lunedì 2 novembre 2020

LA PASSIONE DI GESÙ: FATTO DI STORIA O OGGETTO DI CREDENZALe obiezioni razionaliste ed ebraiche all'umanizzazione di Gesù.



Le obiezioni razionaliste ed ebraiche all'umanizzazione di Gesù.

Il Vangelo di Marco, in effetti, è un aspetto, ma anche, in una certa misura, un elemento della separazione definitiva tra il cristianesimo e l'antica religione ebraica. L'«ascoltatore cristiano», a cui è letto il Vangelo, sa bene che sta ascoltando il supplizio di un Dio, perché solo il sangue di un Dio può riscattare il genere umano. Egli è commosso tuttavia profondamente, perché sta assistendo anche alle sofferenze di un uomo...» [109] Ma cosa ne pensano non solo le masse ancora pagane dell'inizio del II° secolo, attaccate alla religione tradizionale e naturalmente intolleranti, ma anche gli spiriti forti del mondo pagano e gli Israeliti? 

Infatti essi convergono nella stessa fondamentale obiezione, che si tratti di Celso, di Luciano (II° secolo), dell'imperatore Giuliano (IV° secolo) o dell'ebreo Trifone, con cui dialoga il cristiano Giustino (II° secolo), e del Talmud: «È un vano sentito dire che voi avete accettato. Voi vi siete creati per voi stessi un certo Cristo», fa dire Giustino a Trifone. [110] «Essi adorano il loro sofista crocifisso», deride ferocemente Luciano. [111] I pagani scettici non potevano avere altro atteggiamento; ma se utilizzavano, e in particolare Celso, la polemica anticristiana degli ebrei, quale è il pensiero di questi ultimi riguardo alla natura di Gesù? 

Consideriamo di nuova la baraita del Talmud, già menzionata, quando è stata esaminata la crocifissione di Gesù nella 1° Epistola paolina ai Corinzi: [112] «La sera della vigilia di Pasqua si impiccò Yeschu di Nazareth. Per quattordici giorni l'araldo gli camminò davanti, gridando: Gesù di Nazareth sarà lapidato perché ha esercitato la magia, ha traviato Israele e l'ha reso infedele. Chi ha un'assoluzione per lui, venga e la presenti per lui. Ma non si trovò assoluzione per lui e fu impiccato alla sera della vigilia di Pasqua».

Lo studio di questo testo ci aveva condotto alle conclusioni seguenti: senza dubbio la baraita talmudica dipende dalla tradizione cristiana, nel senso che cerca di volgere quest'ultima in derisione; ma l'indicazione della messa a morte di Gesù per lapidazione, seguita dall'impiccagione del cadavere, permette di supporre, nell'assenza di ogni menzione di un intervento romano, che la tradizione ebraica si sia formata per combattere una tradizione cristiana ancora in formazione, la cui concezione primitiva era stata quella enunciata nell'Ascensione di Isaia: «E il principe di questo mondo stenderà la sua mano sul Figlio di Dio, e lo ucciderà, e lo sospenderà all'albero, e lo ucciderà non sapendo chi è». [113]

Un'altra osservazione va nello stesso senso, quanto al periodo in cui potrebbe situarsi la baraita del Talmud qui esaminata. I tre Vangeli sinottici, quelli di Marco, Matteo e Luca, da una parte, e il quarto Vangelo, quello di Giovanni, dall'altra, sono in disaccordo sulla data della Passione di Gesù: secondo i primi, questa sarebbe il venerdì 15 del mese di nisan (secondo il calendario ebraico), nella mattina e nel pomeriggio della Pasqua ebraica; secondo l'ultimo, questa sarebbe il venerdì 14 del mese di nisan, cioè la vigilia della Pasqua ebraica. [114] Ancora nel II° secolo, le chiese cristiane dell'Asia si attenevano alla seconda data, le Chiese d'Occidente, e la Chiesa romana in particolare, avevano adottato la prima, che, nei fatti, ha prevalso. L'opposizione delle dottrine sembra aver corrisposto alla differenza tra due osservanze pasquali. [115

Loisy, Guignebert e Goguel avevano finito per concordare nel pensare che la data della vigilia della Pasqua ebraica fosse quella di una tradizione più antica, [116] in particolare perché la si trova già in un'epistola paolina [117] e non è in contrasto con le pratiche ebraiche. Va notato che la baraita del Talmud citata sopra precisa per due volte che Gesù è stato appeso la vigilia di Pasqua, secondo la data indicata nel Vangelo di Giovanni e adottata dalle chiese dell'Asia. [118] È in effetti improbabile che il processo di Gesù davanti al Sinedrio e la sua esecuzione abbiano avuto luogo il giorno della grande festa ebraica di Pasqua. [119] Eppure questo è ciò che dice il Vangelo di Marco, considerato oggi il più antico dei quattro: potrebbe risultare che tutto il racconto della Passione di Gesù in questo Vangelo non si basa su alcuna trasmissione di ricordi, ma che sia una pura raffigurazione.

Comunque l'opposizione tra le Chiese dell'Asia e quelle dell'Occidente su un punto così importante della dottrina cristiana non appare per nulla scioccante, se si considera che non si tratta del ricordo di un fatto storico, ma della rappresentazione di un credo. Non c'è più disaccordo da riconciliare, se si ammette che si tratta solo di illustrazioni diverse della fede.

Pensiamo quindi che la tradizione ebraica enunciata nel Talmud si sia limitata prima di tutto a dare un'altra interpretazione del credo nella morte del Figlio di Dio, così come sembrano averla concepita i primi cristiani. Ma ammettiamo che la tradizione ebraica abbia accettato o finito per accettare che Gesù sia stato crocifisso alla maniera romana per ordine di Pilato. Cosa vale l'obiezione che ne ricava Guignebert contro i «miticisti»: «Come mai», argomenta, «gli ebrei, in una posizione così buona per essere informati... non hanno avuto l'idea di tagliare corto ad ogni discussione proclamando del tutto chiaramente: egli non è esistito ?» [120

«Tutti i pretesi paralleli che si invocano», ha scritto dal suo canto Goguel, in merito alle concezioni di Paolo, «per sostenere la natura mitica della leggenda di Gesù sono in realtà inefficaci, per il fatto che, in tutti questi drammi redentivi, l'eroe appartiene a un passato favoloso, mentre è in un momento molto vicino e al quale si arriva direttamente che il dramma della croce si è svolto». [121]

Ora se ci ci schiera con le conclusioni alle quali hanno condotto le ricerche esposte sopra, per tutto il I° secolo il credo cristiano nella morte del Figlio di Dio, sacrificatosi per la salvezza degli uomini, non era espresso come la relazione di un fatto storico recente, avvenuto sotto l'imperatore Tiberio: essa non si situava nel tempo, e in queste condizioni, né l'osservazione di Goguel, né l'obiezione di Guignebert avevano motivo di applicarsi.

Ma quando, alla fine del I° secolo, Marco è stato indotto, dalla maniera in cui presentava il vangelo, a collocarne gli eventi in un'epoca determinata, la scelta gli era imposta da due considerazioni. Da una parte il credo cristiano dei primi tempi era dominato dall'attesa della fine del mondo e del ritorno di Gesù che avrebbe instaurato il regno di Dio; non si poteva dunque situare il dramma terreno che ne formava il prologo in un'epoca remota. [122] D'altra parte, e soprattutto, la storia religiosa del popolo d'Israele, come la Bibbia e la tradizione ebraica l'avevano stabilita, era ben nota agli ebrei, divenuti gli avversari della scissione cristiana: nessuno spazio vi era possibile per il dramma terreno di Gesù; era necessario metterlo al seguito. Fu, di conseguenza, situato in modo del tutto naturale al tempo stesso in cui era nato il suo culto, al tempo di Stefano e di Paolo, e la scelta, come magistrato romano, di Ponzio Pilato, procuratore dell'imperatore Tiberio, conveniva perfettamente. [123] Era dunque quarant'anni prima della guerra di Giudea, condotta da Tito, figlio dell'imperatore Vespasiano, e che portò nel 70 alla distruzione del Tempio e dello Stato ebraico, di cui tutti gli storici riconoscono, benché in misura variabile, l'importanza per il destino dell'ebraismo e del cristianesimo. Era settant'anni prima del periodo in cui fu composto il Vangelo di Marco. In modo che il tempo dell'imperatore Tiberio, recente rispetto alla antica storia ebraica, fosse, specialmente a causa della catastrofe palestinese sopraggiunta nel frattempo, un'epoca lontana per i lettori del Vangelo.

Quella constatazione risponde all'osservazione di Goguel: essa fornisce un inizio di risposta all'obiezione di Guignebert. È lui stesso che, — credendo alla realtà del «movimento di Gesù», — ritiene che «Giuseppe non l'abbia creduto degno di attenzione, perché non aveva tenuto, di fatto, che un posto insignificante nella storia ebraica del suo tempo». [124] Se il «movimento di Gesù» appariva tale ad uno storico così curioso di ogni cosa come Giuseppe, Guignebert come può scrivere, d'altra parte, che gli ebrei erano «in una posizione così buona per essere informati» ?

Ma gli ebrei in questione sono i dotti i cui insegnamenti hanno formato il Talmud, e Klausner, che ha minuziosamente esaminato tutte le allusioni del Talmud a Gesù, nota che gli autori di questa raccolta non si riferiscono che raramente ad eventi storici recenti: senza i libri apocrifi dei Maccabei e le opere greche di Giuseppe, se si fosse stati costretti a trarre dal Talmud le informazioni riguardanti la grande dinastia ebraica del II° secolo prima dell'era cristiana, non si sarebbe nemmeno conosciuto il nome di Giuda Maccabeo. [125] I dotti del Talmud sono quindi, per abitudine mentale, completamente indifferenti nei confronti della verità storica, nozione dovuta alla scienza moderna, che è derivata dall'umanesimo del XVI° secolo. Ecco perché, quando appare negli ambienti cristiani, verso i quali si accentua l'ostilità tra gli ebrei, l'affermazione dell'esecuzione, settant'anni prima, di un uomo di Galilea, che era il Messia e il Figlio di Dio, la reazione naturale dei dotti ebrei non dovrebbe essere di dire: egli non è esistito, ma: quest'uomo non era né il Figlio di Dio né il Messia. Perché, in effetti, negare che egli abbia potuto esistere? Il procuratore romano Ponzio Pilato, il cui ricordo era rimasto odioso nelle memorie ebraiche, aveva dovuto far morire molti altri; tra tutte quelle che erano state le sue vittime, piacque ai cristiani scegliere una di loro, di cui fecero un Messia e un Figlio di Dio, morto sulla croce. Quella raffigurazione giustificava l'ostilità che gli ebrei avevano sempre mostrato contro una concezione religiosa derivata da ambienti esseni ellenizzati di Siria; persino se si sono ricordati nel II° secolo — il che non è certo, — la concezione dei cristiani paolini del I°, essi non avevano alcun interesse ad opporre, su un piano di eguaglianza spirituale, il Signore Jahvé e il Signore Gesù Cristo; il loro monoteismo puro e intransigente non poteva che rallegrarsi nel sentire esprimere una concezione in cui denunciavano un'influenza del paganesimo. Le parole che Giustino presta all'ebreo Trifone, riportate più sopra, [126] sembrano riassumere il pensiero ebraico di questo tempo a riguardo di Gesù: «Voi vi siete fabbricati per voi stessi un certo Cristo».

Così si spiega molto naturalmente perché i dotti ebrei dell'inizio del II° secolo, — che conoscevano la storia degli inizi del cristianesimo nel I° secolo certamente meno bene dei critici del XX°, — non avevano avuto l'idea di una spiegazione «mitica» che la stragrande maggioranza di questi ultimi non hanno accettato.

Ma la polemica tra ebrei e cristiani, importante nel II° secolo, quando il cristianesimo non era ancora che un'eresia del giudaismo, doveva estendersi quando il cristianesimo ebbe guadagnato progressivamente l'immensità del mondo pagano, al punto che gli ebrei non apparvero più se non come i fedeli superstiti di una religione ormai superata e come i testimoni viventi dell'Antico Testamento, dove si trovavano le predizioni che annunciavano il trionfo della dottrina del Nuovo.

NOTE

[109] COUCHOUD, Jésus, dieu ou homme ? (Nouvelle Revue Française, 1° settembre 1939), pag. 412.

[110] GIUSTINO, Dialogo con Trifone 8:4. È con ragione che GUIGNEBERT, — nella sua recensione dell'opera di COUCHOUD, Le mystère de Jésus, apparsa nella Revue de l'Histoire des religions, 1926, pag. 235, — ha ritenuto che non va visto in questo passo «un testo che supponeva tra gli ebrei almeno il sospetto dell'inesistenza di Gesù..., ma... che significa semplicemente che il Cristo cristiano non è quello della tradizione ebraica». Sul pensiero ebraico a questo proposito, si veda di seguito.

[111] LUCIANO, La morte di Peregrino, paragrafo 13, il passo è forse interpolato (si veda Victor DAUMER, Lucien de Samosate et la secte chrétienne, Cahiers du Cercle Ernest Renan, n° 13, 1° trimestre 1957); ma è conforme all'opinione dei filosofi pagani.

[112] Si veda più sopra, capitolo 3, sezione 1, pag. 60-62.

[113] La menzione della crocifissione di Gesù e dell'allusione alla maledizione del Deuteronomio può essere rilevata in parecchi passi del Dialogo con Trifone (10:3; 23:1; 39:7; 89:2; XC:1; 96:1); manifesta la confusione, completamente realizzata nel II° secolo, tra i due significati, ebraico e romano, della parola crocifiggere.

[114] Questa discordanza comporterebbe un anno di differenza per datare la morte di Gesù. Si veda egualmente di seguito, pag. 215, nota 117.

[115] I «quartodecimani» dell'Asia continuavano a celebrare la Pasqua lo stesso giorno degli ebrei, la sera del 14 nisan (sera in cui cominciava il 15 nisan, secondo il calendario ebraico), mentre le chiese dell'Occidente avevano «trasferito la Pasqua, divenuta cristiana, alla domenica, giorno del sole, giorno del Signore, giorno del Cristo risorto» (LOISY, Les origines du Nouveau Testament, pag. 105 e 116).

[116] Si veda GUIGNEBERT, Jésus (1933), Gesù a Gerusalemme, Il problema cronologico, pag. 514-522; GOGUEL, Jésus (1950), pag. 164-169 e 183-190 (si veda pag. 190, nota 1, riportante il cambiamento d'opinione di Loisy).

[117] Si veda 1° Epistola ai Corinzi 5:7: «Il Cristo, nostra pasqua, è stato immolato» (frase citata in GUIGNEBERT, Jésus, pag. 519, e considerata da LOISY, in La naissance du christianisme, pag. 19, dovuta ad un discepolo mistico di Paolo). Il Vangelo di Giovanni fa morire Gesù verso la sera del 14 nisan, al momento in cui comincia il 15 nisan, e in cui viene immolato e consumato l'agnello della Pasqua ebraica, mentre (si veda più sopa, pag. 175-176) il Vangelo di Marco colloca la morte di Gesù alla 9° ora del 15 nisan, ovvero a mezzogiorno, alle ore 15, secondo la computazione del 20° secolo.

[118] Non abbiamo trovato traccia di questo confronto nelle opere di Loisy, di Guignebert, né di Goguel, che abbiamo potuto consultare. 

[119] Si veda GUIGNEBERT, Jésus (1933), op. cit., pag. 517, e LOISY, Origines... (1936), op. cit., pag. 25.

[120] GUIGNEBERT, Jésus, pag. 72.

[121] GOGUEL, Jésus, pag. 87, nota 2. Si vedano delle considerazioni simili, pag. 134: «Mentre, per gli adoratori di Mitra, di Attis, di Osiride o di Adone, la storia redentrice del loro eroe divino affondava in una antichità così favolosa da perdere ogni realtà, i cristiani avevano il sentimento che non era al principio, ma alla fine dei tempi che il loro Cristo fosse apparso. La sua vita e la sua persona si inserivano per loro nella realtà di una storia molto vicina».

[122] Si veda la citazione di GOGUEL, data nella nota precedente.

[123] Forse vi è motivo di tener conto, per la fissazione nel tempo della Passione di Gesù, di due predizioni famose di Giacobbe (Genesi 49:10) e di Daniele (9:24). Si veda ALFARIC, Jésus a-t-il existé ? conferenza del 1932, riprodotta nell'opera A l'école de la raison. Etudes sur les origines chrétiennes (1956), pag. 118-120.

[124] GUIGNEBERT, Jésus, pag. 22; si veda più sopra, pag. 42, nota 43.

[125] Si veda J. KLAUSNER, Jésus de Nazareth, op. cit., traduzione francese, pag. 16.

[126] pag. 212-213.

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