martedì 2 gennaio 2018

Sull'Evoluzione del Cristianesimo (X) — Certi Dettagli del Mito

(prosegue da qui)
CAPITOLO X

CERTI DETTAGLI DEL MITO

1. La Crocifissione

Certi aspetti supplementari che furono impressi sul mito centrale devono ora attirare la nostra attenzione. In tutti i culti c'era un racconto mitico della maniera in cui veniva ucciso il dio-salvatore. Il credo che Gesù fu crocifisso potrebbe essere penetrato nel mito cristiano da due fonti indipendenti — lo gnosticismo e il culto ebraico; nel cui caso questo ulteriore punto di accordo avrebbe facilitato la sintesi finale. Ho già mostrato, nel Capitolo III, come gli gnostici raggiunsero la concezione che il Logos Chrestos deve essere stato messo a morte. Nel brano citato dalla Sapienza di Salomone, in cui i malvagi sono descritti mentre pianificano la morte del Giusto, essi sono rappresentati nel dire:
“Condanniamolo ad una morte infame”.
 Questa frase deve aver suggerito necessariamente una crocifissione, quella maniera di esecuzione che era considerata la più vergognosa e quella che era specialmente impiegata nel caso di schiavi e criminali. Il passo di Platone riguardante il Giusto puntava alla stessa direzione, dal momento che Platone dice che il Giusto sarebbe stato “impalato”. La parola greca tradotta “impalato” potrebbe anche essere stata usata per significare “crocifissione”; e che questo passo figurava nell'antica coscienza gnostica e cristiana è dimostrato dalla sua  citazione nella Apologia e negli Atti di Apollonio. Lo stesso suggerimento di una crocifissione potrebbe anche essere stato trovato nel ventiduesimo salmo, la cui fraseologia di alcune parti presenta una notevole somiglianza con quella del brano della Sapienza e in cui occorrono quelle parole: “Una folla di malfattori mi ha attorniato; mi hanno forato le mani e i piedi”. Anche uno dei dettagli della Crocifissione fu attinto da un verso di questo salmo: “Spartiscono fra loro le mie vesti e tirano a sorte la mia tunica”. L'idea, tuttavia, potrebbe risalire ad un'antica usanza ebraica, semplicemente rafforzata dai passi citati; infatti, nella citazione degli Oracoli Sibillini data al Capitolo VI, di Giosuè si dice che  “distese le mani sul legno fruttifero”. Questa, essendo una dichiarazione su Giosuè, potrebbe essere derivata da una fonte molto precedente rispetto ai salmi.
La Crocifissione del dio-salvatore Gesù potrebbe anche risalire ad un antico costume ebraico. L'uccisione dell'agnello pasquale rappresenta un antico sacrificio in cui una volta la vittima era probabilmente umana; e Giustino afferma che era solito arrostire l'agnello nella forma di una croce. La croce è un elemento prominente nei miti di molti dèi solari. I passi citati in precedenza da Zaccaria e dal Libro dell'Apocalisse indicano che la maniera di uccidere la vittima nel rito di Gesù Barabba  consisteva, in qualche tempo o in qualche luogo, nel trafiggerla con una lancia. Nella festa babilonese delle Sacee la vittima era o impalata o impiccata.
In Atti 5:30, si riporta che Pietro abbia detto:
“Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù che voi uccideste appendendolo al legno”. I critici tradizionalisti, ovviamente, interpretano questa affermazione a significare la crocifissione. Ma ovviamente non ha bisogno di significare ciò. Sir James Frazer menziona che a volte il metodo impiegato nei sacrifici umani consisteva nel sospendere la vittima da un albero o da una fossa e nel trafiggerla poi con una lancia. La dichiarazione attribuita a Pietro si accorda meglio con quel metodo che con la crocifissione. Probabilmente il passo degli Atti in cui si presenta è derivato da una fonte antica, risalente ad un tempo in cui il mito era ancora fluido. Potrebbe essere più primitivo del racconto evangelico; perché sappiamo che la storia evangelica della Crocifissione fu elaborata dai cosiddetti passi messianici dell'Antico Testamento. La dichiarazione di Pietro in Atti 5:30, presa assieme alle prove del Libro dell'Apocalisse, indica che in diversi gruppi di  adoratori di Gesù del primo secolo, prima che accadesse una fusione e un'assimilazione, esistevano concezioni diverse della maniera in cui Gesù era stato messo a morte. Si potrebbe dedurre che tra gli gnostici, all'inizio del primo secolo, si credeva che il Logos, Gesù, fosse stato crocifisso, mentre i dettagli, tuttavia, e le circostanze del tempo e del luogo erano lasciate molto indefinite; mentre in circoli più fortemente ebraici la concezione potrebbe essere stata variegata. L'evidenza suggerisce che il Messia sofferente o il dio-salvatore Gesù potrebbero, in luoghi diversi o in tempi diversi, essere stati rappresentati  “trafitti” o “impalati” oppure crocifissi. Forse la “crocifissione” in quest'ultimo caso potrebbe essere consistita nel sospendere la vittima in una posizione cruciforme e nel trafiggerla con una lancia.
L'episodio del vino mescolato a fiele offerto a Gesù sulla croce era probabilmente un dettaglio del sacrificio reale, dato che una bevanda di questo tipo soleva essere somministrata a criminali crocifissi come narcotico. È anche noto che l'utilizzo del farmaco per indurre stupefazione non fu una pratica sconosciuta nei sacrifici umani. Matteo (per evitare ripetizioni uso i nomi tradizionali) modificò l'incidente per renderlo conforme ad un verso del sessantanovesimo salmo. Se le persone non avessero preso in considerazione quelle storie del Nuovo Testamento con una mente ipnotizzata, avrebbero constatato che uno scrittore che poteva impiegare un tale metodo di composizione doveva aver saputo di non star trattando fatti storici oppure che la sua concezione storica di un fatto storico era molto diversa dalla nostra. Se il racconto della Crocifissione fosse stato quello della crocifissione di un uomo conosciuto, di un venerato maestro, i suoi dettagli sarebbero stati sacri ai discepoli; tuttavia troviamo che i dettagli variavano a piacere da parte dei diversi evangelisti a seconda del loro scopo dogmatico. Tale procedura, che in realtà attraversa l'intero vangelo, indica che l'intenzione in queste opere non era quella di riferire una storia reale, ma di predicare un dogma.
Il professor W. B. Smith sottolinea il fatto che il Testamento greco, tradotto correttamente, non dice che Giuda 
tradì  Gesù, ma che lo ha donato, abbandonato o consegnato. È evidente che, nei vangeli, Giuda non si attiene ad alcuna particolare violenza; gli scrittori semplicemente ricordano il fatto della consegna in una maniera serena e spassionata. Ciò sottolinea ancora che qui non abbiamo a che fare con personaggi reali il cui fato o la cui condotta avrebbero potuto eccitare l'emozione quando ricordati. La storia evangelica nel suo complesso è un simbolismo e, dato che Giuda non appartiene al vecchio rituale del sacrificio, la conclusione è che lui vi è stato introdotto come un simbolo. Il professor Smith ritiene che egli rappresenta la nazione degli ebrei, i quali cedettero o consegnarono il culto di Gesù, che originò tra loro, ai gentili. Ha dimostrato che il nome “Iscariota” potrebbe includere una radice ebraica che significa “consegnare”.

2. Il Processo

Se non fossimo cresciuti fin dalla nostra prima infanzia in familiarità col racconto del processo di Gesù davanti al Sinedrio, dovremmo subito renderci conto della sua incredibilità, in quanto nessuna procedura giudiziaria è mai stata condotta in tale maniera; e tutto quello che sappiamo delle abitudini degli ebrei esclude l'idea di una sessione notturna del Sinedrio. Questo elemento, ancora una volta, non fa parte del rituale del sacrificio, ed è stato introdotto o piuttosto tardi nella sua rappresentazione drammatica oppure nel testo trascritto che fu aggiunto al vangelo. Dobbiamo renderci conto che gli evangelisti furono artisti, non storici, e che il loro obiettivo fu dogmatico. Non c'è niente nel vangelo che non sia stato posto là per uno scopo, a meno che non siano alcune interpolazioni molto tardive. La spiegazione più probabile dell'inserimento di questa scena processuale è che lo scrittore desiderò rappresentare in modo molto drammatico e violento il rifiuto, da parte dei capi degli ebrei, della concezione di un Messia sofferente. Infatti la pretesa di un uomo di essere Messia non fu una blasfemia tra gli ebrei, e l'assunzione di quel titolo, che fu in effetti sia reclamato e sia ricevuto da diversi ebrei che si trovano nei documenti storici, non era un reato contro la legge ebraica. Ma il tipo di Messia che gli ebrei in generale si aspettavano era un uomo di guerra, un uomo forte sotto la cui guida avrebbero riconquistato la loro indipendenza. Quando dunque lo scrittore evangelico rappresenta il sommo sacerdote mentre si straccia le vesti in orrore e indignazione, quello che vuole drammaticamente descrivere è l'orrore che un sacerdote ebreo avrebbe provato — non che un uomo dovesse affermare di essere il Messia, ma che la richiesta dovesse essere fatta da questo uomo, un umile e miserabile prigioniero. È il rifiuto del Messia sofferente che qui è rappresentato simbolicamente.
Un po' più tardi nel racconto si giunge al rifiuto della stessa idea dalla massa del popolo, quando urlarono a Pilato:
“Crocifiggilo”. Una vera contraddizione che ha esercitato le menti dei commentatori ed è inspiegabile sotto l'ipotesi di un Gesù storico, è l'inspiegabile cambiamento dell'umore del popolo nell'intervallo di tempo davvero breve tra l'ingresso a Gerusalemme e il processo davanti a Pilato. Ma questa difficoltà, come molte altre, scompare immediatamente quando quell'ipotesi viene abbandonata. La descrizione dell'ingresso a Gerusalemme fu imposta allo scrittore evangelico dal suo materiale; faceva parte del rituale del sacrificio e della sua rappresentazione drammatica. Nel racconto di questo rituale lo scrittore introduce un episodio che esprime simbolicamente il rifiuto del culto di Gesù da parte degli ebrei. Egli era perfettamente consapevole della contraddizione così creata, ma questo non lo turbò più di tanto, perché egli non era meno consapevole del fatto che non stava ricordando fatti ed eventi. Ricordare fatti non fu la sua intenzione; la sua intenzione era insegnare. Oppure si può dire che egli stava ricordando i fatti in un certo senso, ma simbolicamente, non letteralmente. I versi 27 e 28 di Marco, capitolo 15, che riguardano l'episodio della crocifissione di due ladri, sono aggiunte successive, probabilmente introdotte da Luca.
Il Marco originale termina con 16:8. Le storie delle apparizioni successive di Gesù dopo la sua resurrezione sono aggiunte posteriori. Tutti i dettagli trovati in Matteo e Luca che non sono in Marco potrebbero anche essere presi come aggiunte al racconto precedente.

3. La Vergine Madre

Secondo gli gnostici, il Logos era l'unico figlio di una vergine madre. Ma questa madre era Sofia, la Sapienza personificata di Dio, in seguito concepita anche come lo Spirito di Dio. Il Logos, pertanto, non aveva origini terrestri o un luogo di nascita. Di conseguenza, troviamo, nella prima forma della storia evangelica com'è indicata in Marco, che Gesù appare improvvisamente, senza alcun precedente, in Galilea. Naturalmente, egli vi era venuto dal Cielo, poiché nel racconto più primitivo egli era un essere divino; successivamente gli vennero aggiunte sempre più caratteristiche umane. L'analisi dei documenti dimostra che fin dall'inizio Gesù fu un essere divino che diventò un uomo (come dice lo scrittore paolino,
“fu trovato nell'aspetto simile ad un uomo”) e che non fu mai un uomo che fu successivamente deificato. La progressiva umanizzazione era perfettamente naturale man mano che procedeva la sintesi della dottrina del Logos e del culto di Gesù, e specialmente perché il culto si diffuse sempre più tra persone incolte e non ispirate che avrebbero voluto avere un oggetto più concreto per il loro culto. E così egli doveva avere un padre e una madre umani, un'infanzia e un luogo di nascita. Ora, possiamo dire fin da subito, da ciò che sappiamo della natura dei vangeli, che il nome “Maria” non è né storico né accidentale. Probabilmente era di origine babilonese e fu collegato al dio-salvatore Giosuè dal tempo dell'Esilio, anche se è forse più probabile che risalga ad una data molto più antica, poiché il nome “Miriam” è una variante di Mariam, Maria, o Maria, e Miriam sembra essere stato un nome divino per gli antichi ebrei. Nelle teologie delle antiche religioni orientali c'erano tre grandi divinità maschili, che compongono una triade e una femminile, una dèa vergine. A volte le triadi erano duplicate o triplicate. È praticamente certo che per gli antichi ebrei Mosè, Aronne e Hur formassero la triade divina e che Miriam fosse la dèa vergine. La seconda triade della mitologia assira consisteva di Shamas, Aer ed Hur. La forma ebraica di Shamas era Shammah. Il nome di Mosè è pronunciato Moshé, e la semplice trasposizione delle prime due lettere nella forma ebraica del nome, in cui le vocali non sono scritte come lettere separate, dà Shemmah. Aer e Hur sono evidentemente gli stessi nomi di Aronne e Hur. Il suffisso on è comune in nomi  come Sem, Semon, Habar, Hebron: significa forza o potenza. La coincidenza accidentale tra le forme dei suddetti tre nomi è del tutto fuori discussione; e la conclusione è inevitabile che Moshé, Aronne e Hur formassero la triade ebraica corrispondente alla triade assira, Shamas, Aer e Hur [1]  Stando così le cose, Miriam, che è associata così strettamente con loro, dev'essere la corrispondente dèa vergine. La nostra conclusione è confermata dal fatto che, anche se fu considerata una disgrazia tra gli ebrei per una donna rimanere non sposata (e Miriam era in una posizione nella quale non era probabile per lei che non fosse capace di avere un marito), secondo la storia lei rimase vergine. Non si può supporre che tutte queste credenze antiche scomparissero non appena i sacerdoti cominciarono a imporre il monoteismo al popolo. Sappiamo bene quanto sia difficile sradicare le vecchie superstizioni. Anche nelle nazioni cristiane di oggi le credenze e le pratiche pagane, sottilmente mascherate, persistono ancora. Perciò non sarebbe per nulla straordinario se alcuni ebrei avessero ancora venerato Miriam nei tempi storici. Si può notare che il nome della madre di Gesù dato nel Testamento greco era Mariam.
Ora, Giosuè appare essere una duplicazione di Mosè, e presumibilmente, perciò, fu anche una divinità. Egli è detto essere stato il figlio di Nun — cioè del pesce. Ma in molte mitologie il pesce è l'emblema della madre celeste. Sir Henry Layard scoprì a Ninive la figura di una dèa antica, la parte inferiore del suo corpo era un pesce. C'era un'antica divinità assira il cui nome era
“Nin”, e che è stata descritta come “Dio Pesce”; ma il carattere della figura scoperta da Layard suggerisce che Nin fosse una dèa; e poiché il nome ebraico “Nun” è parente a Nin, potremmo dedurre che anche Nun fosse il nome di una dea. In ogni caso, c'era una stretta connessione tra il pesce e molte dèe antiche. È noto che il pesce fosse  sacro a Ishtar e alla corrispondente deità in altri paesi. Inman [2] fornisce una copia di una piccola statuetta di bronzo, che, al tempo in cui scrisse, era nel Mayer Museum della Free Library di Liverpool. La statuetta rappresenta Iside che allatta il neonato Horus e sul suo capo c'è un pesce. Il pesce aveva anche una connessione simbolica con il culto di Afrodite, ed era sacro a Venere. Venerdì era chiamato dai Romani il giorno di Venere; e il pesce viene ancora consumato dai cattolici romani di venerdì. Alla luce di questi fatti è possibile evitare la conclusione che il significato della dichiarazione che Giosuè fosse figlio del pesce è che egli era figlio della vergine  madre celeste — in altre parole, di Miriam o Mariam? Questa dèa, anche se madre, era considerata vergine. Ishtar lo era altrettanto. Giosuè o Gesù era dunque il figlio della vergine divina Mariam, ed era stato considerato così da tempo immemorabile. Nei vangeli, naturalmente, lei appare come una donna mortale, anche se ancora vergine. Anche Sofia, la madre del Logos, era  considerata vergine; e così, quando il Logos fu identificato con Gesù, le due madri vergini si fusero sotto il nome più antico e più popolare di Mariam, Maria o Mary.
Vale la pena notare in relazione al nome del Messia, Inōn, che il figlio primogenito di Davide fu chiamato Am-non oppure Am-inon. Questo è senza dubbio un nome mitico; significa
mia madre, il pesce. Considera ora questi fatti. Il Messia atteso doveva essere figlio di Davide; si dice che il figlio primogenito di Davide avesse avuto un nome che significa “figlio del pesce”; anche Giosuè era figlio del pesce; il nome attribuito dai rabbini al Messia significa il pesce. Non si può che sospettare che il nome Inōn dato al Messia fosse una forma abbreviata di un originale Am-inon. Se è così, l'identificazione di Giosuè con il Messia è completa. In ogni caso, è difficile vedere come una persona imparziale, in considerazione dei fatti di cui sopra dichiarati, rafforzati come essi sono da altri che sono stati offerti, possa evitare di fare l'identificazione.

4. Il Falegname

L'affermazione che Gesù fosse un falegname è evidentemente molto tarda; infatti Origene, in controversia con Celso, nega che Gesù è detto essere un falegname in ogni vangelo corrente  nelle Chiese. Per questo e per altri motivi, il verso 3 di Marco, capitolo 6, ad eccezione dell'ultima clausola, può esser giudicato con fiducia un'interpolazione posteriore. Colla quale interpolazione scompaiono anche i fratelli e le sorelle di Gesù. L'idea che Gesù fosse figlio di un falegname, senza dubbio, venne prima; che fosse un falegname lui stesso era un'inferenza da questo. L'idea probabilmente è entrata nella storia evangelica nel modo seguente. È già stato menzionato che gli gnostici fecero una distinzione tra Jahvè, il Dio degli ebrei e il puro Dio supremo. Jahvè era il Dio di questo mondo e il suo creatore. Fu pertanto chiamato dagli Gnostici il
“demiourgos”, cioè creatore, operaio, artigiano. Il termine avrebbe potuto essere applicato ad un falegname. Gli gnostici, naturalmente, dissero che il Logos, Gesù, non fu il figlio del demiourgos, ma il figlio del Dio supremo. I giudeo-cristiani si rifiutarono di riconoscere questa distinzione; per loro Gesù era il figlio di Jahvè il creatore. Di conseguenza, Matteo, che è il rappresentante dei giudeo-cristiani tra gli evangelisti, ritenne necessario inserire nel suo vangelo una dichiarazione in tal senso. Egli non avrebbe usato il termine gnostico “demiourgos”, poiché rifiutava la sua implicazione, e perciò impiegò la parola “tektōn”, che ha lo stesso significato, e la cui applicazione sapeva che i suoi lettori avrebbero compreso. Ma la parola “tektōn”, oltre a significare qualsiasi tipo di artefice, era più particolarmente applicato ai costruttori e ai falegnami, e così la parola è tradotta “falegname” nelle nostre Bibbie. La distinzione tra i termini greci “demiourgos” e “tektōn” è davvero molto meno che tra le parole inglesi per “creatore” e per “falegname”. Nota anche che Matteo non scrisse “figlio di un tektōn”, ma “figlio del tektōn”. I primi lettori di Matteo, allora, leggendo che Gesù era figlio del tektōn, compresero abbastanza bene che egli stava affermando che Gesù fosse il figlio del Creatore. Il nome “Giuseppe” fu dato probabilmente al presunto padre di Gesù perché i samaritani, e persino alcuni ebrei, si aspettavano un Messia ben Giuseppe; poi, facendo risalire l'origine di Giuseppe da Davide, una soddisfazione fu concessa sia a coloro che si aspettavano un Messia ben Davide sia a coloro che aspettavano un Messia ben Giuseppe.

5. I Dodici Apostoli

I Dodici Apostoli non sono storici. Vedendo che questo è stato ammesso da un critico molto abile, che era anche un sacerdote della Chiesa d'Inghilterra, si può assumere che le prove sono sufficientemente convincenti. Il professor Cheyne scrisse: “Anche i Dodici Apostoli sono per me altrettanto non storici al pari dei settanta discepoli”. D'altra parte, essi non furono un'invenzione dell'evangelista. La brusca maniera in cui compaiono nel vangelo e la parte insignificante che la maggior parte di loro recitano in seguito, indicano che non sono parte integrante della storia e che gli scrittori erano per qualche ragione costretti a introdurli, oppure che sono stati introdotti successivamente. Ciò significa che essi già esistevano nella credenza popolare. La fonte più probabile di questa credenza è un documento molto antico intitolato L'Insegnamento dei Dodici Apostoli, il quale, anche se non esisteva prima del primo secolo, era in circolazione prima della composizione dei vangeli — probabilmente molto prima. Un'analisi molto accurata ha dimostrato che i primi sei capitoli costituiscono il documento originale, quasi certamente anteriore al primo secolo della nostra epoca. Questa parte è puramente etica e monoteistica ed è senza dubbio ebraica. Il suggerimento del signor J. M. Robertson a suo riguardo è che fosse un manuale di insegnamento utilizzato fra gli ebrei sparsi e i proseliti  della Diaspora da parte dei reali e storici Dodici Apostoli del Sommo Sacerdote di Gerusalemme. Questo manuale fu evidentemente adottato da una comunità che potrebbe essere stata ebionita, ma che fu contaminata di idee gnostiche. Essa aveva infatti identificato il Messia Giosuè con il Logos, come aveva fatto l'antico scrittore gnostico paolino menzionato nell'ultimo capitolo; ma il suo credo fortemente ebraico e monoteistico l'aveva trattenuto dal far di questo Giosuè il Figlio di Dio: egli rimase semplicemente il  “Servo di Dio”. Questa comunità aggiunse al manuale i paragrafi che sono ora numerati 9 e 10 e sono molto interessanti per il racconto che danno della forma dell'Eucaristia usata nella comunità. Anche il paragrafo 14 fu infine aggiunto da questa comunità. Successivamente l'utilizzo del documento si diffuse tra le altre comunità cristiane, dalle quali vi furono inseriti i paragrafi 7 e 8. Il signor Robertson, tuttavia, pensa che il paragrafo 8 possa essere appartenuto al documento originale ed essere stato interpolato; contiene la Preghiera del Padre Nostro, che fu probabilmente ebraica e pre-cristiana. Ad una data ancor più successiva furono aggiunti i paragrafi da 11 a 13, 15 e 16. Quei paragrafi aggiunti, al pari delle Epistole Paoline, manifestano fasi successive della dottrina e organizzazione cristiane. Per i cristiani i Dodici Apostoli di questo documento divennero gli Apostoli di Gesù Cristo.

6. La Cena del Signore

Il sacramento cristiano della Cena del Signore è già stato discusso; ci sono tuttavia alcuni punti ad esso legati che valgono la pena di  un'ulteriore considerazione. Una conferma della concezione che il cristianesimo si sviluppò mediante una sintesi è fornita dalle diverse forme che questo sacramento si ritrovò a dover avere e dalle diverse dottrine su cui si basava nei primi giorni del cristianesimo.
Tre documenti indipendenti riguardanti la Cena del Signore si trovano nei primi documenti cristiani. Tra gli gnostici, naturalmente, questo rito non si originò come parte di un rituale di sacrificio. Fu un atto simbolico per mezzo del quale si affermava il legame tra i partecipanti come membri di una comunità. Questo simbolismo fu approfondito e il pane venne considerato come una rappresentazione concreta dell'unità spirituale dei membri. Questa è la dottrina che troviamo espressa in quello che è probabilmente il più antico racconto del rito in nostro possesso. Nel nono capitolo dell'
Insegnamento dei Dodici Apostoli leggiamo: “Riguardo all'eucaristia, così rendete grazie: dapprima per il calice: Noi ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la santa vite di Davide tuo figlio, che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo figlio. A te gloria nei secoli. Poi per il pane spezzato: Ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la vita e la conoscenza [gnosis] che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo figlio. A te gloria nei secoli. Nel modo in cui questo pane spezzato era sparso qua e là sopra i colli e raccolto divenne una sola cosa, così si raccolga la tua Chiesa nel tuo regno dai confini della terra”. La parola “figlio” in questo brano non significa “figlio” nel senso ordinario, poiché viene usato sia a proposito di Davide che di Gesù. Si noti inoltre che per la comunità che ha utilizzato questo manuale, come per il primo scrittore gnostico delle Epistole Paoline, Gesù è il Logos, in quanto è creduto aver portato agli uomini la gnosi di Dio. Un altro punto importante da notare è che non esiste alcun riferimento al sangue in relazione alla coppa. Gesù è chiamato simbolicamente la “vite di Davide”.
Il racconto successivo in ordine cronologico — cioè per quanto riguarda il documento — è quello dato dal primo Paolo delle epistole. Uno dei frammenti che sono venuti da questo scrittore è 1 Corinzi 10, anche se la sua ultima parte dal verso 24 alla fine sembra essere un'aggiunta di un editore e ci potrebbero essere interpolazioni nella parte precedente. Van Manen ritiene che questa epistola dovrebbe essere datata al 125 circa. Questa potrebbe essere approssimativamente la data in cui le varie porzioni furono combinate in un'unica epistola, ma i frammenti gnostici devono essere assai più antichi di quella; forse furono scritti un po' più tardi della metà del primo secolo. Il seguente è il racconto dell'Eucaristia che troviamo nei versi 16 e 17 del capitolo sopra indicato: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane”. Qui, ancora, il rito simboleggia la comunione. Ho già detto che nelle prime comunità cristiane la comunità, l'intero corpo dei membri, era tenuto a impersonare il corpo di Cristo. Questo è il significato della frase nel primo dei due versi citati. W. B. Smith pensa che qui il “sangue” simboleggia lo “spirito”. Io sospetto comunque che la prima metà del verso 16 è un'interpolazione da parte di un redattore che ha ritenuto che il racconto fosse incompleto senza un riferimento al sangue.
Ora arriviamo al racconto dato da Marco. Raschke ha fornito ragioni per pensare che il racconto primitivo di Marco fosse stato aggiunto successivamente. Cito quello che lui ritiene essere il testo originale:
“Mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse: «Questo è il mio sangue»”, Qui abbiamo una  dottrina diversa. Il resoconto della Settimana della Passione non faceva proprio parte del vangelo scritto originale; vi fu aggiunto. Essenzialmente era la descrizione del rituale di un sacrificio umano. Il sacramento stesso era il mangiare e il bere simbolici della carne e del sangue del dio ucciso. Marco è, comunque, un vangelo gnostico, e così, mentre questo racconto del pasto sacrificale doveva essere assunto col resto della storia, lo scrittore lo riduce alla chiara dichiarazione che il vino e il pane simboleggiano il sangue e il corpo di Cristo; non è inserito niente che potrebbe collegarli a quelli di una vittima sacrificale. In Matteo abbiamo il dogma chiaramente dichiarato.
In Luca troviamo una nuova dottrina; il corpo e il sangue non sono più quelli di una vittima sacrificata; è detto che il sacramento è stato istituito da Gesù per essere solennizzato in futuro
“in memoria di me”. Il racconto in 1 Corinzi 11 ha subito un'ulteriore modifica ed espansione, da cui si può concludere che questo capitolo è successivo e che quando fu scritto il resoconto del sacramento dato in Luca esso era già in esistenza. C'è però una buona ragione per credere che il passo in 1 Corinzi 11 reagì al passo in Luca e provocò qualche espansione in quest'ultimo. Che quella reazione avvenne lo si può ricavare parzialmente dalla natura del passo di Luca com'è ora ricevuto. Ma la prova più forte è fornita dalla versione decisamente più semplice del passo che si trova nella forma più antica (siriaca), tradotta da Burkitt, che recita come segue:
“E prese il pane e rese grazie e lo spezzò e diede loro, e disse:  ‘Questo è il mio corpo che è per voi; fate questo in memoria di me’. E prese un calice e rese grazie e disse: ‘Prendetelo e fatelo passare tra voi, perché io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio’”.
È già stata menzionata la prova interna della posteriorità di 1 Corinzi 11. Inoltre, lo scrittore inizia il suo racconto con le parole: “Ho ricevuto dal Signore quello che vi ho anche trasmesso”. È impossibile dire esattamente cosa significano quelle parole. Sembrano implicare una sorta di rivelazione; qualcosa noto nella stessa maniera in cui la dottrina di Paolo generalmente afferma di essere stata conosciuta, in modo indipendente dalla comunicazione umana. In ogni caso, una dichiarazione così introdotta non può essere accettata come prova di un fatto storico. In questo racconto troviamo la stessa dottrina che c'è in Luca — il pane deve essere mangiato e il vino bevuto “in memoria di me”; Ma c'è un'aggiunta nelle parole: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”. Ora, qual è il significato di questo cambiamento nell'interpretazione del sacramento da quello di un rito sacrificale a quello di un semplice memoriale della vita e della morte di Cristo? La spiegazione sembra ovvia. In parallelo al suo sviluppo la Chiesa volle abolire tutte le prove della vera natura del suo rito centrale. Sappiamo che i cristiani nel secondo secolo furono terrorizzati di scoprire che gli altri culti avevano un pasto sacramentale simile al proprio; e l'ovvia difesa fu accusare gli altri di imitare i cristiani. Poiché il pasto sacramentale in alcuni altri culti era probabilmente anteriore al primo secolo cristiano, gli scrittori cristiani dissero che il Diavolo, che sapeva ciò che doveva venire, aveva introdotto nei suddetti culti dei rituali simili a quello cristiano come una parodia della vera religione, affinché questa non potesse essere ammirata al suo arrivo. Quando, per l'influenza dei vangeli, la fede nella vita terrena di Gesù come uomo era diventata universale nelle Chiese cristiane, e quando vollero distinguere il loro culto da quelli dei pagani attribuendo l'origine della loro religione a quest'uomo-dio come suo fondatore, la dottrina del sacramento che mostrava che Gesù era una deità sacrificata della stessa natura di tutte le altre rappresentò un serio ostacolo sul loro percorso, e così  sostituirono l'idea del sacrificio con quella del ricordo. Il significato dogmatico del sacramento, secondo la versione di Matteo, che è ancora il significato essenziale del rito nella maggioranza delle Chiese cristiane, consente in effetti una forte conferma della concezione che  Gesù era un dio-salvatore della stessa natura di Adone, Osiride, Mitra, e il resto. L'idea che il sacramento cristiano fosse stato copiato dai pagani è insostenibile. È stata data una prova della sua originalità; e, come si è detto prima, i primi cristiani furono sorpresi e scioccati quando si resero conto della somiglianza tra il loro sacramento e quello di altre religioni.

NOTE

[1] Probabilmente Abramo, Isacco, Giacobbe e Sara erano le corrispondenti divinità cananee.

[2] Ancient Faiths Embodied in Ancient Names.

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