martedì 18 aprile 2017

Circa «Le mystère de Jésus» di Paul-Louis Couchoud (VI)

(Questa è la sesta parte della traduzione italiana di un libro del miticista Paul-Louis Choucoud, «Le mystère de Jésus». Per leggere il testo precedente, segui questo link)

 
VI. PAOLO

Le prime testimonianze del cristianesimo sono le lettere di Paolo. Esse si staccano nettamente, avanzandoli, da tutti i documenti cristiani, separate dagli altri da un netto intervallo. I Vangeli sono ad esse posteriori di una ventina d'anni, di una trentina, di una cinquantina. Sono il promontorio più avanzato sul quale possiamo stabilirci per frugare nella nebbia variopinta che nasconde i primi tempi della fede.
Nel 51-52, mentre Claudio era imperatore per la ventiseiesima volta, prima di diventare con la sua morte, tre anni più tardi, il più grande degli Dèi, il fratello di Seneca, L. Giulio Anneo Gallione, ebbe per un anno il proconsolato di Acaia. La sua residenza coloniale, l'Onore di Giulio, “Colonia Laus Iulia Corinthus”, era una città nuova edificata sulle rovine dell'illustre Corinto, un centro di traffici succeduto a Delo per i grandi scambi fra l'Oriente e l'Occidente.
Un mercato così attivo esigeva, accanto a grandi magazzini, molte costruzioni leggere, baracche temporanee, che levantini e giudei costruivano rapidamente. Fra gli ebrei si trovavano i coniugi Aquila e Priscilla, che erano stati banditi da Roma in seguito ai tumulti di
Chrestus. Aquila e soprattutto Priscilla, tenevano per la Via nuova, per la dottrina del Messia già manifestata. Essi accolsero e diedero lavoro ad un ebreo di Cilicia grande propagatore della medesima dottrina, che era stato da poco cacciato di Macedonia, come essi erano stati cacciati da Roma (Atti, 17, 5-10; 18, 2-3).
L'arruolato, Saulo Paolo, ossia Saulo il Piccolo, era un terribile ometto, uno spirito di fuoco in un corpo di aborto, un timido audace, un meschino orgoglioso, un debole che brandiva una forza divina, un malato infaticabile, un pitocco che conquistava il mondo. Satana lo schiaffeggiava, Gesù lo riconfortava. Era più idoneo a stupire ed appassionare un uditorio che a piantare una tenda o a costruire un tetto di capanna.
In capo a qualche tempo egli fu raggiunto da due altri cristiani, Sila Silvano e Timoteo. Essi recavano notizie del gruppo di Tessalonica, fondato da essi e da Paolo durante una pericolosa missione pagata liberalmente dal gruppo di Filippi, di cui faceva parte una mercantessa di porpora, generosa e zelante (Filippesi 4, 16; Atti 16, 14-15). Recavano anche denaro della prospera Macedonia (2 Corinzi 11, 9).
Paolo poteva abbandonare alquanto il martello e le corde, “essere preso dalla parola” (Atti 18, 5). Pieno di una nobile gioia, felice soprattutto di non avere invano incontrato dolori e pericoli, egli si pose in spirito in mezzo ai Tessalonicesi che credevano a Dio ed al Messia. Egli salmeggiò per essi una lettera che come le altre, era un'effusione dello spirito, un'istruzione preparata e ritmica, quale egli avrebbe pronunciata se li avesse avuti corporalmente dinanzi a sé.
Questa lettera che Paolo dettò, con la cadenza biblica, cantando un poco, noi la possediamo. È di poco anteriore all'anno in cui Gallione fu proconsole di Acaia (51-52). È il più antico documento in cui si legga il nome di Gesù.
Dopo aver abbandonato Corinto, il geniale pigmeo mandò molte lettere del medesimo genere ai santi di questa città, presso i quali la sua influenza era combattuta da altri propagandisti.
Dall'Asia scrisse ancora ai suoi cari cittadini di Filippi, ai Colossesi, che non lo conoscevano, ai Galati che minacciavano di sfuggirgli.
Infine, tornato a Corinto, verso il 54-55, indirizzò un accurato modello della sua Buona Novella ai romani da cui, senza essere ancora conosciuto, era già ben visto.
Le lettere di Paolo sono il primo monumento del cristianesimo. Dal loro esame dipende la risposta alla questione: Gesù è un piccolo rivoltoso ebreo divinizzato? Il mistero cristiano fu tratto da un fatto diverso di cronaca?
Fin dall'indirizzo della lettera ai Tessalonicesi il nome di Gesù è pronunciato. E lo è accanto a quello di Dio:
“Paolo, Silvano e Timoteo all'assemblea dei Tessalonicesi in Dio Padre e nel Signore Gesù Messia...”
Nella mistica favella di Paolo, essere in Gesù o nel Messia, o nel Signore, è praticamente la stessa cosa che essere in Dio. I Tessalonicesi sono in Dio e Gesù. Quelli di Filippi sono in Gesù (Filippesi 1, 1); il senso è il medesimo. Gesù è la manifestazione più precisa di Dio.
Questa stretta parentela fra Dio e Gesù si accusa un pò più lontano in un modo curiosamente grammaticale:
“Che egli, il nostro Dio e Padre e nostro Signore Gesù, conduca il nostro cammino verso di voi!” (1 Tessalonicesi 3, 11).
Il pronome “egli” e il verbo “conduca” sono al singolare, sebbene si riferiscano ad un tempo a Dio ed a Gesù.
Qui la sintassi tradisce il fondo del pensiero. Sì, senza dubbio, Gesù è differente da Dio: è questo un punto da precisare. Ma se si parla in fretta e in chiari termini, Gesù è lo stesso Dio. Gesù e Dio non fanno più un plurale.
L'ineffabile tetragramma Jahvé, è regolarmente tradotto dai Settanta: il Signore (Kyrios). Paolo, senza bestemmia, chiama Gesù il Signore. Egli apre la sacra Bibbia greca, legge qualche passo dove si parla di Jahvé, e, con la massima naturalezza, lo applica a Gesù.
Ne abbiamo subito un esempio, Zaccaria (14, 5) predice il giorno di Jahvé: “Il Signore mio Dio verrà, e tutti i suoi santi con lui”. Paolo annuncia ai Tessalonicesi “l'apparizione del nostro Signore Gesù con tutti i suoi santi”. Zaccaria dice Jahvé, Paolo dice Gesù e crede di dire la stessa cosa.
Ecco quanto ci fa apprendere su Gesù il più vecchio documento che parli di lui. Siamo ad una distanza infinita dal Gesù di Loisy.
Nelle altre sue lettere Paolo aggiusta la Scrittura nel medesimo modo. Egli legge in Gioele (II, 32):
“Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo”.
Si tratta di Jahvé. Egli cita: si tratta di Gesù (Romani 10, 13).
Egli apre Isaia (45, 23):
“Io sono Dio... davanti a me si piegherà ogni ginocchio, ogni lingua confesserà Dio”.
Egli traduce:
“Ogni ginocchio si pieghi al nome di Gesù...ogni lingua confessi che il Signore è Gesù Messia!” (Filippesi 2, 10).
Che è dunque Gesù perché ogni ginocchio si pieghi davanti a lui come davanti a Jahvé? Paolo lo dice ai cittadini di Colosse. Gesù è:
“Immagine del Dio invisibile, il primogenito di ogni creatura, poiché in lui sono state create tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra” (Colossesi, 1, 15-17, 19).
Non si tratta qui di esporre la teologia di Paolo. Il poco che già ne sappiamo basta. È evidente che Gesù è l'emanazione visibile di Yahvé. Egli è Figlio di Dio nel senso in cui si direbbe: lo splendore visibile del Sole è figlio di un Sole trascendente inaccessibile ai sensi. Ogni volta che Dio si manifestò visibilmente come durante i sei giorni della Creazione, fu Gesù a compiere l'opera.
Se ora si torna al contadino galileo, al ribelle di Gerusalemme, come non trovarsi atterriti di fronte alla tappa ch'egli avrebbe dovuto superare, prima delle lettere di Paolo, per compiere una simile violenta entrata nella divinità? Le impossibilità sorgono da ogni parte.
Certamente, alcuni uomini erano deificati. Mentre Paolo era ad Efeso, vi giunse un gran Dio: il povero Claudio che, per cura di Agrippina, era stato trasformato in Dio per le leali province, alla faccia di Seneca e di coloro che lo avevano conosciuto da vicino. Claudio era divino come lo erano stati i successori di Alessandro ed Alessandro stesso, ad imitazione dei re persiani e dei Faraoni. Egli era l'erede moderno dei re primitivi, sacerdoti e Dèi.
Uomini divini circolavano per l'Asia, talvolta con pericolo delle borse. Per certe buone anime Apollonio di Tyana era un Dio, come dovevano esserlo più tardi Alessandro di Abotonico che faceva parlare un serpente, Aristeo di Proconneso che scompariva dalla vista e in seguito si faceva vedere in diversi luoghi, Ermotimo di Clazomene la cui anima evadeva dal corpo, Cleomeno d'Astipalea che, entrato in un baule, non vi fu più trovato (Celso, in Origene, Contra Celsum, 3, 26-33). In molte parti dell'Impero era cosa possibile la deificazione di un uomo.
Ma in una nazione almeno la cosa era impossibile: proprio fra gli ebrei. Essi adoravano Jahvé, l'unico Dio, il Dio trascendente, indicibile, di cui non si disegnava il volto, di cui non si pronunciava il nome, separato da ogni creatura da abissi di abissi. Associare a Jahvé un uomo, qualunque egli fosse, era il sacrilegio, l'abominazione suprema. Gli ebrei onoravano l'imperatore, ma si lasciavano far a pezzi piuttosto di ammettere a fior di labbra che l'imperatore fosse un Dio. Si sarebbero egualmente lasciati fare a pezzi se avessero dovuto dire ciò di Mosè stesso.
E il primo cristiano di cui noi intendiamo la voce, un ebreo figlio di ebrei, assocerebbe un uomo a Jahvé con la maggior facilità del mondo! Ecco il miracolo al quale io mi ribello. Quelli dei Vangeli non farebbero difficoltà. Essi potrebbero essere cento volte più numerosi, non basterebbe così poco a farmi dubitare dell'esistenza storica di Gesù. L'ostacolo invincibile è il culto di Gesù, la religione cristiana. Guardando in fondo alle cose, l'esistenza del cristianesimo, lungi dal provocare quella di Gesù, la esclude.
Come si può fondare sulla Bibbia la trasformazione di un uomo in Dio? Come sostenere Paolo e il loro Gesù? Ma noi afferriamo Paolo mentre il loro Gesù è da ultimo una ipotesi.
Il Gesù preteso storico, un popolano che sarebbe stato re, campagnolo illuminato, ingenuo avventuriero che, gettata via la spada, avrebbe marciato su Gerusalemme per impadronirsene in nome di Dio, protestatario impotente, ribelle senz'armi, Messia mancato, deve restare alla porta della storia. I suoi titoli non sono in regola. Sulle sue carte d'identità che sono divine la parola uomo fu inserita con frode. Lo si deve congedare senza esitazione, perché non può servire a nulla. Le sue spalle sono troppo fragili per portare l'edificio cristiano.
Certo, il sentimento non ha nulla a vedere in un problema di storia. Se manifestamente il cristianesimo fosse la deificazione di un uomo, lo si dovrebbe prendere per tale, per quanto desolante o ripugnante potesse parere una simile aberrazione del sentimento religioso. Ma a ciò si oppongono i fatti. Il cristianesimo non è la deificazione di un uomo. È esso al contrario che rende così estranee al nostro spirito le apoteosi che sembravano naturali all'antichità.
La novità religiosa che Paolo propagò “da Gerusalemme, a cerchio, fino all'Illiria”, non è il culto di un uomo. Egli non sarebbe stato molto ascoltato. Un morto divinizzato, per grande ch'egli sia, non è idoneo ad interessare violentemente coloro che non sono suoi congeneri. Staccato dal gruppo in cui ebbe origine, è presto spostato e perde il suo prestigio.
Ciò che il nano di fuoco proclamava a Filippi, nella retobottega della buona Lydia, in casa di Giasone a Tessalonica, da Giusto a Corinto, nella scuola di Tiranno ad Efeso, era lo stretto monoteismo d'Israele. Ma lo predicava in una forma inaudita e appassionante, nel Signore Gesù. Egli conosceva una nuova opera di Jahvé; l'opera della salvezza universale, e una nuova faccia di Jahvé, benigna, dolorosa e umana. Questa nuova faccia, la si chiamava Gesù, Javhé che salva, Colui che salva.
Giammai Paolo si richiamò ad un rapporto storico. Per lui l'esistenza di Gesù non è riferita, è rivelata. Non è un dato storico, è una deduzione dell'esegesi, confermata dal miracolo. Ha per garante gli scritti santi e l'esperienza interiore, la lettera e lo spirito. Non occorre nulla di più. Ha testimoni sufficienti: Davide, Isaia, Daniele. Ma Dio non si contentò di far parlare i profeti. Egli mostrò questo Figlio e la sua radiosa gloria ad alcune persone di cui si fanno i nomi e di cui fa parte Paolo, questo aborto. E come dubitare di queste visioni quando si considera l'effusione di doni e di miracoli che, in tutte le assemblee, provano la sua presenza e la sua forza?
Secondo ogni apparenza, Paolo non differiva dagli altri predicatori di Gesù se non per la splendida ampiezza del dono profetico e per la profondità del genio mistico. Sulle due basi della fede: descrizione sommaria di Gesù in conformità delle Scritture ed elenco delle visioni, i primi apostoli e Paolo erano completamente d'accordo. C'è ogni ragione di pensare che Gesù fu sin dall'origine quello che vediamo nei testi più antichi: uno sdoppiamento del vecchio Dio d'Israele, il figlio divino di Yahvé.
All'origine del cristianesimo si trova un'invenzione teologica. Il Kyrios della vecchia Bibbia si è sdoppiato in Dio creatore e in Kyrios Christos. La nozione di Gesù non fu tratta da un fatto della storia, ma da un'interpretazione nuova dell'antica parola di Dio. Un'esegesi mistica e innovatrice diede l'impulso. Le visioni, i miracoli, gli oracoli nuovi dello Spirito apportarono la conferma. Ecco il punto in cui si trova Paolo. La leggenda in forma storica non venne se non dopo di lui.
A Paolo si deve chiedere la più sicura informazione sull'inizio della fede. Il cristianesimo esistette allo stato latente dal momento in cui si riunì nella medesima figura e sotto il medesimo nome Jahvé stesso in alcuni dei suoi aspetti, il Messia dei profeti, il Servo di Dio d'Isaia, il Giusto perseguitato dei Salmi, e in cui si ebbe così la nozione complessa di un Figlio di Dio morto e risorto, che doveva giudicare il mondo. Ma esso sorse e cominciò veramente il giorno in cui quel personaggio splendente, nato in piena Scrittura, apparve a qualcuno. Quest'uomo, il primo che vide Gesù, Paolo l'ha nominato (1 Corinzi 15, 11).
È Cefa Pietro, san Pietro. Dalla visione di Pietro è nato il cristianesimo. Poiché occorre un fiammifero, eccolo.
La visione di Pietro si riprodusse per dodici persone, poi per cinquecento, poi per un uomo cospicuo di Gerusalemme, Giacomo, poi per tutti quelli che furono chiamati inviati dal Messia, infine per Paolo il nano.
La fede cristiana ebbe uno sviluppo regolare. La sua storia non è più confusa e si illumina non appena si è ben percepito questo fatto primordiale:
Gesù non è un uomo progressivamente divinizzato, ma un Dio progressivamente umanizzato.
È facile distinguere un Dio umanizzato da un morto divinizzato. Il culto di Gesù non ha nulla di funebre.
La sua storia umana non è primitiva. Pietro e Paolo hanno visto un Dio. Soltanto dopo Paolo fu data a questo Dio una maschera umana, un'apparenza di stato civile, e lo si inserì indebitamente nella storia. Gesù non dovette diventare Dio. Non ebbe a far altro che restare Dio sotto la tonaca incolore che lo traveste.
Egli non è un fondatore di religione ma un Dio nuovo. Non è l'iniziatore della fede, fuorché nel profondo dei cuori. Non è il promotore di un culto, ma l'oggetto di questo culto. Non è il predicatore ma il Dio predicato. Non è Maometto, è Allah.

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