavano cristiano tutto ciò che piaceva loro presso gli infedeli, trasformando le divinità pagane in precursori fraudolenti di Gesù.

Huet, vescovo di Avranches nel XVII° secolo, ritrova in dettaglio la vita del Cristo in quella degli dèi, senza omettere alcun miracolo né alcun sacramento. [204]

Si conoscono anche queste pagine del Genio del Cristianesimo nelle quali Chateaubriand scopre la Trinità tra tutti i popoli, dall'India a Otaiti. Era necessario allora dimostrare che la religione cristiana è antica tanto quanto il mondo e universale così come la verità.

Ma l'apologetica ha le sue mode; è necessario ora provare l'originalità trascendente del cristianesimo per giustificare la rivelazione. Da allora, ci si sforza di ingrandire le differenze, per quanto piccole, tra Gesù e i suoi rivali.

Curiosamente, la più grande di tutte può essere messa a vantaggio del cristianesimo: le divinità dei misteri non morivano per gli uomini; non erano quindi redentori, ma piuttosto iniziatori. Il loro sacrificio era valido solo per loro: vincendo la morte per mezzo della resurrezione, divenivano immortali.

Nondimeno, tramite l'iniziazione, i fedeli si associavano alla loro vittoria per condividerla. Il sacerdote di Mitra diceva ai fedeli: «Rallegratevi, iniziati: il vostro Dio è risorto dalla morte. Le sue pene e sofferenze saranno la vostra salvezza». [205]

Il risultato era lo stesso. «La passione del dio», dichiara padre de Grandmaison, «non era la causa della salvezza dell'uomo».

Sfumatura importante: non era la causa istituzionale ma efficiente. Allo stesso modo, non è per me che Pasteur inventò il vaccino, ma quest'ultimo potrà eventualmente salvarmi.

Sono buon principe: ammettiamo che il cristianesimo abbia soddisfatto meglio il maggior numero, Gesù morendo per ciascun essere umano; quella idea demagogica sarebbe piaciuta. Ultimo venuto dei misteri, ha saputo trarre la lezione dagli altri.  

Si deve quindi collocare il Cristo tra gli dèi della salvezza, e il cristianesimo tra i misteri. Essendo questi ultimi segreti per definizione, li si conosce poco; ma si sa sufficientemente per indovinare il resto; il cristianesimo è uno di loro.

Clemente d'Alessandria (150-215), alla fine del suo Protrettico, impiega la terminologia degli iniziati: daduco, epopte, gerofante, miste, ecc., per dimostrare che il vangelo è il vero mistero. Gesù, infatti, parla spesso da miste rivelando la Gnosi agli iniziati: «A voi è dato di conoscere il mistero del regno di Dio; ma a coloro che sono di fuori tutte queste cose sono annunciate in parabole, affinché vedendo, vedano ma non intendano, udendo, odano ma non comprendano» (Marco 4:11).

Dal momento in cui tese all'universale, il cristianesimo doveva essere iniziatico. Ogni popolo ha le sue tradizioni, i suoi costumi e i suoi pregiudizi che sarebbe avventato violare. Meglio vale adattarsi provvisoriamente con una catechesi progressiva che imponga gradi di iniziazione: si escludeva il catecumeno da certe cerimonie ed è per tappe che lo si conduceva al battesimo.

Infine, il successo del cristianesimo tra i pagani è altrettanto rivelatore del suo fallimento tra gli ebrei. Questi, monoteisti intrattabili, respinsero il dio Gesù. Ma i pagani, abituati alle divinità dei misteri, erano meglio preparati: il Buon Pastore, sulle pareti delle Catacombe, porta il flauto di Pan e la lira di Orfeo.

Così la teologia primitiva, ponendo il Cristo tra gli dèi di salvezza, conferma la tesi mitica.

Si è visto che l'uomo condivideva la vittoria del dio risorto nella misura in cui si identificava a lui mediante la prova, il battesimo e altri riti magici riservati ai soli iniziati.

Si svolgeva allora un dramma sacro dove il fedele teneva un ruolo indispensabile, simboleggiato dappertutto: si aggiunge al dio Assur un condannato che muore con lui; allo stesso modo, Simone di Cirene porta la croce di Gesù: l'uomo deve completare per sé la passione del dio.

Questo fu dapprima un semplice dramma, antenato del teatro. Ancora ai nostri giorni, alcune società iniziatiche si arrestano a questa fase. Ne conosco una dove si imita la morte leggendaria di Hiram con brillantezza ma senza efficacia. [206]

Poi, sotto l'influenza del sacerdozio, il dramma diventa rito: è creduto realizzare ciò che rappresenta; siamo in piena magia. Così la messa è celebrata come un vero sacrificio, benché tutto si svolga in senso figurato.

Si rappresentava quindi in maniera liturgica il sacrificio celeste di Attis e di Mitra per raccoglierne i frutti.

Ma non si poteva restare là. «La loro qualità di uomo-dio», osserva Couchoud, «doveva naturalmente condurli ad incarnarli: chi muore ha vissuto, chi ha vissuto è nato».

Si andava quindi a ricostruire la vita parlando del rito.

I visionari se ne incaricheranno. Spiegheranno che il dio aveva realmente compiuto in passato le gesta ora liturgiche.

Gli storicisti lo ammettono per divinità diverse da Gesù. Loisy riconosce che Osiride non esistette mai e che è il rituale dei faraoni morti che lo generò. [207]

Guignebert insiste: «Si noti bene che i riti che troviamo nelle religioni misteriche sono antecedenti ai miti; che i riti sono esistiti prima (...) e che i miti sono nati solo dopo per spiegarli, per farli comprendere». [208]

Nel suo trattato sull'Orfismo, [209] padre Lagrange se la prende con Firmico Materno che non ha compreso la morte di Zagreo ad opera dei Titani.

«È un convinto evemerista», disse il padre. «Riproporrà quindi sotto forma di una storia vera il mito che ha sentito raccontare come la causa del rito e che ne deriverebbe piuttosto in veste di spiegazione. Non accordiamo alcun merito a quella storia, è ovvio, ma sta a noi riportarla alla sua forma di mito e questo mito al rito di cui ha preteso rendere ragione».

Aggiungiamo che i personaggi e lo scenario del Libro di Ester furono inventati per spiegare la festa ancestrale dei Purim. È quindi certo che il rituale può generare la leggenda.

Come era nato il dramma, poi il rito? Questa è un'altra storia. All'origine di tutto, c'era un visionario, gli dèi nascendo dalle nebbie dell'uomo. Un furbo si proclama allora sacerdote del dio, dando come prova la sua sola audacia.

Poi inventò un rituale abbastanza complicato perché potesse pretenderlo di ricavarlo dall'alto. Il rituale, a sua volta, suscitò altri visionari che, ammirati dagli ingenui e dai creduloni, coccolati dalle donne e utilizzati dai sacerdoti, svilupparono il mito per l'acclamazione generale.

Tutto si illuminava alle loro parole; presto si sarebbero ritrovate anche le reliquie del dio.

Si scopriva prima la sua tomba, poiché tutto partiva dalla morte salvifica che solo interessava l'egoismo umano. Si venerava quindi la tomba di Marduc a Babilonia [210] e quella di Ercole a Cadice. Apollo era sepolto a Delfi, Crono nel Caucaso, Elio ad Atra, Ermes in Tracia, Asclepio a Epidauro.

Alcuni avevano due tombe: così Osiride che riposava ad Abido e a Nisa vicino ad Attis. [211] Orfeo giaceva a Libetra e a Dium, ma si adorava la sua testa ad Antissa. Gli dei abbandonavano nella tomba le loro spoglie mortali come la farfalla la sua crisalide; solo Gesù ha importato tutto lassù. «Noi ce la ridiamo di coloro che adorano Zeus», dice Origene, «perché si mostra la sua tomba a Creta». [212]

Poi si immaginava la vita pubblica del dio, i suoi miracoli e il suo insegnamento. Si risaliva così all'infanzia trascorsa rapidamente: l'uomo è impaziente che il dio metta su peso per metterlo a morte.

Si arrivava così alla nascita cavernicola: così per Tammuz, Adone, Ermes, Dioniso.

Questo processo si allinea esattamente con la leggenda cristiana. I testi più antichi conoscono solo la morte di Gesù (Paolo). I più recenti evocano la nascita (Luca).

E l'infanzia è dispensata in poche parole, abbreviate nei canonici: «Cresceva in sapienza e in statura» (Luca 2:52 ss). Nel capitolo successivo, ne ha trent'anni di più.

Si finiva per sapere tutto sugli dèi. «Si dà la loro descrizione», precisa Cicerone, «si dice la loro età, le loro genealogie, i loro matrimoni, le loro alleanze». [213]

L'iniziato ai misteri ne sapeva ancora di più: per il popolo vanitoso, Artemide era figlia di Latona, ma l'iniziata di Eleusi sorrideva in silenzio: la sapeva figlia di Demetra.

Si avevano i migliori testimoni: sappiamo da Firmico Materno (350 circa) che i sacerdoti di Attis pretendevano di averlo seppellito con le loro mani e constatato in seguito la sua resurrezione. [214] Questo vuoto attestato della tomba impressionava la gente comune e turbava i potenti.

Gli storici profani confermavano: Erodoto descrive la vita umana di Attis; ne fa un figlio di Creso, morto durante una caccia al cinghiale. [215]

Infine, un certo Eubulo racconta la vita di Mitra «in molti libri» simili ai nostri vangeli. [216]

Lo stesso vale per Gesù, ma in un modo più complesso: la sua vita deriva soprattutto dalle profezie messianiche. Questo è il contributo ebraico.

Ma la sua morte espiatrice e la sua morte «storica» provengono da una liturgia preesistente, da un dramma sacro. Questo è il contributo pagano.

Realizzato nella persona di Paolo, ebreo paganizzato, il cristianesimo fa la congiunzione tra i due.

L'apostolo conosceva ben prima dei vangeli l'oblazione del pane e del vino, antico rito millenario di un'usanza universale. Lo fa risalire a Melchisedec, re di Salem (Genesi 14:18).

Il rito era troppo svalutato dalle eucarestie pagane: bisognava ringiovanirlo. Paolo se ne occupò.

Egli diede un significato nuovo al rito antico includendovi il «Signore Gesù». Sebbene fosse dio, costui divenne «sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec» (Ebrei 5:6) il che non manca di essere strano. La relazione tra la Cena e l'Oblazione è quindi proclamata.

Paolo prende dal Signore stesso il racconto dell'istituzione eucaristica (1 Corinzi 9:23 ss).

Secondo l'usanza, il rito è quindi spiegato dal veggente. Più tardi, gli evangelisti storicizzeranno perfettamente.

Chi era questo Signore Gesù paolino?

Dujardin pensa a proprio rischio e pericolo che fosse l'antico dio Giosué rimesso a nuovo.

Altri hanno visto una setta pre-cristiana in quei «Nazareni» menzionati da Epifanio. [217] Questo è inverificabile.

Las Vergnas pensa che il Signore Gesù fosse uno Spirito che si manifestava tra gli estatici, viveva e parlava come loro.

Simile al demone di Socrate e a queste entità misteriose provenienti dalle profondità del tempo e degli astri, continua a fare proseliti tra i mistici di oggi.

Un culto precristiano è probabilissimo. Se ne percepisce l'eco nell'inno cristologico ritmico dell'Epistola ai Filippesi (2:6-11). È difficile dirne di più perché la Chiesa vittoriosa ha soppresso con la forza i testi imbarazzanti.

Ma una conclusione che si impone non è arbitraria. Perché Gesù farebbe eccezione ala regola delle divinità dei misteri ?

La sua esistenza, lo si è visto, non è in alcun modo dimostrata dalla storia profana.

Volerla provare per mezzo del vangelo, come fa la maggior parte degli autori, è inutile: non si prova il dio per mezzo del rituale.

Il problema della storicità del Cristo non si porrebbe più da molto tempo, se non ci fossero milioni di cristiani: il culto vivente fa credere che il dio sia vissuto.

Se Mitra, il suo più pericoloso rivale, avesse prevalso, ora avremmo sacerdoti e pastori in berretto persiano, dei tauroboli per battesimi e dei mitrei per calvari.

Poca gente dubiterebbe dell'esistenza di Mitra, e tutti negherebbero quella del Cristo. Tra loro la corsa fu indecisa per trecento anni. Poi Gesù doppiò il suo rivale e arrivò solo al traguardo: l'altro era scivolato nel tornante della Storia. [218]

Costantino aveva giocato sul sicuro: sapeva perché. Gesù aveva per lui una Chiesa monarchica, gerarchica, intransigente, quando gli altri culti, senza autorità centrale, divennero anemici nel sincretismo.

Per fare l'unità morale e religiosa dell'impero, Gesù valeva meglio.

Inoltre, la sua leggenda non si perdeva nelle profondità del tempo come quella di Mitra, il suo primogenito di quattordici secoli. Si aveva saputo inserirlo nella storia recente e associarlo al primo uomo attraverso i patriarchi e i profeti: così era sia il più anziano degli dèi che il più giovane.

In questo duello tra divinità, Mitra vi avrebbe lasciato la sua impronta: rivive tutti gli anni nella notte tra il 24 e il 25 dicembre. In precedenza, vi si collocò il solstizio d'inverno o il sole rinascente. Questo Sole invitto è Mitra.

Non riuscendo a sopprimere quella festa, la Chiesa la ha cristianizzata: la notte mitriatica è divenuta quella di Gesù la cui nascita, nei primi secoli, si celebrava in gennaio, aprile o maggio.

Rivincita divertente del dio persiano sul palestinese: è lui, in realtà, che tutta la cristianità adora quella notte...


NOTE

[81] Voltaire, Dizionario filosofico, V° Concili.

[82] Ecclesia, agosto 1956.

[83] Loisy, l'Evangile selon Luc, pag. 65.

[84] Rops, op. cit., pag. 40.

[85] Grandmaison, Jésus-Christ, volume I, pag. 117.

[86] Rivolta provocata dalla decisione di Adriano di edificare una statua pagana sul luogo stesso del tempio di Gerusalemme, distrutto nel 70.

[87] Ricciotti, Vie de Jésus-Christ, pag. 123 (Payot, 1947).

[88] Rops, op. cit., pag. 45.

[89] Rops, op. cit., pag. 45.

[90] Confidenze riportate da Couchoud nel Dieu Jésus, pag. 18.

[91] Salomon Reinach, Orpheus, pag. 323.

[92] Goguel, Jésus de Nazareth, mythe ou histoire? pag. 225.

[93] Rops, op. cit., pag. 29.

[94] Il loro editore ha bisogno di essere rassicurato. Vedete le sue inquietudini in Histoire générale des religions, volume III, pag. 120 (Quillet).

[95] Renié, Manuel, volume IV, pag. 82.

[96] Alfaric, l'Evangile selon Marc, pag. 4 (Rieder, 1929).

[97] Stessa osservazione per le epistole. La Seconda di Giovanni, verso 7, ha di mira Marcione che negava che il Cristo fosse venuto nella carne. Tertulliano salverà la situazione: «si tratta», dice, «di un'anticipazione profetica» (Adv. Marcionem 3:8).

[98] Il padre Renié obietta che il «Tu es Petrus» si trova in tutti i manoscritti di Matteo. Siccome il più antico risale al IV° secolo, l'osservazione non va lontano.

[99] Epifanio, Haer. 30:13 ss.

[100] Ancoratus 31.

[101] De Trinitate, 10, cap. 4.

[102] In Eusebio, Hist. Eccl. 4:23, 12.

[103] San Girolamo; De Viris.

[104] Si può leggere quella lettera nella Patrologia latina di Migne, volume 89. San Pietro vi esorta Pipino a proteggere la sua tomba contro i Longobardi.

[105] Esempio in Couchoud: Théophile, pag. 89.

[106] Guignebert, Le christianisme médiéval, pag. 258.

[107] Renié, Manuel, volume V, pag. 269.

[108] Pouget, Logia, pag. 88 (Grasset, 1955).

[109] Contra epistolam Manichoei, cap. 5.

[110] Epitteto (50-130) fu schiavo a Roma; professò il distacco dai beni che non dipendono dall'uomo. «Sopporta e astieniti».

[111] Eusebio, Storia ecclesiastica 3.

[112] In Ireneo, Haer. 5:33, 3.

[113] Pinard de la Boullaye, Jésus et l'Histoire, pag. 111 (Spes, 1938).

[114] Renan, O.C. volume 5, pag. 225.

[115] Renan, O.C. volume V pag. 329 (in nota).

[116] Renié, Manuel, volume IV, pag. 68.

[117] Fillion, Vie de N.S.J.C., volume I, pag. 433.

[118] Eusebio, Hist. Eccl. 4:3.

[119] Tacito, Storie, libro 4:81.

[120] Sant'Agostino, la Città di Dio, libri 19 e 23.

[121] San Girolamo, Vie de Paul ermite, capitolo 7 e 8.

[122] Lutero, Propos de table, pag. 167 (Aubier, 1932).

[123] Retz, Mémoires, pag. 807 (Pléiade). 

[124] P. Jubaru, M. Loisy et la critique des évangiles, pag. 7 (Lethielleux, 1907).

[125] Nella rivista Ecclesia, N°32, pag. 52.

[126] Jean Guitton, Jésus, pag. 75 (Grasset, 1956).

[127] Rivista Ecclesia, maggio 1957.

[128] Corte, St Pierre est-il au Vatican? pag. 115 (Bibl. Ecclesia).

[129] Corte, Ibidem, pag. 104.

[130] Senza dubbio per riferirsi a Giovanni 21:19.

[131] «Dignus Roma locus quo deus omnis eat Ovide» (Fasti, libro 4, verso 270).

[132] Renié, Manuel, volume VI, pag. 27.

[133] Origene, Contra Celsum, libro 3.

[134] Atti di Pietro e Paolo.

[135] Claudel, Corona benignitatis anni Dei, pag. 403 (Pléiade).

[136] Giuseppe, Antichità 19:8, 2.

[137] Eusebio, Hist. Eccl. 2:23.

[138] Giuseppe, Antichità Giudaiche libro 20, 9:1.

[139] Tertulliano, De praescriptione haereticorum, 36.

[140] Renié, Manuel, volume IV, pag. 67.

[141] Il suo Evangile selon saint-Luc, pag. 11 (Verbum Salutis, Bauchesne, 1927).

[142] Sermone 133.

[143] Rops, Ecclesia, 07/1957.

[144] J. Rostand, Pensées d'un biologiste, pag. 224.

[145] Rops, op. cit., pag. 55.

[146] Padre Lagrange, L'Evangile de Jésus-Christ, pag. 6 (Gabalda, 1939).

[147] Grandmaison, Jésus-Christ, volume I, pag. 52.

[148] Samuel Prod'hom, Simples entretiens sur les évangiles, pag. 7, EDLTC, 1947.

[149] Celso, in Origene, Contra Celsum. Si veda Louis Rougier, Celse, pag. 54 e 361 (Delpeuch).

[150] I torturati, secondo Petronio, potevano vivere tre o quattro giorni sul legno.

[151] È per quella ragione che il vangelo li fa più stupidi della natura: essi prendono regolarmente le metafore per la realtà, il che è il pons asinorum della stupidità. 

[152] Eresiarca morto nel 161. La sua dottrina dominante è il panteismo emanatista.

[153] Anatole France, L'Ile des Pingouins.

[154] Fillion, Vie de N.S.J.C., volume III, pag. 621.

[155] Renié, Manuel, volume V, pag. 82.

[156] Rops, op. cit., pag. 580.

[157] Guignebert, Jésus, pag. 101.

[158] Rops, Jésus en son temps, pag. 6. Si leggeva «enigmi» invece di «difficoltà» nella prima versione del suo testo: «Come conosciamo Gesù?» pag. 2 (Sequana, 1943).

[159] J. A. Bernard, professore al Collège Stanislas, Histoire Romaine, pag. 146 e 256 (Vitte).

[160] Monsignor Duchesne l'ammette nel tentativo, con un rapido tratto di penna, di minimizzare la testimonianza di Papia. Si veda la sua Hist. anc. de l'Eglise, volume I, pag. 143 (Parigi 1910).

[161] Ireneo, Contra Haereses, 22:5. Si veda Giovanni 8:57.

[162] Boll, l'Education du Jugement, pag. 247 (P.U.F., 1954).

[163] P. de la Boullaye, Jésus et l'Histoire, pag. 171.

[164] Abb. Bousquet, Eléments de géographie sacrée (Delaain).

[165] Gustave Dalman, Direttore dell'Istituto archeologico tedesco di Gerusalemme: Gli Itinerari di Gesù, pag. 28 (Payot, 1930).

[166] Marco 5:1 ss, Luca 8:26.

[167] Il padre Renié identifica Gerasa con Djérash, a pag. 192 del suo Manuel (volume IV), ma dichiara impossibile quella identificazione a pag. 416.

[168] Théodore Reinach ha svelato per prima questa farsa. Il racconto di Marco non lascia alcun dubbio. 

[169] Rops, op. cit., pag. 223 e 191. 

[170] Spinoza, Lettre à Oldenbourg; Oeuvres, pag. 1339 (Pléiade).

[171] Matteo 4:8; Luca 4:5.

[172] Matteo 3:13 ss; Marco 1:10; Luca 3:22.

[173] Fillion, op. cit., volume II, pag. 536.

[174] Matteo 17; Marco 9; Luca 9:28 ss.

[175] Giustino, Dialogo 48. 

[176] Alain, Propos, pag. 568 (Pléiade).

[177] San Girolamo, e con lui molti critici, pensano che i Settanta hanno tradotto solo il Pentateuco.

[178] Lagrange, op. cit., pag. 604.

[179] Renié, Manuel, volume IV, pag. 679.

[180] Goossens, professore di dogmi al gran seminario di Gand, l'Apologétique de Bloud et Gay, pag. 1141 (Parigi, 1937).

[181] Renié, Manuel, volume I, pag. 395 (1941).

[182] Zaccaria 11:13 ss.

[183] Zaccaria 11:9 e Matteo 21:2.

[184] Matteo 27:48.

[185] Gargantua, libro 1, capitolo 38.

[186] Matteo 1:23.

[187] Numeri 6, Giudici 13:3.

[188] Ipotesi interessante di M. Lassalle, Bulletin du Cercle Renan, maggio 1958.

[189] Rops, Ecclesia di Natale 1949.

[190] Matteo 4:13.

[191] Las Vergnas, Jésus-Christ a-t-il existé?, note 210.

[192] 1 Corinzi 5:7.

[193] Klausner, Vie de Jésus, pag. 503.

[194] Dal greco tragos (capro).

[195] Monsignor Duchesne, Histoire ancienne de l'Eglise, volume I, pag. 143.

[196] Dalman, Itinéraires de Jèsus, pag. 435.

[197] Si tratta di Tammuz-Adone nei versi celebri di J.M. de Hérédia: «il giovane pianto dalle vergini di Siria» (Trophée: le rêve d'un dieu). 

[198] San Girolamo, lettera 58 a Paolina. Il testo non è tanto chiaro quanto lo si desidererebbe.

[199] De errore 18.

[200] Giustino, Apologia 66. Secondo lui, i demoni volevano screditare in anticipo l'eucarestia cristiana.

[201] Confutazione in Guignebert, Le Christ, pag. 373.

[202] Sant'Agostino, In Johan 7:16.

[203] Richeonne (17° secolo), Adieu de l'âme dévote, pag. 152.

[204] Si veda il suo trattato Altenae Quaestion es (Les questions d'Aulnay) tradotto parzialmente da Racine. Il grande Arnault fu sul punto di denunciare alla Chiesa quella apologetica pericolosa. 

[205] L'espressione è stata conservata da Firmico.

[206] Si veda Gérard de Nerval, Voyage en Orient.

[207] Loisy: Les mystères païens, pag. 124 (Nourry, 1930). Il rituale di Osiride è il più antico di tutti e sembra aver ispirato gli altri.

[208] Guignebert: Dieux et Religions, pag. 63 (Riéder, 1926).

[209] pag. 171.

[210] Secondo Diodoro e Strabone.

[211] Nysa era una città santa dove Dioniso aveva vissuto: Dyo-Nysa.

[212] Contra Celsum, libro 3.

[213] Cicerone, De natura deorum, 2:28.

[214] Firmico Materno, De errore profanarum religionum 3:1.

[215] Erodoto, Storie, 1:34:43.

[216] Secondo Porfirio, Sull'astinenza 4:16.

[217] Epifanio, Haer. 18.

[218] Si può vedere un monumento mitriatico in Francia, a Bourg Saint-Andéol (Ardèche). Due ammirevoli sculture che rappresentano il dio Attis sono conservate al museo.

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