giovedì 4 ottobre 2018

Il Mito di Cristo — IL GESÙ CRISTIANO (II): Il Gesù dei Vangeli (“La Vera Natura del Gesù Sinottico”)


IL GESÙ CRISTIANO

II

IL GESÙ DEI VANGELI

(c) LA VERA NATURA DEL GESÙ SINOTTICO.

I vangeli sinottici lasciano aperta la questione se trattano di un uomo reso Dio oppure di un Dio reso uomo. Il resoconto precedente ha mostrato che il Gesù dei vangeli dev'essere compreso come un Dio reso uomo. La storia della sua vita, come presentata nei vangeli, è la resa nella Storia reale di un primitivo mito religioso. La maggior parte dei grandi eroi della leggenda, che passa per storica, sono simili Dei incarnati — come per esempio Giasone, Ercole, Achille, Teseo, Perseo, Sigfrido, ecc.; in quelli non abbiamo nient'altro che l'antico sole ariano — campione nella lotta contro le potenze delle tenebre e della morte. Il fatto che Dèi primitivi nella concezione di un'età successiva dovessero diventare uomini, senza, tuttavia, cessare di essere rivestiti dall'aureola della deità, è il processo comune a così tale misura, che il contrario, l'elevazione di uomini a Dèi, si trova di regola soltanto nelle fasi più antiche della civiltà umana, oppure in periodi di decadenza morale e sociale, quando servilismo ossequioso ed adulazione indegna trasformano un uomo prominente, o durante la sua vita oppure dopo la sua morte, in un essere divino. Perfino la cosiddetta “Storia Biblica” contiene numerosi esempi di questo Dio trasformato in uomini: i patriarchi, Giuseppe, Giosuè Sansone, Ester, Mardocheo, Aman, Simon Mago, il mago Elima, ecc., erano originariamente puri Dèi, e nella descrizione delle loro vite antichi miti semiti delle costellazioni e miti del sole ottennero una veste storica. Se non possiamo dubitare del fatto che Mosè, il fondatore dell'antica alleanza, fosse una figura fittizia, e che la sua “Storia” fu inventata dai sacerdoti di Gerusalemme solo per lo scopo di sanzionare e basare sulla sua autorità la legge dei sacerdoti che da lui prendono il nome; se per questo fine l'intera storia di Israele fu falsificata, e l'evento finale nello sviluppo religioso di Israele, ossia, la consegna della Legge, fu collocato all'inizio — perché non può ciò che era possibile con Mosè essere stato ripetuto nel caso di Gesù?  Perché anche il fondatore della nuova l'alleanza come personaggio storico non potrebbe appartenere interamente alla pia leggenda? Secondo Erodoto, [111] anche i greci
mutarono un antico dio fenicio, Ercole, per ragioni nazionali, in un eroe nativo, il figlio di Anfitrione, e lo cooptarono nella propria sfera di idee. Consideriamo quanto fosse forte l'impulso, specialmente tra Orientali, a fabbricare Storia a partire da esperienze ed idee puramente interiori. Trasferire contenuto storico nella sfera del mito, e concepire il mito come Storia, è per gli Orientali, come è mostrato dalle indagini di Winckler, Schrader, Jensen, ecc., talmente naturale che, per quanto riguarda i racconti dell'Antico Testamento, è quasi impossibile distinguere il loro vero nucleo “storico” dalla sua superficie quasi storica. Ed è soprattutto il pensiero semitico dell'antichità che si dimostra essere completamente incapace di distinguere una fantasia mitica da un evento reale! Si dice, infatti, troppo spesso che il Semita non produceva e possedeva nessuna mitologia sua propria, come affermò Renan; e senza alcun dubbio è possibile che essi non potevano conservare come tali e trattare figure ed eventi mitici da qualunque  provenienza li derivassero, ma tendevano sempre a tradurli in forma umana e ad associarli a luoghi e tempi definiti. “Il Dio dei semiti è associato ad un luogo e ad un oggetto, è un Genius loci”, dice Winckler. [112] Ma se mai un mito richiedesse di essere rivestito nella veste di un luogo e le idee metafisiche in esso contenute richiedessero di essere separate in una serie di eventi storici, si sarebbe trattato certamente del mito del Dio che si sacrificò per l'umanità, che soggiornò tra uomini in forma umana, soffrì con il resto degli uomini e morì, facendo ritorno, dopo aver vinto vittoriosamente i poteri oscuri della morte, al trono divino da dove partì.
Comprendiamo come il Dio Gesù, in seguito alla sua unificazione simbolica con l'uomo sacrificato in sua vece, potesse essere reso umano, e come su questa base potesse originarsi la fede nella resurrezione di Dio nella forma di un personaggio storico. Ma come avrebbe potuto accadere il processo inverso, come l'uomo Gesù avrebbe potuto essere elevato a un Dio, oppure come avrebbe mai potuto fondersi con un Dio già esistente dal nome simile nel redentore divino-umano — anzi, nella Deità — ciò è e rimane, come abbiamo già detto, un enigma psicologico. L'unico modo di risolverlo equivale a riferirsi ai “segreti imperscrutabili della Volontà divina”. In quale altro modo possiamo spiegare come “quel semplice figlio d'uomo, come è stato descritto” avrebbe potuto essere elevato così molto presto dopo la sua morte in quel “mistico essere di immaginazione”, in quel “Cristo celeste”, come lo si incontra nelle epistole di Paolo? Possono solo esserci stati al più sette anni, probabilmente tre anni, secondo una stima recente appena un anno, tra la morte di Gesù e l'inizio dell'attività di Paolo. [113] E si immagina che questo breve tempo sia bastato a trasformare l'uomo Gesù nel Cristo paolino! E non soltanto si immagina che Paolo sia stato capace di fare questo; si immagina che anche i discepoli immediati di Gesù, che sedettero con lui alla stessa tavola, mangiarono e bevvero con lui, sapendo allora chi fosse Gesù, si siano dichiarati d'accordo con questo, e abbiano pregato a colui avevano sempre visto pregare al “Padre”! Certamente nell'antichità la divinizzazione di un uomo non era nulla di straordinario: Platone e Aristotele, dopo la loro morte, vennero onorati dai loro allievi come esseri semi-divini; Demetrio Poliorcete, Alessandro, il Tolomeo, ecc., ebbero tributati loro onori divini anche durante la loro vita. Ma questo stile di deificazione è completamente diverso da quello che si immagina sia stato assegnato a Gesù. È semplicemente un'espressione di gratitudine e di attaccamento personale, di sentimento travolgente e adulazione servile, e non ricavò mai alcuna formulazione teologica dettagliata. Non era la base per nessuna nuova religione. Schopenhauer ha sottolineato molto giustamente la contraddizione tra l'apoteosi di Paolo di Gesù e l'abituale esperienza storica, e ha osservato che da questa considerazione si potrebbe derivare un argomento contro l'autenticità delle epistole paoline. [114] Infatti, Holtzmann, con riferimento a questa affermazione del filosofo, considera la domanda “se la figura di Gesù che raggiunse dimensioni così colossali nell'avvistamento di Paolo si possa usare per non stabilire la distanza tra i due come quella di pochi anni soltanto, se non c'era nessun contatto temporale immediato”, come la domanda “più degna di discussione, che i critici della Scuola Olandese hanno proposto in considerazione”. [115] Secondo l'opinione prevalente dei teologi critici, come presentata anche da Pfleiderer, le apparizioni del “Signore”, che dopo la morte di Gesù furono viste dai discepoli che erano fuggiti da Gerusalemme, le “estatiche esperienze visionarie, in cui pensavano di aver visto vivo e sollevato fino alla gloria celeste il loro Maestro crocifisso”, furono l'origine della loro fede nella resurrezione, e di conseguenza della loro fede nel ruolo divino di Gesù come Redentore. [116] Quindi si immagina che stati patologici di uomini sovraeccitati e donne isteriche formino le “fondamenta storiche” per la genesi della religione cristiana! E con tali opinioni si ritengono in sé giustificati a guardare dall'alto in basso con supremo disprezzo il razionalista dell'Illuminismo settecentesco, e gloriandosi della profondità raggiunta dal loro avvistamento storico-religioso! Ma se ammettiamo davvero, con la teologia storica, questa spiegazione più che dubbia, che degrada il cristianesimo nel prodotto meramente casuale dell'eccitazione mentale, sorge spontanea l'ulteriore domanda di come la nuova religione della piccola comunità del Messia a Gerusalemme fosse stata in grado di diffondersi in giro con una rapidità talmente sbalorditiva che, perfino così presto come i primi due decenni dopo la morte di Gesù, incontriamo comunità cristiane non solo su tutto il Medioriente, ma anche nelle isole del Mediterraneo, nelle città costiere della Grecia, perfino in Italia, a Pozzuoli e a Roma; e questo in un tempo quando ancora non era stata scritta neppure una riga sul Rabbì ebreo. [117] Anche il teologo Schweitzer è obbligato a confessare della teologia storica che “finché non abbia spiegato in qualche modo come fosse possibile che, sotto l'influenza della setta ebraica del Messia, il cristianesimo popolare greco e romano apparisse contemporaneamente da tutte le parti, essa deve concedere un diritto formale di esistenza ad ogni ipotesi, anche alla più stravagante, che cerca di approcciare e risolvere questo problema”. [118]
Se in tutto questo viene dimostrato che sia possibile, o perfino probabile, che nel Gesù dei vangeli noi non abbiamo un uomo deificato, ma piuttosto un Dio umanizzato, non rimane che trovare una risposta alla domanda riguardo quali ragioni esterne condussero alla trasposizione del Dio Gesù nel suolo della realtà storica e alla riduzione del fatto eterno o sovra-storico della sua morte redentrice e della sua resurrezione in una serie di eventi temporali.
A questa domanda si risponde da subito se prestiamo la nostra attenzione ai motivi presenti nelle più antiche comunità cristiane a noi note, i quali motivi compaiono negli Atti e nelle epistole paoline. Da quelle fonti sappiamo in quale fase iniziale si originò un'opposizione tra il cristianesimo gentile di Paolo e il giudeo-cristianesimo, la cui sede principale era a Gerusalemme, e che per questa ragione, come possiamo comprendere, rivendicò per sé un'autorità speciale. Finché il precedente persecutore della comunità cristiana, sulla cui conversione non potevano rallegrarsi fin troppo all'inizio, [119] non ostacolava altri e sembrava giustificare la sua attività apostolica con il suo successo tra i Gentili, lo lasciarono andare per la sua strada. Ma quando Paolo mostrò la sua indipendenza dalla sua riserva di fronte ai “Fratelli” a Gerusalemme, e cominciò ad attrarre le simpatie di quelli a Gerusalemme con la sua abrogazione della Legge mosaica, allora cominciarono a trattarlo con sospetto, a porre ogni ostacolo sulla via della sua attività missionaria, e a tentare, guidati dal zelante Giacomo, di riportare le comunità paoline sotto la loro stessa influenza. Quindi, cercando un titolo per la pratica della vocazione apostolica, lo trovarono in questo: chiunque volesse rendere testimonianza a Cristo deve lui stesso averlo visto dopo la sua resurrezione.
Ma Paolo avrebbe potuto obiettare molto giustamente che anche a lui era apparso il Gesù trasfigurato. [120] Allora essi fecero consistere in questo la giustificazione per la vocazione apostolica, che un apostolo deve non solo aver visto Cristo risorto, ma deve anche aver mangiato e bevuto con lui. [121] Questo in effetti non era applicabile al caso di Giuda, che in Atti 1:16 è nondimeno annoverato tra gli
apostoli; e che fosse stato un testimone della resurrezione di Gesù non fu neanche asserito a proposito di Mattia, il quale venne scelto al posto del precedente. Tanto meno non sembra aver soddisfatto anche la condizione che si fece avanzare nello sviluppo dell'idea originale, ossia, che un apostolo di Gesù dovrebbe essere stato personalmente a conoscenza del Gesù vivente, che avrebbe dovuto appartenere ai “Primi Apostoli” ed essere stato presente come testimone oculare e ascoltatore delle parole di Gesù dal tempo del battesimo di Giovanni fino alla Resurrezione e alla Ascensione. [122] Ora Seufert ha dimostrato che il passo degli Atti menzionato è semplicemente una costruzione, un trasferimento di condizioni successive ad un'epoca precedente; e che il suo intero punto è quello di paralizzare la missione di Paolo ai gentili e  stabilire il titolo dei giudeo-cristiani di Gerusalemme come più elevato di quello dei suoi seguaci.
Se con questo scopo, come ha mostrato Seufert, si originò l'organizzazione dell'Apostolato dei Dodici — un'organizzazione che non possiede nessuna base o fondamento soddisfacente nei vangeli o nelle epistole paoline — allora è anche da questo scopo che possiamo individuare la causa perchè il Dio Gesù diventasse un fondatore umano dell'apostolato. “Un apostolo doveva essere solo uno che che avesse visto e ascoltato Gesù stesso, oppure che avesse imparato da coloro che erano stati i suoi immediati discepoli. Si originò una letteratura dell'ebraismo che aveva in una fase molto antica il più stretto interesse nella determinazione storica della vita di Gesù: e questa letteratura formò lo strato più basso su cui sono basati i nostri vangeli canonici”. [123] L'ebraismo in generale, e la sua espressione a Gerusalemme in particolare, aveva bisogno di un titolo legale su cui basare la sua posizione di influenza in contrasto al cristianesimo gentile di Paolo; e così i suoi fondatori furono obbligati ad essere stati compagni di Gesù in persona, e ad essere stati scelti da lui per la loro vocazione. Per questa ragione Gesù non avrebbe potuto rimanere un semplice Dio, ma doveva essere trascinato giù in una realtà storica. Seufert pensa che far risalire l'Apostolato dei Dodici ad un Gesù “storico”, e l'instaurazione della necessità per un apostolo di Gesù di essere stato una compagno del suo peregrinare, ebbero luogo durante la vita di Paolo nel sesto, o forse perfino nel quinto decennio. [124] In questo egli presuppone l'esistenza di un Gesù storico, mentre le stesse epistole paoline non contengono nulla che conduca a credere che la trasformazione in Storia della fede di Gesù accadde durante la vita di Paolo. Nel cristianesimo antico esattamente lo stesso episodio capitò qui, sul suolo di Palestina e a Gerusalemme, come capitò successivamente nella Roma eterna”, quando il vescovo di questa città, pur di stabilire il suo diritto di supremazia nella Chiesa, si proclamò il diretto successore dell'Apostolo Pietro, e fece in modo che il “possesso delle chiavi” fosse stato concesso a quest'ultimo da parte dello stesso Gesù. [125]
Cosìicchè vi furono dopotutto ragioni molto mondane e molto pragmatiche a dare l'impulso alla trasformazione del Dio Gesù in un individuo storico, e alla collocazione del punto centrale della sua azione, la svolta nella sua vita, la sua morte e la sua resurrezione, che da sole influenzarono considerazioni religiose, nella capitale dello Stato ebraico, la “Città di Dio”, la Città Santa di Davide, degli “antenati” del Messia, a cui ora gli ebrei associavano la salvezza religiosa. Ma come avrebbe potuto questa finzione avere successo e mantenere il suo fondamento, così da essere stata capace di diventare una questione assolutamente vitale per la nuova religione, un dogma indistruttibile, un “fatto” auto-evidente, al punto che la sua stessa messa in discussione sembra una perfetta assurdità ai teologi critici del nostro tempo?
Prima di poter rispondere a questa domanda, dobbiamo volgere la nostra attenzione al movimento gnostico e alle sue relazioni con la Chiesa nascente.

NOTE

[111] 2:44.


[112] “Gesch. Israels”, 2. pag. 1 seq.


[113] Holtzmann, “Zum Thema ‘Jesus and Paulus’” (“Prot. Monatsheft”, 4, 1900, pag. 465).

[114] Parerga, 2, 180.


[115] Neutest. Theol. 2 pag. 4. Si veda E. H. Grützmacher : “Ist das liberale Christusbild modern ? Bibl. Zeit-und Streitfragen”, pag. 39 seq.

[116] Pfleiderer, “Entstehung d. Chr.”, pag. 108 seq.


[117] Si veda Stendel, op. cit., pag. 22.


[118] “Von Reimarus bis Wrede”, pag. 313.


[119] Galati 1:24.


[120] 1 Corinzi 2:1; 2 Corinzi 19:9.


[121] Atti 1:3, 10:41.


[122] Atti 1:21 seq.


[123] Seufert, “Der Ursprung und die Bedeutung des Apostolates in der christlichen Kirche der ersten Jahrhunderte”, 1887, pag. 143. Si veda anche il mio “Petruslegende”, in cui si illustra la natura non-storica dei discepoli, pag. 50 seq.


[124] Op. cit., pag. 42.

[125] Si veda il mio lavoro “Die Petruslegende”.

Nessun commento: