domenica 6 maggio 2018

Prosper Alfaric: «Gesù è esistito?»


Il Dio di Coincidenza

Può qualcuno negare che

Una cosa dopo l'altra

In sequenza e logica

Mai vista prima

Non può essere che la

Interferenza di un Dio

Determinata a provare che

Ognuno che pretende

Di conoscere ora

Una cospirazione è

Demente?


(Kent Murphy)

Modo di scrivere della prudenza. — A: Ma se tutti sapessero questo, allora sarebbe dannoso per i più. Tu stesso dici che queste opinioni sono pericolose per quelli che si trovano in pericolo, e tuttavia le comunichi pubblicamente? B: Io scrivo in modo che né il popolino, né i populi, né i partiti d'ogni sorta possano leggermi. Per cui queste opinioni non saranno mai pubbliche. A: Allora come scrivi? B: In modo né utile né piacevole — per i suddetti tre.
(Friedrich Nietzsche, Il viandante e la sua ombra, aforisma 71)
 
La dottrina è dunque segreta.
(Celso, Contro i cristiani, in Origene, Contra Celsum, 1:7)
I più antichi visionari del Cristo non riuscivano a dormire. Visioni, sogni e rivelazioni continue si insediavano nella loro mente, una apocalittica visione di immagini simili a tavole grandiose di enigmatici arazzi. Mondi incredibilmente trascendenti, tra la Terra e la Luna, si succedevano sotto i loro occhi psichici, totalmente fuori dal loro controllo. Un brusio di voci dall'aldilà riempirono lo sfondo della loro immaginazione, punteggiata da proclami divini che li chiamavano uno a uno per nome. Quei proclami gridavano con un'urgenza terribile, di origine oscura.

“Così parla il Primo e l'Ultimo, che era morto ed è tornato alla vita”.

Poi di colpo: tenebre e oscurità. Le parole echeggiarono, cambiarono di senso mentre svanivano nel silenzio: “...che era morto ed è tornato alla vita”.

Un angelo discendeva dai cieli inferiori nei cieli inferiori, oltre la Luna, ne era eclissato.

Non lo perdevano di vista, fusi com'erano in un unico grande occhio che vedeva nell'abisso del mondo sublunare. L'angelo sapeva — si chiedevano — che in quella notte gli “arconti di questo eone” lo stavano seguendo? Non perdiamolo di vista — dissero. Non perdiamolo. Ah, eccolo dall'altra parte. In pieno territorio arcontico. Nell'aria. L'angelo si voltò, e nella sua visione capirono che era venuto per loro, per il loro bene, secondo un piano stabilito fin dalla creazione del mondo e da Dio stesso. L'angelo si voltò, alzando lo sguardo verso la notte e urlando nel silenzio delle tenebre in cerca di un aiuto che non venne mai. Crocifisso nella morsa dei demoni. La voce dei visionari del Cristo cominciò allora a gridare. Poi altre voci — di interi cori celesti — le si unirono e divennero un'orribile unità blaterante, un chiacchericcio di voci morte. Tutti coloro che l'avevano “vista”, e solo loro, piangevano la morte del loro arcangelo rivelatore.

“Questo è il Figlio mio prediletto, in lui mi sono compiaciuto”, proclamò una voce dal cielo.
Ma non sembrava far parte del loro delirio. Le parole parevano nascere dall'alto, perchè la loro enunciazione serviva a disturbare il loro dolore per la morte dell'arcangelo e a liberarli dal suo terribile peso.
Stavano oltrepassando livelli trascendenti di realtà a un bel ritmo. Concentratevi, dissero alle loro menti, che nella luce crescente nel cuore stesso dell'orrore cominciavano a vagare sempre più veloci. Alla fine raggiunsero il culmine dell'estasi. Lo spirito divino trapelò su di loro, aggirandosi oltre loro e dentro loro, completamente invadendoli. 

“Per questo Dio l'ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra”.

E di colpo i visionari si inginocchiarono, nel buio.

~ ~ ~ ~ ~ ~

Un'intera generazione passò. Nel frattempo, un tempio famoso venne distrutto.

~ ~ ~ ~ ~ ~

Alcuni seguaci di quei primi visionari del Cristo li trovò il governatore romano della Bitinia, Plinio il Giovane, che poco prima aveva chiesto all'imperatore in persona cosa fare di loro. Le torture di chi mai aveva rinnegato il Cristo erano finite, e il Romano scoprì i loro cadaveri, con le loro vesti lacere e la loro pelle lacerata e squartata in grottesco disordine. Stavolta non c'era stata nessuna pietà per loro.

Vita vuota, vuota morte. È stata una morte in armonia con la loro vita, pensò Plinio il Giovane, ma non espresse quel pensiero nella sua missiva all'imperatore, nonostante ebbe cura di farlo trapelare, tra le righe. L'idea che si volesse perseguitare fanatici simili era per lui inverosimile, per non dire insensata. Sì, insensata. Tuttavia, la ragione non era una loro presunta attività di sedizione, nonostante sembrava che il Cristo che quei pazzi adoravano, “quasi deo” — “come se fosse un dio” —, fosse stato torturato fino alla morte, e a una morte di croce, “sotto Ponzio Pilato, governatore della Giudea, almeno una generazione prima. O almeno questo solo gli investigatori erano riusciti a farsi dire, di “sensato”, dagli stessi cristiani sotto tortura.

Ulteriori indagini rivelarono che quei rumori si riconducevano ad una storia che veniva fatta circolare tra i cristiani e soltanto per i cristiani, in versioni sempre più diverse tra loro, e sempre più inverosimili, ma tutte riconducibili più o meno alla stessa trama di fondo.
Ora si cercava di sapere qualcosa di più dell'origine di quella storia, probabilmente una volgare propaganda cristiana. Ma nei luoghi in cui frugavano, fosse stata perfino la stessa Giudea, non l'avrebbero mai trovata.



Di seguito offro la mia libera traduzione di una conferenza fatta dal miticista francese Prosper Alfaric nel 1932, la cui pubblicazione gli valse addirittura la scomunica dalla Chiesa cattolica. 


Gesù è esistito? [1]


L'argomento che è oggetto di questa conferenza potrebbe sembrarvi strano. Forse potreste perfino pensare che sia uno di quelli argomenti che non dovrebbero neppure sollevarsi.
 Gesù è esistito? Il fatto pare totalmente evidente! Ci sono cento generazioni di credenti ad attestarlo! Se ne si dubita, di cosa saremo sicuri?
Anch'io ci ho riflettuto a lungo. Quando ho sentito parlare per la prima volta di persone che sostenevano che Gesù poteva solo aver vissuto nell'immaginazione dei credenti, non ho visto che una di quelle stravaganze alle quali talvolta l'abuso della critica può condurre. L'idea mi sembrava folle. Quando l'ho studiata più da vicino, non l'ho trovata più così assurda. Dovevo convenire che offriva qualche parvenza di verità. Presto giunsi a riconoscere che poteva difendersi. Poi mi è sembrato che offrisse molta più verosimiglianza della tesi contraria.
Vorrei spiegare le ragioni che hanno determinato questo cambiamento di attitudine. Sono complesse come l'argomento in discussione. Consistono, per meglio dire, in una massa di probabilità. In una tale materia, non si può pretendere una certezza matematica. Sussistono troppe incognite. Restiamo inevitabilmente nel dominio delle probabilità. Ma ciò che è, per me, molto probabile, senza dubbio non lo apparirà agli altri. L'idea di un Gesù puramente mitico urta troppo violentemente la tradizione ricevuta, è contraria a troppe abitudini, a troppi sentimenti, a troppi interessi, per incontrare un'accoglienza uniforme. Tutti gli spiriti non possono mostrare a suo riguardo la stessa reazione. Vi sono, tuttavia, una serie di punti sui quali tutti devono essere più o meno d'accordo. Alcune constatazioni essenziali sono necessarie. Queste sono quelle che bisognerà identificare per prime.

A — Analogie mitiche

Una considerazione di preambolo attenuerà di molto l'apparente stranezza del problema di cui ci stiamo occupando. La domanda che si pone per il cristianesimo a proposito di Gesù si presenta in una forma simile per molte altre religioni, per tutte quelle che rivendicano un dio-uomo oppure un dio fatto uomo come lui. La si ritrova al centro di tutti i culti misterici che offrono con lui così numerose e strane affinità. Per tutti la risposta è facile al giorno d'oggi, perché noi viviamo fuori dalla loro influenza. Sarebbe stato meno così in passato. Essa avrebbe suscitato l'animosità dei credenti. Per i più liberi tra loro, sarebbe sembrata scioccante e scandalosa.
I fedeli di Osiride non dubitavano che questo figlio di Ra fosse vissuto agli albori dell'umanità, nella regione del Delta. Fu a lui che attribuirono l'origine delle arti, delle industrie e della civiltà di cui godevano. Conoscevano i viaggi effettuati da lui per l'adempimento della sua missione educatrice, gli ostacoli che avevano seminato sui suoi passi le potenze malvagie, le lotte che dovevano essere condotte da lui per la causa del bene. Avevano una tradizione prodigiosamente antica di molti dettagli commoventi sul tradimento che era stato ordito contro di lui, sulla sua passione e sulla sua morte, sui rituali funebri che gli aveva fatto sua sorella Iside, e sulla magia sacra che gli aveva permesso di donargli una nuova vita. Nessun altro capitolo del passato dell'Egitto avrebbe sembrato loro più sicuro, o meglio conosciuto.
I seguaci di Attis non erano meno informati sulla breve carriera di questo padre divino. Anch'essi avevano sentito raccontare dagli Antichi, da tempo immemorabile, diversi episodi della sua vita drammatica. Anche loro custodivano un pio ricordo delle peregrinazioni, attraverso le montagne della Frigia, che gli aveva imposto la cura del gregge affidato alle sue cure. Si estasiavano al ricordo dell'amore idilliaco tra lui e Cibele e dell'inquieta sorveglianza di cui la dea gelosa aveva circondato il giovane dio. Ogni anno recavano un grande lutto, le cui scene assalivano la loro immaginazione. Percepivano ancora tutti i suoi echi. Poi il loro dolore si mutava in una gioia mistica quando ricordavano come l'amore avesse trionfato sulla morte, come il giovane dio fosse stato riportato alla vita. Nessun altro dramma suscitava in loro così tante emozioni. Nessuno, ai loro occhi, aveva così tanta realtà.
I discepoli di Mitra possedevano un dramma molto circostanziato delle azioni compiute dal loro maestro. Ci viene detto di un certo Eubulo che espose la sua storia “in molti libri”. [2] Questo vangelo di un altro tipo era più esteso di tutti i nostri, e deve avere un contenuto simile. Numerosi testi e monumenti figurativi alludono alla nascita di questo figlio del Sole, alla sua laboriosa infanzia, alla sua incessante lotta contro lo spirito del male, ai compagni reclutati da lui, al suo ultimo pasto preso nella loro società, alla sua morte, alla sua ascensione trionfale. Verso la metà del secondo secolo e verso l'inizio del terzo secolo, San Giustino e Tertulliano costatarono che la sua vita, come quella di altri dèi salvatori, rassomigliava per molti aspetti a quella di Gesù. [3]
Fino al tempo di Costantino, e persino di Teodosio, Mitra fece una seria concorrenza a Cristo, e ci si domandò per lungo tempo, secondo un'osservazione di Renan, se non sarebbe stato lui che avrebbe finito per prevalere.
In tal caso, il suo vangelo sarebbe stato autorevole. Non sarebbe sembrato più lecito contestare le sue affermazioni di quanto non lo sembra oggi mettere in dubbio la testimonianza di Marco o quella di Matteo. I critici più audaci si sarebbero limitati a interpretarlo in un senso evemerista. Avrebbero mantenuto tutto ciò che a loro sarebbe parso naturale, limitandosi a scartare i fatti miracolosi. Senza credere alla figliolanza divina di Mitra, avrebbero visto in lui un uomo eminente, a cui le sue azioni avevano valso l'apoteosi.
Là è dove siamo riguardo a Gesù. Tutti gli altri figli di Dio che veneravano le religioni misteriche sono state relegate nella regione dei miti, dal momento che i loro fedeli sono scomparsi. Non sarebbe così perché egli conta ancora innumerevoli adoratori e la vitalità del suo culto si impone sugli stessi non credenti?
Il problema, visto da questa prospettiva, non offre più la stessa stranezza. La soluzione mitica, che sembrava talmente stravagante, appare molto più semplice e ben più naturale.
Questo non è sufficiente per imporla. Il confronto non equivale a una ragione. In materia storica, i testi soltanto importano. Solo loro forniscono la prova decisiva a favore o contro una tradizione.
Esaminiamo quelli che si invocano a proposito di Gesù. Ma analizziamoli con tanta libertà come se si trattassero di documenti riguardanti Attis, Osiride oppure Mitra.

B — carenza di testimonianze profane

Una testimonianza conta solo se il suo autore conosce la verità e se sia disposto a dirla; in altri termini, se non è né errata né fuorviante. Ora, non ci si può rendersene conto a meno che non si sappia a quale epoca, a quale ambiente essa appartenga, che cosa sia e che cosa valga.
Queste regole elementari della critica storica si impongono in ogni campo, sia che si tratti di poesie della Grande Guerra oppure dei poemi omerici, di Apollo o di Cristo.
Quali sono i testi che servono a stabilire che Gesù è realmente esistito? Si ripartiscono in due serie. Alcuni sono cristiani, altri provengono da ambienti chiusi al Vangelo.
In linea di principio, le testimonianze dei non credenti presentano un interesse particolare precisamente perché non sono influenzate dalla fede. Ma appena le si osserva da vicino, si constata che si riducono praticamente a nulla.

a — Le testimonianze ebraiche

Tra loro, le più preziose sarebbero quelle degli ebrei palestinesi.

Flavio Giuseppe

Ce n'è una che viene spesso invocata, quella di Flavio Giuseppe, nato a Gerusalemme intorno all'anno 38 E.C., che prese parte alla guerra contro i Romani nel 67, poi passò al loro campo e pubblicò per loro, verso il 77, la storia di questa memorabile lotta, poi, nel 93, un lungo lavoro sulle Antichità giudaiche. In quest'ultimo lavoro, riguardante il governo di Ponzio Pilato, leggiamo il seguente passo (18, 3, 3):  “Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità, ed attirò a sé molti Giudei, e anche molti dei greci. Questi era il Cristo. E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunziato i divini profeti queste e migliaia d’altre meraviglie riguardo a lui. Ancor oggi non è venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati Cristiani”.

Questo testo sarebbe decisivo se fosse autentico. Ma tutto dimostra che deve essere considerato apocrifo.
Non si leggeva nella più antica edizione di Flavio Giuseppe che potremmo raggiungere, in quella che possedeva Origene, all'inizio del terzo secolo. Secondo questo autore, lo storico ebreo non credeva che Gesù fosse il Cristo. [4] Ora, abbiamo appena visto che il brano in questione afferma espressamente: Questi era il Cristo.
Anche se la testimonianza dello studioso alessandrino non fosse stata là a provare che Flavio Giuseppe non dicesse nulla del genere, la critica più elementare ci impedirebbe di attribuire una tale affermazione. Se l'autore delle Antichità avesse detto che Gesù “era il Cristo”, se lo avesse chiamato il maestro di uomini che accolgono con piacere la verità, se lo avesse presentato come risorto dopo tre giorni, sarebbe stato un cristiano. Ora egli è molto legato al giudaismo farisaico, non solo nei suoi scritti precedenti, ma in quelli che scrisse in seguito, nella sua autobiografia e nei due libri Contro Apione.
È stato supposto, è vero, che il brano, autentico nella sostanza, sarebbe stato interpolato da un autore cristiano. [5] Ma l'ipotesi è puramente gratuita, e le ricostruzioni che ha ispirato dal testo primitivo si rivelano tanto divergenti quanto arbitrarie.
Una semplice osservazione basta, inoltre, per risolvere il dibattito. Il paragrafo dedicato a Gesù rompe la sequenza naturale dell'esposizione delle Antichità. Flavio Giuseppe parlò prima delle calamità che colpirono i suoi compatrioti sotto Pilato. Subito dopo prende questo leitmotiv: “Nello stesso periodo un altro orribile evento gettò lo scompiglio tra i Giudei”. Le osservazioni su Cristo sono di un altro ordine. Non si adattano a quanto vi precede, né a ciò che segue. Al contrario, se le eliminiamo, i due pezzi che separano si uniscono e sono molto coerenti. Ciò significa che sono certamente interpolate.
C'è anche un secondo passo delle Antichità, che viene letto all'inizio dell'ultimo libro (20, 9, 1). Dopo la morte del governatore Felice, è detto, prima dell'arrivo del suo successore Albino, il sommo sacerdote del tempo, Anano, “convocò i giudici del Sinedrio e introdusse davanti a loro Giacomo, fratello di Gesù, detto Cristo, e certi altri, ...e li consegnò perché fossero lapidati”.
Anche qui, l'interpolazione appare ovvia. Un autore estraneo al cristianesimo non avrebbe detto così di Gesù, senza spiegazione o alcuna riserva, che egli fosse chiamato “il Cristo”.
Origene conosceva un altro testo di Flavio Giuseppe che era strettamente legato a questo. Leggeva che la rovina di Gerusalemme era la giusta punizione per l'omicidio di Giacomo, soprannominato Il Giusto. [6] È chiaro che questo non potrebbe essere scritto da un ebreo. I due testi riguardanti il fratello di Gesù hanno la stessa origine. Provengono da una interpolazione cristiana.
Molto è stato detto negli ultimi tempi su una storia piuttosto lunga, letta in un altro degli scritti di Flavio Giuseppe, in una versione slava della sua Guerra Giudaica. [7] Gesù non è nominato, né qualificato come Cristo. Ma la sua vita è ricordata con dettagli che tendono a dimostrare che lui era più di un uomo, e anche più di un angelo. Compie, dice il narratore, opere divine, in particolare cure meravigliose, dalla sola virtù della sua parola. Avrebbe potuto infrangere, con una parola, il potere romano. Ma lui non voleva. Pilato, a cui gli ebrei lo avevano denunciato, riconobbe la sua perfetta innocenza. Per interesse, tuttavia, lo abbandonò a loro e loro lo crocifissero. 
Questo testo, come quello delle Antichità, se fosse di Flavio Giuseppe, avrebbe indubbiamente la massima importanza. Ma non c'è motivo di credere che provenga da lui. La versione slava della Guerra Giudaica nella quale si legge è molto tarda e manca di garanzie serie. Fu realizzata in Lituania tra il 1250 e il 1260. È un manoscritto greco che serviva come originale. Ma nessuno di quelli che sono arrivati fino a noi contiene questo passo. Non si può dire che sia stato deliberatamente omesso dai copisti cristiani. Non contiene dettagli offensivi per Gesù che potrebbero giustificare questa omissione. Esso riporta, al contrario, molte caratteristiche complementari che avrebbero dovuto imporre il suo mantenimento. Inoltre, separa inavvertitamente due episodi che sono strettamente collegati nel testo greco e mostrano quanto Pilato sia stato provocatorio nel mondo ebraico. Presenta anche tutti i tratti di un'interpolazione.
Nel suo inizio, inoltre, ha sfruttato visibilmente il primo testo delle Antichità di cui abbiamo constatato la natura apocrifa. Il falsario si tradisce imitando un altro falso Giuseppe.
Due passi molto più brevi della stessa versione slava parlano ancora di Cristo. Si cita un'iscrizione posta all'ingresso del santuario di Gerusalemme: “Gesù, re, non regnò, ma fu crocifisso dagli ebrei, perché predisse la distruzione della città e la devastazione del Tempio”. [8] L'altro ricorda lo squarciamento del velo che si verificò durante la crocifissione, e la resurrezione che ne seguì. [9] Ma questi due testi dipendono, senza dubbio, da quello molto più grande appena studiato. Sono quindi, al pari di esso, apocrifi. Al pari di esso, inoltre, mancano nei manoscritti greci. Al pari di esso, tradiscono l'ispirazione del Vangelo.
In breve, in tutte le opere di Flavio Giuseppe, non troviamo un paragrafo, non una frase, non una parola autentica riguardante Gesù. Tutto ciò che si può dire a riguardo è stato interpolato dai cristiani.
Niente è più naturale. È attraverso di loro che lo storico ebreo è sopravvissuto e che i suoi manoscritti ci hanno raggiunto. Considerato un rinnegato e sistematicamente ignorato dai suoi correligionari perché li aveva abbandonati nel bel mezzo di una lotta e si era schierato con i vincitori, ha trovato il miglior benvenuto tra la gente della Chiesa, perché li aveva riforniti di molti dettagli utili sull'ambiente da cui è emerso il cristianesimo. Non sorprende che l'uno o l'altro di loro, scioccato di non trovare nulla a proposito di Gesù, gli abbia fatto dire quello che, ai suoi occhi, avrebbe dovuto dire.
Queste stesse aggiunte mostrano quanto innaturale sia il suo silenzio dal punto di vista cristiano. Flavio Giuseppe è meravigliosamente ben informato su tutto ciò che concerne gli ebrei palestinesi. Ci dà un sacco di informazioni accurate e apprese per esperienza diretta. Se i resoconti del vangelo fossero accurati, almeno nella sostanza, non capiremmo perché un tale uomo non avrebbe saputo nulla di loro, e che, conoscendoli, non ne avrebbe parlato.
Senza dubbio, non ha detto tutto e non ha potuto dire tutto. È stato notato che non fa alcuna menzione di un personaggio come Hillel. Andiamo più avanti e vediamo che omette deliberatamente tutto ciò che riguarda le scuole rabbiniche. Ma è semplicemente perché non scrive per gli ebrei, i quali soltanto erano interessati a dettagli di questo tipo. È ai lettori greco-romani che egli si rivolge. Così rivela con insistenza tutto ciò che riguarda i rapporti del giudaismo con l'ellenismo e con il potere imperiale. Parla diverse volte di vari agitatori che entrarono in conflitto con i rappresentanti dei Cesari. [10] Egli insiste particolarmente su coloro che ebbero conflitti con Pilato. [11] Perché non parla, all'occorrenza, di Gesù? L'opportunità sarebbe stata del tutto naturale. La tradizione cristiana gli avrebbe permesso di presentare il procuratore in una luce più favorevole o di mostrarlo in accordo stretto con il Sinedrio. Non approfittandone, mostra di non saperne.
Si obietta che egli non dice nulla nemmeno del cristianesimo, eppure non poteva ignorarlo. Ma questo ultimo punto è molto discutibile. I documenti che abbiamo sulla Chiesa palestinese sono tardi e leggendari. Se Flavio Giuseppe non ne parla, è apparentemente perché non si è imposta alla sua attenzione e perché, nella misura in cui è apparsa sulla sua strada, si è confusa con il gruppo dei farisei o con quello degli esseni.

Giusto di Tiberiade

Dopotutto, il silenzio da lui tenuto su Gesù potrebbe essere il risultato del puro caso. Soltanto, si scopre che uno dei suoi compatrioti, un certo Giusto di Tiberiade, che visse nel suo tempo e che scrisse poco dopo di lui, per combatterlo, un nuovo racconto della guerra degli ebrei e una nuova epitome della loro storia, rimase ugualmente in silenzio sullo stesso argomento. Le sue opere non sono arrivate fino a noi. Ma il patriarca Fozio le rilesse ancora nel nono secolo. Ha lasciato alcune brevi considerazioni su di loro in una raccolta di note bibliografiche. [12] Ora leggiamo, tra le altre cose, che “Giusto non menziona la venuta di Cristo, gli eventi della sua vita, o i miracoli da lui compiuti”. Fozio non trova altra spiegazione per un silenzio così sconvolgente di quello dei “pregiudizi ebraici”. C'è un'altra spiegazione molto più naturale. Giusto si trova nella stessa situazione di Flavio Giuseppe. Se non ha detto nulla su Gesù, è perché non sapeva nulla di lui.

Il Talmud

Dopo ciò, cosa rimane della tradizione ebraica? Le uniche testimonianze che si potrebbero ancora invocare sono quelle fornite dal Talmud. [13] Ma queste sono troppo tarde e troppo incoerenti per essere usate come documenti storici. Si limitano a poche frasi molto vaghe e confuse.
Tutti i dettagli in esso appaiono come caricature del Vangelo. Tendono a dimostrare che il presunto figlio di Dio è un uomo di origine impura, nato da un'ebrea e da un soldato romano chiamato Panthera, che i miracoli che gli vengono riferiti sono dovuti alla magia, vale a dire all'intervento dei demoni, che fu giustamente condannato a morte, per aver voluto sedurre il popolo ebraico e spingerlo alla rivolta, infine che, nel giudizio contro di lui, le norme di legge sono state rigorosamente osservate.
 Questo processo di controversia anticristiana passò dagli ebrei ai greci. All'inizio del terzo secolo, Celso ne fece un grande uso. Egli schernì il figlio di Panthera. [14]
Ma Panthera è senza dubbio una parodia dovuta a qualche rabbino, del greco parthenos, “vergine”, applicato dal Vangelo alla madre di Cristo. Abbiamo qui solo un brutto e cattivo gioco di parole.

b — Le testimonianze pagane

Celso non sarebbe stato ridotto a tali argomenti se avesse trovato dei migliori nel suo ambiente. Ma la tradizione secolare dei greci e dei romani era ancora più incerta di quella del mondo ebraico.



Pilato

Avrebbe dovuto essere di primario valore se Gesù fosse stato giudicato, nelle circostanze descritte dai vangeli, da un procuratore. Questo funzionario aveva regolarmente indirizzato al suo capo un rapporto ufficiale, che era stato depositato negli archivi imperiali.
Verso la metà del secondo secolo, San Giustino afferma nella sua prima Apologia l'esistenza di un tale rapporto. [15] Ma certamente non l'ha letto, perché non fornisce alcun dettaglio preciso su di esso. Supponeva solamente che fosse stato trovato tra i documenti di stato e che il suo contenuto non poteva che essere d'accordo con quello dei vangeli.
Tertulliano segue il suo esempio, probabilmente ispirato da lui, nell'Apologetico. Si spinge fino a dire che Pilato, scrivendo il suo resoconto, era “già un cristiano nel suo cuore”. [16] Se avesse avuto tra le mani una testimonianza ufficiale di un convertito di questa importanza, avrebbe dovuto non solo fare vago riferimento ad esso. Non avrebbe mancato di citarlo e di assicurargli una grande pubblicità.
Un imperatore diede una risposta a questi apologeti. Verso l'inizio del IV secolo, Massimino il Trace fece pubblicare gli Atti di Pilato e istruì i maestri di scuola a darne conoscenza ai loro allievi. Lo storico Eusebio, che li lesse poco dopo, li definì “ricolmi di bestemmie contro Cristo”. [17] Ma constata che questo lavoro è certamente apocrifo e fornisce una prova di ciò che può essere considerata decisiva. La crocifissione di Gesù, dice, è datata al settimo anno del regno di Tiberio, cioè all'anno 21. Ora, è solo nell'anno 26, secondo l'attestazione più precisa di Flavio Giuseppe, che Pilato fu inviato in Palestina.
Successivamente, i cristiani emisero a loro volta dei nuovi Atti, dove il procuratore prendeva la difesa di Cristo contro gli ebrei. Questo scritto ha avuto un grande spazio nella letteratura del Medioevo. È arrivata fino a noi nel Vangelo di Nicodemo. [18] Ma nessuno oserebbe sostenere la sua autenticità oggi. Tutti sono d'accordo nel considerarlo un romanzo.
Noi non possediamo su Gesù alcun atto ufficiale della Roma pagana. Abbiamo almeno delle precise testimonianze di storici delle quali possiamo fidarci? Due sono invocate, che sono, è vero, di impareggiabile importanza.

Svetonio

Una è di Svetonio. Si legge nella Vita di Claudio. [19] Questo imperatore, è detto, “espulse da Roma i Giudei che per istigazione di Cresto erano continua causa di disordine”. Il fatto è abbastanza sorprendente. Flavio Giuseppe non dice nulla al riguardo. Al contrario, presenta Claudio come particolarmente favorevole alla gente della sua razza. [20]
Ma limitiamoci semplicemente al testo. I difensori della tradizione devono essere a corto di argomenti per appoggiarsi su di esso. Se lo leggessimo senza idee preconcette, senza la memoria ossessiva del Vangelo, vedremmo semplicemente in questo Chrestos un agitatore romano ai tempi di Claudio.
Ammettiamo, ciò che è possibile dopo tutto, che sia un Cristo. Potrebbe essere quindi un personaggio che si offre come messia agli ebrei e viene riconosciuto come tale da un certo numero di loro, poiché nel contesto riguarda loro.
Supponiamo che sia piuttosto quello adorato dai cristiani. Si deve ammettere allora che Svetonio si sarà stranamente sbagliato su di lui. Lo avrà scambiato per un agitatore che operava a Roma, ai tempi di Claudio, nel bel mezzo di una comunità di ebrei. Che cosa prova allora la menzione che fa di lui? Semplicemente che il nome di Cristo stava iniziando ad assumere un posto importante nel mondo romano in questo momento, non che riguardasse davvero una personalità storica.

Tacito

L'altro testo solitamente invocato è Tacito.
È più circostanziale e sembra più convincente. È il principale vantaggio dei tradizionalisti.
Leggiamo negli Annali (15:44) circa l'incendio di Roma che avvenne sotto Nerone e di cui l'imperatore incolpò i “cristiani”:
“'L'autore di questo nome, Cristo, fu messo a morte dal procuratore Ponzio Pilato nel regno di Tiberio”.
È necessaria una riflessione preliminare su questo testo. Ci è noto, come l'intero contesto, solo da un singolo manoscritto dell'undicesimo secolo scoperto nel 1429 e inserito nel 1444 nella biblioteca dei Medici. Senza mettere in discussione, come si è fatto, [21] l'autenticità dell'intero libro, ci si potrebbe chiedere se il passo sia veramente di Tacito, perché contiene strane inverosimiglianze, ed i dettagli orribili che egli dà sulle torture inflitte ai cristiani sembrano essere stati ignorati durante i primi secoli e il Medioevo. [22]
Ma non importa molto per la questione che ci interessa. Prendiamo il testo per autentico. Può essere usato per dimostrare che Gesù è realmente esistito? In alcuna maniera. Nel momento in cui Tacito scrisse i suoi Annali, vale a dire, intorno al 117, i cristiani dovevano essere già numerosi a Roma, e la vita di Gesù era stata già fissata per loro, almeno nel Vangelo secondo Marco. È da loro, o da qualcuno che li ha conosciuti, che provengono tutte le informazioni da lui fornite a proposito di Cristo. Quindi non si riferisce a lui con il suo nome ma con il suo soprannome rituale. Ciò che dice di lui non aggiunge assolutamente nulla alla loro testimonianza.

c. Incoerenza delle testimonianze cristiane

In ogni caso, arriviamo alla conclusione che gli unici garanti di Cristo sono i cristiani. Quanto vale la loro garanzia?
Per rendercene conto, dobbiamo passare in rassegna i documenti principali su cui si appoggia la loro tradizione.

I vangeli

I più importanti, per il problema che ci interessa, sono i vangeli. È principalmente e quasi esclusivamente su di loro che si stabilisce l'idea comune che ci si fa di Gesù. È quindi importante prima di tutto sapere quale credito si dovrebbe concedere loro.
Tutti sono d'accordo nel ripudiare quelli che non fanno parte della raccolta scritturale, e per questo motivo designiamo, in modo del tutto sbagliato, sotto il nome di “apocrifi”, come se gli altri non lo fossero e appartenessero sicuramente agli autori di cui recano i nomi. Vengono presi in considerazione solo i quattro vangeli che sono stati adottati dalla Chiesa. Quelli passano, agli occhi dei credenti, per vangeli che non contengono errori. Per quanto i racconti “apocrifi” dell'infanzia o della vita di Cristo siano scartati facilmente, quelli che portano il marchio canonico sono accolti favorevolmente.
Nulla, tuttavia, giustifica, alla luce della pura critica, questo trattamento di favore. I vangeli ufficiali non offrono più garanzie degli altri. I loro autori non scrivono per raccontare fatti ben consolidati, ma per provare certe tesi di ordine teologico. Tutti vogliono stabilire, attraverso una serie di argomenti ben scelti, che Gesù non era un uomo qualunque, ma un essere divino che è apparso sulla terra in forma umana per fare la volontà del Padre celeste e per redimere le anime peccaminose. Così parlano con insistenza delle meraviglie da lui realizzate.
I fatti che raccontano sono i più strani, i più fantastici che si possano immaginare. Ciechi che vedono, sordi che odono, paralitici che si muovono, posseduti da cui i demoni sono espulsi, malati che guariscono di colpo, morti che ritornano pieni di vita, morti che resuscitano, tali sono i loro temi abituali. Siamo là in piena mitologia.
Senza dubbio la realtà può essere mescolata alla finzione. Ma per sbarazzarsene, bisogna fare uso di una critica minuziosa. Più il meraviglioso abbonda in una storia, più dobbiamo sfidare persino i fatti più semplici e naturali che vi si trovano associati. In tal caso, è necessario un dubbio metodico.
Per riporre fede sugli evangelisti, anche per quanto riguarda le loro affermazioni meno inverosimili, dovremmo sapere su cosa si basa la loro testimonianza, con quali mezzi hanno dovuto indagare, fino a che punto si spinse la loro curiosità, fino a che punto si sono preoccupati di sapere su di loro quasi nulla. Non conosciamo nemmeno i loro nomi, perché quelli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, con cui vengono solitamente chiamati, non sono in alcun modo garantiti e sembrano a loro volta fittizi.
In quale città, in quale paese vivevano queste persone? A questo proposito, possiamo solo fare ipotesi piuttosto fragili. Ma sembra certo che tutti fossero lontani dal teatro degli eventi che raccontano. Tutti sono estranei alla Palestina, di cui non possiedono che una conoscenza molto vaga.
A che data, almeno, hanno scritto? La domanda è di fondamentale importanza. Tuttavia, è molto difficile rispondere in modo preciso. Dai testi evangelici non si può ricavare alcun indizio solido e la tradizione fornisce solo quelli incontestabili. I vangeli furono scritti molto tempo dopo il tempo di cui parlano. Sono tutti più tardi dell'anno 70, perché tutti loro alludono alla distruzione del Tempio di Gerusalemme che si realizzò quell'anno, alla fine della guerra degli ebrei. Sembrano persino essere stati scritti molto tempo dopo, perché implicano uno sviluppo considerevole della Chiesa cristiana.
È stato comunemente sostenuto che devono essere apparsi prima della fine del primo secolo, perché sono citati o usati nell'Epistola ai Corinzi di Clemente di Roma, e nella raccolta delle Lettere di Ignazio di Antiochia . Ma questi documenti, che avrebbero dovuto essere composti poco prima o poco dopo l'anno 100, si rivelano al giorno d'oggi molto più tardi di quanto pensassimo.  Non dovettero vedere la luce del giorno prima dell'anno 150. [23]
È stato nei decenni precedenti, nella prima metà del secondo secolo, che si sono formati i vangeli. Tuttavia, è molto probabile che in seguito siano stati apportati cambiamenti significativi. Che fiducia possiamo avere in dei narratori che sono così lontani dai tempi come dai paesi di cui parlano?
Di nuovo, se essi concordassero tra loro, la convergenza delle loro asserzioni potrebbe persuaderci. Ma essi divergono frequentemente su questioni di primaria importanza. E riteniamo che queste divergenze siano deliberate, che rispondano a delle idee preconcette. Ciascuno aggiunge o sottrae qualcosa dal rapporto dei suoi predecessori, ognuno lo modifica di sua spontanea volontà, per adattarlo alle sue opinioni.
In queste condizioni, non possiamo accettarli in blocco e fondere le loro testimonianze o adattarle da un capo all'altro. Si deve fare una scelta. Per quale di loro ci si pronuncerà?
I critici indipendenti sono sempre più a favore del sacrificio del quarto vangelo. Molte delle sue parti sono di redazioni tardive, introdotte da uno scriba anonimo, per correggere la sua tendenza originaria, considerata eterodossa. L'esposizione primitiva ha un carattere troppo nettamente dottrinale, è troppo intimamente subordinata alla teologia della Parola divina, è troppo penetrata di simbolismo, fino ai suoi minimi dettagli, per essere considerata una testimonianza oggettiva e degna di credito. [24]
Gli altri tre vangeli, che sono comunemente chiamati “sinottici”, formano un gruppo separato. Rappresentano, per dirla meglio, una sorta di catena sospesa da un primo anello. Matteo dipende da Luca, che organizza e corregge in alcuni punti. Lo stesso Luca, nella sua forma attuale, riproduce e completa, per modificarla, una narrativa più antica, che Marcione utilizzava verso il 140, e di cui il signor Couchoud vi ha comunicato qui in una recente conferenza. [25] Proto-Luca, a sua volta, come suo continuatore e come Matteo, mi sembra che dipenda direttamente da Marco. [26] Dei primi tre vangeli, è il secondo nell'ordine canonico che è il più antico. È da esso che gli altri procedono.
Quindi è su di esso che i difensori della tradizione fanno affidamento preferibilmente. Esaltano la naturalezza, il pittoresco, la precisione e la varietà del suo racconto. In realtà, è difficile trovare un'opera più artificiale, più priva di valore storico. È questo che mi impegno di dimostrare in due volumi della collezione “Christianisme”. [27] Le conclusioni alle quali il mio studio mi ha condotto sono  le più negative possibili. Nessuno degli episodi riportati da Marco è sufficientemente garantito da ispirare fiducia. Nessuno può essere considerato storico.

Le Epistole paoline

Nella misura in cui il terreno evangelico viene a mancare, i difensori della tradizione ricadono nella collezione delle Epistole di Paolo. L'apostolo è molto più vicino alle origini del cristianesimo di qualsiasi altro evangelista. Non ha tentato di scrivere una vita di Cristo. Le informazioni che ci fornisce su di lui, essendo più indirette, possono sembrare, per questa stessa ragione, più credibili.
Esaminiamo la sua testimonianza più da vicino. Notiamo, prima di tutto, che molti dei testi attribuitigli furono scritti molto tempo dopo la sua morte. La più antica edizione delle sue lettere è quella dell'Apostolikon, che era stata utilizzata a Roma intorno al 140, da Marcione, nelle sue controversie teologiche, e che doveva essere di uso comune negli ambienti cristiani. Si è  stato in grado di ricostruirla sostanzialmente grazie alle indicazioni fornite a suo riguardo dagli avversari dell'eresiarca. [28] Era molto diversa da quella che prevaleva nella Chiesa. Le epistole a Timoteo, Tito ed Ebrei non c'erano. Anche quelle che ne facevano parte erano più corte di quelle odierne.
Lo studio comparativo dei testi mostra chiaramente, qualunque cosa sia stata detta, che i pezzi che mancavano non furono rimossi da Marcione da una collezione più antica, ma furono aggiunti dopo il fatto dalla Chiesa. [29] Ora è in questi frammenti aggiuntivi che si presentano gli indizi più chiari utilizzati per dimostrare, secondo Paolo, che Gesù era realmente esistito.
Vediamo che Cristo è “nato da donna, nato sotto la legge” (Galati 4:4), che egli è “dello sperma di Davide secondo la carne” (Romani 1:3), che egli “ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato” (1 Timoteo 6:13), che il suo “fratello” fu incontrato da Paolo a Gerusalemme con Cefa e Giovanni (Galati 1:19). Nulla di simile si leggeva nell'edizione utilizzata da Marcione. Quelle osservazioni sono troppo tarde per avere un valore serio. Dovevano essere scritte solo dopo l'anno 144, quando la Chiesa romana, avendo respinto l'eresiarca, fu in tal modo portata a ripudiare anche la collezione da lui usata e a crearne una nuova più conforme alla sua stessa dottrina.
Se ci atteniamo all'edizione antica, scopriamo che le informazioni sono molto vaghe su Gesù. Si condensano in questa dichiarazione della Lettera ai Filippesi (2:6-11):
“Essendo in forma di Dio, non considerò qualcosa a cui aggrapparsi tenacemente l'essere uguale a Dio, ma svuotò se stesso, prendendo la forma di servo, divenendo simile agli uomini; e, trovato nell'esteriore simile ad un uomo, abbassò se stesso, divenendo ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce. Perciò anche Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio delle creature (o cose) celesti, terrestri e sotterranee, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre”.
Noi siamo qui in pieno mito. L'umanità di Cristo interviene solo come un'apparizione artificiale, un fantasma, di cui questo essere, divino per natura, era disposto a rivestirsi un giorno per obbedire a suo padre, mentre uno dei suoi congeneri, in un sentimento di  ambizione ribelle, aveva sognato piuttosto di eguagliarsi  all'Altissimo. Per ammettere che si tratta  davvero di una personaggio reale, che si è mostrato in carne e ossa, l'informazione dovrebbe essere precisa e conclusiva. L'autore non ne dà. Parla della vita umana di Cristo come di un'umiliazione volontaria, senza dire dove e quando è iniziata, né come si è svolta. Presenta la sua morte sulla croce come una testimonianza della sua sottomissione alla volontà di Dio e come il preludio provvidenziale alla sua esaltazione finale, senza fornire il minimo dettaglio sulle circostanze del dramma, che tuttavia svolge un ruolo essenziale in questo sistema.
Solo un episodio, quello della sua ultima cena, è ricordato altrove, nella prima Lettera ai Corinzi (11:23-25):
“Poiché io ho ricevuto dal Signore ciò che vi ho anche trasmesso: che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Prendete, mangiate; questo è il mio corpo che è spezzato per voi; fate questo in memoria di me». Parimenti, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo ogni volta che ne bevete in memoria di me»”.
L'inizio di questo passo è sufficiente per mostrare quanto sarebbe sbagliato considerarlo una testimonianza storica. Da chi l'autore dichiara di ricavare le sue informazioni? Non da un uomo, ma dal “Signore”, non da una tradizione vivente ma da una rivelazione. Questo è sufficiente per ispirare fiducia nei credenti, ma anche per sfidare gli storici. Eppure, è stato ipotizzato, con molta probabilità, che questo stesso testo non sia di Paolo. [30]
Si adatta malissimo al contesto, che tratta, prima e dopo, delle feste cristiane, non dell'Eucaristia. Si contraddice presentando come già “trasmesso” da Paolo ai Corinzi un insegnamento che questa gente sembra ignorare. L'allusione che fa “alla notte in cui Gesù fu tradito”, si spiega meglio se è posteriore al vangelo di Marco, dove si legge un resoconto della Cena più semplice e più conforme al punto di vista del narratore. È da lui, in questo caso, che dipende per i fatti riportati. Si limita ad aggiungere un'interpretazione rituale, spiegando, secondo la rivelazione ricevuta dal Signore, che Gesù ha impegnato i suoi discepoli a rinnovare il suo gesto in memoria di lui. E' stato anche sostenuto che tutti i passi relativi delle epistole paoline che espongono il mistero di Cristo che soffre e muore per la salvezza degli uomini, sono altrettanto apocrifi. [31]
Rappresenterebbero l'opera di uno gnostico posteriore a Paolo, che avrebbe trasposto la dottrina dell'apostolo. Un critico così riservato e così contrapposto ai “miticisti” come il signor Loisy, ha espressamente sostenuto questa tesi. [32]
Cosa rimane allora della testimonianza dell'apostolo? Nulla di più, per quanto riguarda la personalità di Gesù, del riconoscimento della sua natura messianica, con l'urgente raccomandazione di attaccarsi a lui, mediante la fede, per far parte del regno di Dio con lui. La sua figura umana è confusa con quella di Cristo predetta dai profeti. È tanto elusiva quanto quella del figlio dell'uomo intravista da Daniele al di sopra delle nubi.

L'Epistola agli Ebrei

Apriamo ora l'Epistola agli Ebrei, che è stata spesso attribuita, benché falsamente, all'apostolo Paolo, e che presenta una dottrina molto arcaica. È una visione analoga, nonostante le notevoli differenze, descritte qui.
Gesù occupa il centro della scena. Ora, viene presentato prima di tutto come figlio di Dio, che “è lo splendore della sua gloria e l'impronta della sua essenza e che sostiene tutte le cose con la parola della sua potenza..., si è posto a sedere alla destra della Maestà” e si trova “tanto superiore agli angeli, quanto più eccellente del loro è il nome che egli ha ereditato” (1:3-4).
Alcune vaghe allusioni sono fatte ad una manifestazione terrena che ha avuto luogo “in questi ultimi giorni” (1:2), e durante la quale ha sofferto per la salvezza degli uomini. A questo proposito, ci viene data solo una precisazione: “Nei giorni della sua carne, con alte grida e con lacrime egli offrì preghiere e suppliche a colui che poteva salvarlo dalla morte ed è stato esaudito per la sua pietà” (5:7). Soltanto che questo non si applica all'agonia dell'Orto degli Ulivi, né alla crocifissione sul Golgota, di cui parlano i vangeli. È una semplice trasposizione di alcuni versi del Salmo 22, in cui, in realtà, si tratta piuttosto di un ideale giusto che invocava Jahvè nella sua angoscia e fu salvato da lui.
Inoltre, è soprattutto nel Salterio che vengono prese in prestito le altre indicazioni riguardanti la persona di Cristo. Curiosamente, a proposito di un verso del Salmo 110, in cui si parla di un “sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec”, si dice che questo Melchisedec, “senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita”, sia “simile al Figlio di Dio” (7:3). Da questa constatazione deriva che questo figlio di Dio, quando si manifestò tra gli uomini, non ebbe padre, né antenati, né nascita, né morte vera. Non si deve ammettere che egli non aveva dell'umanità che soltanto l'aspetto?

L'Apocalisse

Non c'è motivo di essere sorpresi. Questa stessa apparenza d'umanità si mostra ancora più lontana in un altro iscritto, parimenti arcaico, del Nuovo Testamento, [33] Il signor Couchoud ha recentemente dimostrato che, ad eccezione di una piccola porzione di frasi, indubbiamente apocrifa, nel quale leggiamo che “il Signore fu crocifisso” (11:8), non troviamo attraverso questo libro un singolo dettaglio che riguarda il suo passato umano.
Gesù si tiene in primo piano. È lui che parla al profeta attraverso un angelo. Ma è in cielo che risiede. E' presso Dio, dinanzi al suo trono, sotto le spoglie di un “Agnello immolato prima della fondazione del mondo” (13:8), e il sangue, sacrificato, purifica e redime gli eletti di tutte le nazioni come quello del Toro di Mitra, o meglio ancora quello dell'ariete di Attis.
Ad un certo punto, cambia d'aspetto, nasce da una donna e assume un'apparenza umana. Ma sua madre è la vergine celeste, che ha il sole per veste, la luna per sgabello e sulla sua testa dodici stelle per diadema (12:1).
Nella sua nuova forma deve discendere dal cielo sulle nubi che, in Daniele, recano il figlio dell'uomo. Andrà in Palestina come il Mietitore e Vendemmiatore annunciato da Gioele. Percorrerà il mondo su un cavallo bianco, con un mantello di porpora, per dare la caccia alla Bestia che continua l'opera del Grande Drago e gettarla nel Lago di fuoco.
Finito il suo compito, riprenderà la sua prima forma, ridiventerà l'agnello divino. Questo non gli impedirà di celebrare il suo matrimonio mistico con la donna celeste, che sarà sia sua madre che sua moglie, come Cibele lo è per Attis.

d — Conclusione mitica

Da questa mitologia disordinata si cercherebbe invano di ricavare qualche tradizione storica. È persino più difficile concepire come una qualunque Storia reale possa essere andata perduta in simili finzioni. Questa osservazione non si applica solamente al veggente di Patmos. Si applica anche all'autore anonimo dell'Epistola agli Ebrei, all'apostolo Paolo, ai nostri evangelisti. Nessuno di loro, a quanto pare, ha dovuto raccogliere ricordi vissuti a proposito di Gesù. Qualcosa sarebbe rimasto nella sua opera e gli avrebbe dato quella sensazione di realtà che è ancora mancante.
Sarebbe tuttavia molto strano che un uomo con un temperamento sufficientemente vigoroso per fondare una nuova e grande religione non avrebbe lasciato nella memoria dei suoi discepoli alcuna immagine precisa in cui i suoi tratti potessero essere trovati, nessuna eco in cui il suo accento fosse prolungato. nessun segno un po' chiaro della sua attività, nessuna traccia del suo passaggio. La natura fittizia delle informazioni fornite su di lui dai suoi primi testimoni, ci invita a pensare che la sua personalità non sia che  un mito.

La grande obiezione

La conclusione sembrerebbe semplice e decisiva, se si trattasse di Attis o di Mitra. Poiché si tratta di Cristo, gli spiriti più liberi hanno difficoltà ad accettarlo. Non è solo perché un pesante fardello di vecchie abitudini e di pregiudizi millenari continua a pesare su tutti noi. È così anche perché, nonostante gli esempi forniti dalle altre religioni, è difficile comprendere che un mito di questo genere potesse essersi formato e prendere consistenza fino al punto di imporsi, per così tanti secoli, a milioni di seguaci.

Come si è formato il mito cristiano

I testi cristiani ci aiutano, tuttavia, a capirlo. Mostrano come il cristianesimo sia nato dall'ebraismo.
Già il nome di “Cristo”, tradizionalmente legato a quello di Gesù, è sufficiente a farlo intravedere. Sappiamo che proviene dal greco “Christos”, che significa “unto”, come l'ebraico “massiah” o “messia”. Nel linguaggio scritturale, designa il “re”, la cui incoronazione è eseguita da un'unzione.
Quando la regalità era decaduta con l'indipendenza nazionale, gli ebrei non potevano rassegnarsi alla sua scomparsa, mantennero la ferma speranza di vederla riapparire. Basandosi sugli oracoli dei loro profeti e su tutta la Bibbia, che essi interpretavano secondo i loro desideri, si dissero a loro stessi che un Messia, un Cristo ideale sarebbe venuto, che avrebbe regnato su di loro nel nome di Dio e riportato con il trionfo della Legge quello della giustizia. È stata questa speranza che creò il Vangelo.
Gli antichi messianisti si immaginavano il capo predestinato sul quale contavano come un altro Giosuè, che avrebbe completato l'opera di Mosè, che avrebbe trionfato su tutti i suoi nemici e raggruppato il popolo eletto intorno a una nuova Gerusalemme. Ma nella versione greca della Bibbia, che fu usata all'inizio della nostra era da molti circoli ebraici ed era comunemente usata dai primi cristiani, “Giosuè” è chiamato “Gesù”. Entrambi i nomi sono identici. Il secondo è una forma particolare dell'ebraico Ieschua, contrazione di Ieoschua, che significa “Jahvè salva” e il cui significato era perfettamente adatto al messia. L'aspettativa di questo Gesù ideale, di questo Cristo salvatore era più diffusa e più viva che mai nel primo secolo della nostra era. [34] Gli ebrei vi si aggrappavano ancor più perché il loro destino era notevolmente peggiorato. Le ultime vestigia della loro indipendenza erano svanite dopo la morte di Erode il Grande. Dopo la deposizione di suo figlio Archelao, avvenuta nell'anno 6 E.C., la Giudea fu assegnata alla provincia romana della Siria e governata da un procuratore. La Galilea mantenne una certa autonomia, sotto il governo del suo altro figlio, Erode Antipa. Ma questo principe fu infine deposto nell'anno 41. Agrippa, cognato di Antipa, raccolse la sua eredità, con quella di Archelao. Molti ebrei riposero tutte le loro speranze in lui. Tre anni dopo, morì prematuramente. Tutta la Palestina passò definitivamente sotto il dominio romano. Nel 67, si sollevò per recuperare l'indipendenza. Ma dopo tre anni di lotta impari, le sue truppe furono sconfitte, le sue fortezze prese d'assalto, Gerusalemme distrutta, il Tempio distrutto.
Mentre questi eventi si susseguivano, i pii messianisti ricordavano il famoso oracolo di Giacobbe, che si legge presso la fine della Genesi (49:10): “Lo scettro non sarà rimosso da Giuda, né il bastone del comando di fra i suoi piedi, finché venga Sciloh; e a lui ubbidiranno i popoli”. La parola “Sciloh” era difficile da capire, e gli esegeti continuano a discuterne. Ma precisamente a causa del suo carattere misterioso, fu presto applicato al messia. L'autore della versione greca della Septuaginta sembra intenderla così, perché traduce: “Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l'obbedienza dei popoli”.
Con una tale interpretazione, l'oracolo assumeva un significato molto chiaro e una grandissima importanza. La sovranità doveva appartenere a Giuda fino alla venuta dell'atteso Salvatore! Da quando era scomparsa, non era necessario credere che il Salvatore fosse già venuto? Questa conclusione si trova chiaramente formulata, come una verità comune, nella seconda metà del secondo secolo, dall'apologeta Giustino [35] E dal vescovo di Lione Ireneo. [36] Dev'esser stata una verità ancor di più agli albori del cristianesimo, poiché le profezie messianiche erano allora di grande interesse per i credenti.
Una preziosa conferma sembrava essere stata fornita da un'altra profezia, altrettanto famosa, inscritta nel Libro di Daniele (9:24): “Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all'empietà, mettere i sigilli ai peccati”.
Agli occhi dei credenti, questa scomparsa del male e questo trionfo del bene costituivano la precisa missione del messia. E leggevano nel testo che segue, che “dal momento in cui è uscito l'ordine di restaurare e ricostruire Gerusalemme fino all'apparire di un Cristo”, ci sarebbero state sette settimane, seguite da altre sessantadue, e poi una finale, durante il quale la città e il santuario sarebbero stati distrutti da un popolo invasore, la cui punizione non avrebbe tardato a venire.
Questo annuncio doveva essere particolarmente meditato dopo l'occupazione romana, e specialmente dopo la rovina della capitale e del tempio.
Era, infatti, un falso oracolo, scritto all'epoca e in occasione di Antioco Epifane. Ma si pensava che fosse stato scritto molto prima e per eventi più lontani.
Il suo punto di partenza, “l'ordine di restaurare e ricostruire Gerusalemme”, avrebbe potuto intendere un editto di Artaserse I menzionato nel libro di Neemia (2:1-8). Le settanta settimane di cui parlava non potevano intendersi al senso abituale, perché avrebbero dato solo un totale di quattrocento-novanta giorni e il messia sarebbe dovuto apparire dopo secoli. È stato spiegato che erano sette anni, per un totale di quattrocento-novanta anni. Il margine era quindi molto più ampio.
Eppure aveva finito con lo scadere nel momento stesso in cui l'indipendenza ebraica stava terminando. Gli apologeti cristiani l'hanno sottolineato presto e con insistenza. [37] Già Paolo, o qualsiasi autore che scrive sotto il suo nome, è apparentemente ispirato al testo di Daniele, in un passo della Lettera ai Galati (4:4), dove sottolinea che “quando giunse la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio”. “Il tempo è compiuto”, questa è la prima parola che viene messa sulle labbra di Gesù dal più antico vangelo. [38] Questa dev'essere stata anche la prima idea che è sopraggiunta a suo riguardo nella mente dei cristiani, quella che ha provocato lo sbocciare della loro fede. Fu dal giorno in cui si impose su di loro che il  Cristo ideale cominciò a prendere forma, che il verbo si incarnò agli occhi dei credenti.
Sorse una difficoltà. Come poteva apparire il messia senza preavviso? Per le persone che ragionano, l'obiezione è insolubile. Non sembra così per quelli che credono. La loro fede trova, al contrario, un incentivo. Si nutre di contraddizioni che, in pura logica, dovrebbero causare la sua rovina. I cristiani hanno sempre detto, senza dubbio dall'inizio, che se Cristo non è stato riconosciuto dai suoi contemporanei, è perché non doveva esserlo.
Diversi testi della Bibbia avrebbero potuto testimoniare in questo senso. Uno, soprattutto, ha prevalso. Nel capitolo 53 del libro di Isaia, scritto alla fine dell'Esilio, si parla di un “servo di Jahvè”, o meglio, secondo la traduzione greca, di un “figlio di Dio”, che non fu conosciuto dagli uomini, umiliato, maltrattato, oltraggiato, perseguitato da loro, punito, benché innocente, per i peccatori, condotto come un agnello al macello, rimosso dalla terra dei viventi e sepolto, ma in seguito esaltato da Dio, nella misura stessa delle sue umiliazioni, e chiamato da lui a diffondere la sua conoscenza e a fare trionfare la giustizia. Il testo è simbolico e raffigura il popolo ebraico che venne a soffrire senza motivo e che rischiò di scomparire, ma a cui l'editto liberatorio di Ciro fece intravedere una bella rivincita. Siccome il suo significato originale fu dimenticato, i cristiani fin dall'inizio lo intesero a proposito di Cristo. Hanno interpretato nella stessa direzione testi simili di Isaia e di altri profeti, come quelli dei Salmi e del Libro della Sapienza, dove si vede un giusto, o un saggio ideale maltrattato, deriso dai peccatori e dagli stolti, consegnato da loro a una morte ignominiosa e crudele, ma liberato dal Padre celeste nel quale aveva riposto la sua fiducia. Una raccolta di queste testimonianze messianiche, o supposte tali, fu costituita presto, per i bisogni della nuova fede. Raggruppava sotto certi titoli, come le analoghe compilazioni del terzo e del quarto secolo che ne sono derivate, brani della Bibbia in cui si credeva di scoprire l'immagine anticipata del Cristo salvatore. [39] Da ciò fu preparata la bozza di una prima vita di Gesù. Gli evangelisti la adattarono solo ai bisogni delle nuove generazioni trasponendo queste varie tradizioni profetiche su un piano storico, raccontando come accadde ciò che sembrava essere stato predetto. [40] Gli oracoli attorno ai quali la fede messianica si era cristallizzata per la prima volta e che mostravano il liberatore del popolo eletto trionfante a spese di tutti i loro nemici, tuttavia sussistevano. Furono neutralizzati spiritualizzandoli, grazie a un'interpretazione simbolica e posticipando la loro scadenza ad un secondo avvento del figlio di Dio, di cui figuravano il ritorno dal cielo nella sua gloria per giudicare la terra intera. La visione folgorante dell'Apocalisse giovannea svanì in una prospettiva sempre più lontana attraverso le narrazioni dei vangeli sinottici. [41]

Come ha trionfato il mito cristiano

Così svincolato dalle sue prime associazioni, Cristo era solo più caro ai pii ebrei che aspettavano devotamente la “consolazione d'Israele” e che la vedevano nel trionfo spirituale della loro fede più che nei combattimenti mortali di un Giuda Maccabeo. Questi credenti mistici erano particolarmente numerosi al di fuori della Palestina, tra i “gentili”, dove i ricordi del regno di Davide erano molto meno vivi e dove il potere imperiale si faceva meglio sentire e apprezzare. Fu qui che Gesù trovò i suoi migliori seguaci.
Grazie a loro, grazie agli apostoli come Paolo, avrebbe potuto guadagnare l'innumerevole seguito dei “proseliti”, greci o romani, che si raggruppavano intorno alle sinagoghe, e, attratti dalla elevata moralità dei maestri della Legge ma respinti dal loro gretto nazionalismo, potevano, con lui, trattenere l'una senza preoccuparsi dell'altro.
Per raggiungere la massa delle persone riluttanti all'influenza ebraica, doveva prendere una forma appropriata alle loro aspirazioni, più fondamentalmente umane. La tradizione gnostica lo ha aiutato. Dal primo secolo, essa impartiva, nelle varie sette, che l'anima umana proviene da Dio, che, a seguito del peccato originale che ha causato la sua caduta, si è intrappolata quaggiù nei vincoli della carne, che non può essere liberata con i propri mezzi, ma che un figlio di Dio, assumendo un aspetto umano, è venuto ad aiutarla a uscire da essa, mostrandole da dove viene e dove deve tornare per trovare la felicità. [42]
Tale è l'idea che i Simoniani, ad esempio, si fecero di Simone, nel quale i loro avversari vedevano solo un “mago”. [43] Tale fu quella che i cristiani si formarono di Cristo. È ad essa che la seconda redazione delle epistole paoline si ispirò, quella dove si denuncia l'opera apocrifa di un anonimo gnostico.
Da allora in poi, Gesù non fu più solo il giusto sofferente del secondo Isaia, ma il maestro di coloro che soffrono, il rivelatore della sapienza, la “luce del mondo”. Con questo egli rassomigliava ancor di più agli dei salvatori delle altre religioni misteriche, che originariamente si presentavano ai loro adepti come compagni di sventura, e a cui i loro teologi avevano progressivamente assegnato un attributo di  somma sapienza. Questa somiglianza lo rendeva facilmente in grado di appropriarsi di tutto ciò che tutti gli offrivano di meglio e quindi di renderlo un serio rivale.
D'altra parte, aveva un buon vantaggio su di loro. Mentre Mitra, Osiride, Attis, Adone e i loro simili non si situavano in qualche periodo storico e sembravano risalire ai primi secoli dell'umanità, Gesù si presentava come un contemporaneo. I biografi insistevano su questo punto e fornivano dettagli precisi che andavano moltiplicandosi. Siccome il suo arrivo si collocava, secondo i calcoli messianici, verso la fine dell'indipendenza ebraica, vale a dire negli ultimi giorni della dinastia erodiana, venne spiegato, in Marco e nei suoi imitatori, che il fatto aveva avuto luogo sotto il governatorato di Pilato, mentre Erode Antipa era ancora tetrarca di Galilea. Siccome il Cristo si identificava, agli occhi dei credenti, con il giusto ideale dei Salmi, che parla dei suoi genitori e dei suoi parenti, alcuni furono incoraggiati a dare i nomi di sua madre, di suo padre e dei suoi fratelli, che attinsero dai testi mosaici. [44] I primi propagandisti della nuova fede, Pietro, Giacomo e Giovanni, che erano stati incontrati da Paolo a Gerusalemme, [45] furono presentati come compagni e discepoli di Gesù. Come contestare testimonianze così vicine e così autorevoli?
Furono ancor meno contestate perché ben poche persone erano in grado di criticarle. Non ne sentivano affatto il bisogno. La credulità generale era senza limiti. Guarda dove erano i capi di opinione. Paolo, la nostra più antica testimonianza del cristianesimo, parla delle sue visioni e delle sue rivelazioni. Dice di essere stato rapito fino al terzo cielo e di aver udito delle parole indicibili, che non è lecito ad un uomo di proferire. Marco, l'autore del nostro più antica vangelo, racconta seriamente che una legione di demoni cacciati da Gesù dal corpo di un indemoniato di Gerasa, scivolarono in un branco di maiali che pascolavano nei pressi e si precipitarono in mare. le persone che scrissero o che lessero ciò non erano in grado di discutere il valore di un'affermazione, o l'autenticità di un testo.
Essi se ne curavano, per giunta, assai poco. I cristiani semplicemente credevano in Cristo nella misura in cui videro in quello che era detto di lui una risposta alle loro preoccupazioni private, una cura per i loro mali. Ora, tutti i vangeli, che fossero di Marco, di Luca, di Matteo o di Giovanni, lo presentava loro nella luce più attraente. In tutti, Gesù appariva come un dio molto grande e molto buono, che si era fatto simile agli uomini per porre fine alla loro sofferenza, che sapeva leggere nella profondità del cuore, e che, con una parola, poteva guarire le peggiori infermità. Era stato visto provare pietà per la folla, e per nutrirla, moltiplicare i pani nel deserto. Chiedeva ai suoi seguaci di credere in lui. In cambio di questa fede, assicurava loro una vita eterna di felicità. Come poteva la massa della povera gente, travolta dalla miseria e tormentata dall'inquietudine, non essere attratta da lui e non dovergli concedere la sua fiducia?
Il successo che ricavarono i missionari di Gesù non è più singolare di quello che avevano incontrato i rappresentanti di altri dèi salvatori. Esso è della stessa natura e si deve alle stesse cause. Si spiega facilmente senza l'apparizione improvvisa di un uomo eccezionale, per lo sforzo continuo di lavoratori anonimi che avevano dato una forma concreta all'ideale mistico della massa dei fedeli.
Non è il Cristo che ha fondato il cristianesimo. È piuttosto il cristianesimo che ha elaborato progressivamente la figura di Cristo.

NOTE:

[1] Conferenza tenuta per l'Union Rationaliste, a Parigi, Salle de la Société de Géographie, 184, boulevard Saint-Germain, il 5 marzo 1932. “Cahier Rationaliste” numero 14, maggio 1932. Lo stesso testo è stato pubblicato in un volume dalla “Bibliothèque Rationaliste”, con una conferenza di Paul-Louis Couchoud e un'altra di Albert Bayet, con il titolo “Il problema di Gesù e le Origini del cristianesimo”. È stata la pubblicazione di questa conferenza che valse a Prosper Alfaric la principale scomunica da cui fu colpito dalla Chiesa Cattolica nel luglio del 1933. Si veda: “De la Foi à la Raison”, pag. 286 e seguenti.

[2] Porfirio, De Abstinentia, 4:16; San Girolamo, Adv. Jovinian., 2,14; Franz Cumont, Textes et monuments figurés relatifs aux mystères de Mithra, Cap. 2, pag. 42-43.

[3] Giustino, Apol. 1:66, 4 e 70; 1; Dial., 68:6; Tertulliano, De praescr., 40.

[4] Contra Celsum 1:47, (Migne, Patr.gr., 11, 745).

[5] Th. Reinach, Josèphe sur Jésus, Revue des Etudes juives, 35 (1897), pag. 13-14; R. Eisler, Jesous Basileus, t. 1, pag. 873.

[6] Contra Celsum, 1:47; 2:13 (Migne, P. G., 11, 745 e 824). 

[7] Entre 2, 174 e 175; traduzione francese di Salomon Reniach, “Revue des Etudes juives”, 1929, pag. 134-135.

[8] 5, 195; traduzione di Salomon Reinach, loc. cit., pag. 135-136.

[9] 5, 214.

[10] Ant. Giud., 18, 1, 1 (Giuda il Galileo); 20, 5, 1 (Teuda); 20, 8, 6 (L'Egiziano).

[11] Ant. Giud., 18, 3, 1 e 2 (ebrei), e 4, 1 (samaritani).

[12] Biblioth., 33 (Migne, P. G., CII, 65).

[13] P. M. J. Lagrange, Le Messianisme chez les Juifs, pag. 288-290.

[14] Origene, Contr. Cels., 1:32, 33, 69 (Migne, Patr.gr., 11: 721, 724, 789).

[15] Apol. 1, 35, 9. XLVIII, 3.

[16] Apologeticum, 21, 24.

[17] Hist. eccl., 11: 5, 1.

[18] Traduzione francese di G. Brunet, in Les Evangiles apocryphes, Paris 1848, pag. 230-273, e in Migne, Dictionnaire des Apocryphes, Parigi, 1856, vol. I, pag. 1101-1138.

[19] 25:4, si veda Atti 18:2.

[20] Antich. Giud., 19: 5, 2-3; 20, 1, 1-2; 20:6, 3.

[21] P. Hochart, De l'Authenticité des Annales & des Histoires de Tacite, Parigi, 1890, Nouvelles Considérations au sujet des Annales & des Histoires de Tacite, Parigi, 1894.

[22] P. Hochart, Etudes au sujet de la Persécution des Chrétiens sous Néron, Parigi, 1885, pag. 7-44, 221-236.

[23] Henri Delafosse (J. Turmel),  La Lettre de Clément Romain aux Corinthiens, Revue d'Histoire des Religions, 1928, t. XCII, pag. 53-89; e Les Lettres d'Ignace d'Antioche (Textes du christianisme), Introduction, pag. 50-52 e 87-89.

[24] Alfred Loisy, Le quatrième Evangile, seconda edizione, Parigi, Nourry, 1921, pag. 63.

[25] Cahier Rationaliste, gennaio 1932, da pag. 316 a 321.

[26] Il signor Couchoud crede che sia piuttosto Marco che dipende da proto-Luca. Ma nota che entrambi sono ugualmente privi di valore storico (loc. cit., 335-336). Il disaccordo è quindi irrilevante per il presente dibattito.

[27] Si veda in particolare il primo, La plus ancienne Vie de Jésus, Introduzione, pag. 67-108.

[28] Ad. Harnack, Marcion, Beilage III, Das Apostolikon Marcions, pag. 37-156.

[29] P.-L. Couchoud,  La première Edition de saint Paul, Revue d'Histoire des Religions, 1926, vol. XIII, pp. 242-263; Premiers Ecrits du Christianisme, Parigi, Rieder, 1930, pag. 7-31.

[30] Henri Delafosse (J. Turmel), La première Epître aux Corinthiens, Parigi, Rieder, 1926, pp. 60-75; Alfred Loisy, Les origines de la Cène eucharistique, Congrès d'Histoire du Christianisme, Parigi, Rieder, 1928, pag. 83-86.

[31] Henri Delafosse (J. Turmel), L'Epître aux Romans, Rieder, 1926, pag. 24-37.

[32] “Revue critique”, 1926, pag. 243 e seguenti (come reso dal libro di Delafosse).

[33]  Parigi, Rieder, 1931.

[34] Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica, 5, 5, 4. Si veda Tacito, Storie, 5:13; Svetonio, Vespasiano 4.

[35] Apol., 1:32, 1-4; Dial., 52:4 e 120:3-5.

[36] Haer., 4:20, 2.

[37] Tertulliano, Adv. jud., 8; Giulio Africano, Cronografia 1:5, citato da Eusebio, Demonstr. evang., 8:2 (Migne, Patr. gr., 22, 608-612.

[38] Marco 1:15.

[39] P. Alfaric, La Préparation évangélique, Revue D'Histoire des Religions, 1925, t. XCI, pag. 153-174.

[40] P. Alfaric, La plus ancienne Vie de Jésus, pag. 88-93.

[41] Marco 13:1-37; Luca 21:5-36; Matteo 24:1-51.

[42] P. Alfaric, Christianisme et Gnosticisme, Revue historique, 1924, t. CXLV, pag. 3-15; Gnostiques et Gnosticisme, Revue d'Histoire des Religions, 1926, t. XCIII, pag. 108-111.

[43] P. Alfaric, L'Evangile de Simon le Magicien, Revue des Etudes historiques, 1921, pp. 342-356.

[44] P. Alfaric, Pour comprendre la Vie de Jésus, pag. 59-60.

[45] Galati 1:17; 2: 1-10. Si veda P. Alfaric, Il Gesù di Paolo, Revue d'Histoire des Religions, 1927, vol. XCVI, pag. 259-260 e 261-264.

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