domenica 16 aprile 2017

Circa «Le mystère de Jésus» di Paul-Louis Couchoud (IV)

(Questa è la quarta parte della traduzione italiana di un libro del miticista Paul-Louis Choucoud, «Le mystère de Jésus». Per leggere il testo precedente, segui questo link)


— IV. MARCO

Dobbiamo dunque trarre anche noi dai cristiani ogni nostra conoscenza di Gesù. Per tracciare una pura e sicura storia dei fatti, non è questa una buona posizione.
I cristiani non si posero mai dal punto di vista dello storico critico. Essi non possono farlo. Per essi la rappresentazione delle origini della fede fa parte della fede. Essi concepiscono un Dio incarnato che venne in terra ad apportare la salvezza. In nessun momento i cristiani si raffigurarono Gesù come un semplice essere umano. Sempre la teologia si mescolò alla loro visione di Gesù, a tal punto che ci si può chiedere se essa non ha creato la visione intera. Loisy ha detto benissimo: “Ciò che è comunemente chiamata storia evangelica è molto meno la storia di Gesù che il poema della redenzione per mezzo del Cristo”. Lo storico deve guardarsi dal trasformare illecitamente in una testimonianza della storia ciò che è una testimonianza della fede.
Egli potrebbe almeno sperare di non aver più l'imbarazzo della povertà, ma quello della ricchezza. Se si guarda da vicino, rimane povero, se ancor più da vicino, rimane poverissimo.
Se Gesù considerato come Dio ha ispirato un oceano di scritture che supera di gran lunga il mare del Talmud, Gesù concepito come persona storica non è oggetto che di un piccolo numero di scritti chiamati Vangeli, fra i quali i cristiani ne trattennero quattro per la lettura liturgica. Essi non appartengono alla prima età cristiana. Il più antico è posteriore almeno di una ventina d'anni alle lettere di Paolo, nelle quali Gesù non figura affatto come personaggio della storia.
Uno dei quattro è la fonte principale di altri due: si ammette generalmente che i Vangeli secondo Matteo e secondo Luca dipendono, per i principali fatti narrati, dal Vangelo secondo Marco. Per dipendenza a questo, essi sono secondari. Quanto all'ultimo, il Vangelo secondo Giovanni, è il più teologico fra tutti, e così visibilmente che lo storico più compiacente ne è sconcertato. L'enigma di Gesù si riassume quindi per i critici in questa questione: il Vangelo secondo Marco è un documento di storia?
Per rispondere, si deve prima determinare che cosa esso pretenda di essere.
Esso non si dà per una storia, una cronaca, un racconto, una vita. Esso s'intitola: Buona Novella.
L'autore scrive in testa “Principio della Buona Novella su Gesù Messia figlio di Dio”. E subito, senza maggiori formalità, senza citare nessuna fonte storica, egli apre la sua Bibbia, o piuttosto la sua piccola scelta di citazioni bibliche, sopra un testo di Malachia, attribuito per errore ad Isaia. Non è questo il contegno di uno storico ordinario. Manca una spiegazione. Si suppone che il lettore conosca il senso dell'espressione:
la Buona Novella, che già da lungo tempo era correntemente usata nelle assemblee cristiane.
È questa una parola mistica per designare una cosa mistica, la cosa specificamente cristiana. Essa viene dalla Bibbia greca. È tratta da qualche passo profetico, interpretato in un senso libero e nuovo.
In Isaia, un pò prima del celebre capitolo 53 sulle sofferenze del Servitore di Dio, il testo sul quale i cristiani hanno maggiormente meditato, si trovano queste parole poetiche:
Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di buone novelle” (Isaia, 52, 7).
Chi sono questi buoni messaggeri? “Noi!”, risponde Paolo, “noi che annunciamo il Messia Gesù!”. E qual è la buona novella? Precisamente ciò che segue in Isaia: le sofferenze espiatrici, la morte e la resurrezione del Servo di Dio... Nulla c'è nella parola
buona novella (o Vangelo) che supponga un racconto storico.
Così intesa, la
Buona Novella, chiamata anche il Mistero, è dappertutto, in Paolo, al primo piano. Non è un ricordo storico, né una dottrina filosofica, ma una rivelazione di Dio. È conosciuta soltanto per vie mistiche. È “quella buona novella che Dio aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, riguardo a suo Figlio”. Nascosta al mondo, espressa enigmaticamente nelle Scritture, essa fu completamente rivelata ad alcuni mediante una speciale apocalisse.
Nei primi otto capitoli della sua lettera ai Romani, Paolo espone come egli proclama la buona novella. Col suo lirismo abbondante e caldo, egli mostra la collera di Dio, la salvezza per mezzo di Gesù, la pace con Dio, la morte del peccato, la morte della Legge, la vita dello spirito. Ma in un passo secco e preciso della prima lettera ai Corinzi (1 Corinzi 15, 3-8) egli riassume come la proclamano tutti. È un breve riassunto della buona novella primitiva. È molto semplice. Consiste in due cose: un'interpretazione nuova delle Scritture per la quale si riconosce che il Messia morì per i nostri peccati, fu sepolto, e resuscitò il terzo giorno; un elenco ufficiale delle persone a cui egli apparve. Essa ha due fonti: le Scritture ispirate, le visioni autentiche. Per entrambe le vie è lo spirito di Dio quello che la rivela.
Dopo Paolo, la nuova parola
evangelista” entra nel gergo cristiano. L'evangelista è un profeta specializzato che eccelle nell'inculcare la buona novella, ossia la temibile dottrina che concerne Gesù. Egli fa ciò in grazia di un dono spirituale. Nell'epistola agli Efesini gli evangelisti sono citati dopo gli apostoli ed i profeti, nell'elenco degli ispirati (Efesini 4, 11).
Il libro degli Atti ci presenta Filippo, evangelista, attorniato dalle sue quattro figlie, profetesse (Atti 21, 8-9). Lo vediamo, nell'esercizio della sua prerogativa, spiegare al grande eunuco di Candàce, regina degli Etiopi, il famoso capitolo 53 di Isaia, così arduo per i neofiti, compendio del cristianesimo. Fu un angelo che gli ordinò di appostarsi sulla strada di Gaza, al passaggio del carro dell'eunuco e, dopo il suo vittorioso commento, lo spirito di Gesù lo rapisce e lo trasporta in Azoto (Atti 8, 26-40), così che noi sospettiamo che tutto ciò sia avvenuto in una visione estatica. Questo racconto sembra essere il residuo di una piccola apocalisse che trasformava in racconto il testo d'Isaia: “L'eunuco non dica:
Ecco, io sono un albero secco!” (56, 2) e quello del Salmo 67: l'Etiopia sarà la prima a tendere le sue mani a Dio” (Salmo 67, 32). Egualmente dotato per l'esegesi mistica e la visione immaginaria, Filippo è davvero un compiuto evangelista.
Anche Marco è un evangelista. Egli tratta la Buona Novella come deve farlo, sulla base dell'esegesi accettata e delle visioni approvate.
Tuttavia i testi sono sottintesi, le visioni ridotte ad episodi. Vi si mescolano aneddoti semplici, alcuni dei quali hanno molta apparenza di verosimiglianza, ed un racconto della morte di Gesù che sembra quasi plausibile. Si resta perplessi davanti a quest'opera indecisa. È una Buona Novella che prende l'aspetto di storiografia. È un'apocalisse che sembra corroborata da ricordi reali. Che cosa è  in questa materia storico? Che cosa vi è visione, simbolo, o leggenda ricamata sopra un testo noto? La critica capovolge il problema. Questo piccolo libro, dall'aria senza malizia, è il più complicato che esista.
Esso si divide in due parti che, entrambe, cominciano al medesimo modo, con una scena di visione. Si fa intendere una voce dal cielo che con una parola spiega il significato delle scene che seguiranno. È questo il consueto procedimento delle apocalissi, dove cielo e terra si confondono e dove voci celesti nominano le creature soprannaturali che sono presentate alla vista.
Nell'esordio della prima parte, Gesù è immerso da Giovanni il Battista nel Giordano.
“E subito egli, risalendo dall'acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito in forma di colomba scendere su di lui. E una voce uscì dai cieli: Tu sei il mio Figlio diletto, in te io mi sono compiaciuto” (Marco, 1, 9-11).
Così noi siamo avvisati che il personaggio che agirà sotto i nostri occhi è il misterioso Servo cantato da Isaia. Questa piccola scena apocalittica è il richiamo e la prima trasformazione in dramma dei passi notissimi:
“Ecco il mio servo che io ho scelto; il mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Porrò il mio spirito sopra di lui e annunzierà la giustizia alle genti. Non contenderà, né griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce. La canna infranta non spezzerà, non spegnerà il lucignolo fumigante, finché abbia fatto trionfare la giustizia; nel suo nome spereranno le genti” (Isaia 42, 1-4, citato secondo Matteo, 12, 18-21).
“Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” (Isaia 60, 1, citato da Luca, IV).
Ma questo Figlio diletto è un essere ideale, immaginato dai profeti, non un personaggio storico.
Poiché i testi sacri forniscono il soggetto, l'immaginazione cristiana fa il quadro. Lo spirito di Dio è una colomba perché si immaginava che in tale forma avesse aleggiato sulle acque primordiali. L'unzione del Figlio è rappresentata dal battesimo, perché nel battesimo il cristiano riceve lo Spirito. Giovanni il Battista è là a causa del testo di Malachia che esige che Elia venga come precursore (Malachia 3, 1), e perchè è Elia che deve ungere il Messia. Ora, Giovanni il Battista è Elia stesso (Marco 9, 12), tornato col suo mantello di pelo e la sua fascia di cuoio intorno ai fianchi. Il testo di Malachia citato da Marco nella sua prima linea serve da epigrafe e da base al racconto del battesimo di Gesù. Qui non c'è nulla che non sia altro che teologia in immagine.
Le scene seguenti mostreranno ciò che può il Figlio diletto, investito dallo Spirito. Esse svolgeranno tutto ciò che annuncia il canto d'Isaia di cui la voce celeste intonò il primo versetto. Prima di giudicare vittoriosamente i popoli, il Messia Figlio di Dio resterà dolce, appartato, segreto, senza disputa né clamore, risparmiando il giunco urtato e il lino fumante. Lo vedremo agire in sordina, in pectore, facendo tacere i rumorosi demoni che lo riconosceranno. Non parlerà nelle strade delle città, ma in luoghi deserti. I pagani spereranno in lui. E durante un anno di grazia egli confiderà la Buona Novella ai poveri, chiamerà alla libertà i prigionieri, guarirà i ciechi, affrancherà gli oppressi. Di tutto ciò Isaia è la prima sorgente.
Questo tema un pò bizzarro, imposto dalle Scritture, poteva essere svolto dall'evangelista con le sole risorse della visione apocalittica. Egli poteva essere rapito fino alle sublimi altezze dove si librano Paolo e l'autore dell'Apocalisse, oppure poteva cantare una serie ben riuscita di mistici poemi come quelli che compongono il quarto Vangelo. Ma egli mancava di slancio, in modo deplorevole. Il suo genio non era né sublime né lirico, ma piuttosto prosaico e piatto. I suoi angeli erano pedestri. Buon uomo un pò perduto in un genere troppo alto per lui, se la cavò non senza finezza. Introdusse nella Buona Novella non precisamente della storia ma delle storie, ciò che egli aveva inteso narrare dei primi tempi cristiani. Ciò forma la singolarità e l'interesse del suo poema mancato.
Secondo una tradizione ecclesiastica che risale all'inizio del secondo secolo, Marco era stato l'interprete di Pietro (il quale senza dubbio conosceva soltanto la lingua aramaica) e scrisse più tardi, come la memoria gli suggeriva, ma senza nulla omettere né inventare, ciò che aveva inteso dire da Pietro degli oracoli e dei miracoli del Messia. Ciò è molto verosimile, salvo che si voglia sospettare che i discorsi di Pietro siano stati corretti sotto l'influenza di Paolo. Poiché se, nel Vangelo di Marco, Pietro e gli apostoli galilei sono particolarmente portati sulla scena, è solo per rappresentare la parte di persone del tutto prive d'intelligenza e perfettamente spregevoli, completamente in contrasto con la figura ideale del Messia.
Dopotutto Pietro, che noi non conosciamo, aveva potuto presentare le cose in quella forma modesta e arguta.
Solo, ciò che sorprende è una strana somiglianza fra certi fatti narrati di Pietro stesso nel libro degli Atti e certi fatti narrati di Gesù nel vangelo di Marco.
In Lydda,
“Pietro trovò un uomo di nome Enea, che da otto anni giaceva su un lettuccio ed era paralitico. Pietro gli disse: «Enea, Gesù Cristo ti guarisce; alzati e rifatti il letto». E subito si alzò. Lo videro tutti gli abitanti di Lidda e del Saròn e si convertirono al Signore” (Atti, 9, 33-35).
A Cafarnao,
“Vennero a lui alcuni con un paralitico portato da quattro uomini. Non potendo farlo giungere fino a lui a causa della folla, scoperchiarono il tetto dalla parte dov'era Gesù; e, fattavi un'apertura, calarono il lettuccio sul quale giaceva il paralitico. E Gesù... disse al paralitico: «àlzati, prendi il tuo lettuccio, e vattene a casa tua». Ed egli si alzò e, preso subito il lettuccio, se ne andò via in presenza di tutti; sicché tutti si stupivano e glorificavano Dio, dicendo: «Una cosa così non l'abbiamo mai vista»” (Marco 2, 3-4, 11-12).
È possibile che quei due infermi avessero il medesimo lettuccio. Ecco un fatto ancor più significativo.
Miracolo di Pietro:
“A Ioppe c'era una discepola, di nome Tabita, che, tradotto, vuol dire Gazzella: ella faceva molte opere buone ed elemosine. Proprio in quei giorni si ammalò e morì. E, dopo averla lavata, la deposero in una stanza di sopra. Poiché Lidda era vicina a Ioppe, i discepoli, udito che Pietro era là, mandarono due uomini per pregarlo che senza indugio andasse da loro. Pietro allora si alzò e partì con loro. Appena arrivato, lo condussero nella stanza di sopra; e tutte le vedove si presentarono a lui piangendo, mostrandogli tutte le tuniche e i vestiti che Gazzella faceva, mentre era con loro. Ma Pietro, fatti uscire tutti, si mise in ginocchio, e pregò; e, voltatosi verso il corpo, disse: «Tabita, àlzati». Ella aprì gli occhi; e, visto Pietro, si mise seduta. Egli le diede la mano e la fece alzare; e, chiamati i santi e le vedove, la presentò loro in vita. Ciò fu risaputo in tutta Ioppe, e molti credettero nel Signore” (Atti 9, 36-42).
Il quadro è grazioso. Si vede l'adunata delle vedove che fanno l'elogio della morta, le mirologia, come si usa ancora in paese greco.
Miracolo di Gesù:
“Gesù stava presso il mare. Ecco venire uno dei capi della sinagoga, chiamato Iairo, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi e lo pregò con insistenza, dicendo: «La mia bambina sta morendo. Vieni a posare le mani su di lei, affinché sia salva e viva». Gesù andò con lui, e molta gente lo seguiva e lo stringeva da ogni parte... Giunsero a casa del capo della sinagoga; ed egli vide una gran confusione e gente che piangeva e urlava. Entrato, disse loro: «Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». Ed essi ridevano di lui. Ma egli li mise tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui, ed entrò là dove era la bambina. E, presala per mano, le disse: «Talithà kum!» che tradotto vuol dire: «Ragazza, ti dico: àlzati!» Subito la ragazza si alzò e camminava, perché aveva dodici anni. E furono subito presi da grande stupore; ed egli comandò loro con insistenza che nessuno lo venisse a sapere; e disse che le fosse dato da mangiare” (Marco 4, 21-24, 38-43).
Tabitha kum, Talitha kum: si ha l'impressione che qui si abbiano due versioni parallele di un medesimo fatto meraviglioso che era stato molto ripetuto da labbra cristiane. In principio si riferiva a Pietro. Tabitha si è alterato in Talitha.
È cosa molto naturale che i medesimi fatti siano attribuiti dal cronista a Pietro, dall'evangelista a Gesù, se si tiene conto della differenza dei loro punti di vista. Per il cronista agiografo, è Pietro in apparenza che guarì il paralitico e resuscitò la morta. Ma Pietro disse al paralitico: “Gesù Messia ti guarisce”. E per l'evangelista che vede le cose in un piano soprannaturale, che ha il compito di descrivere le meraviglie operate dal Messia Figlio di Dio, è Gesù stesso che disse:
«àlzati!» al paralitico ed alla fanciulla ed ebbe il potere di farli alzare.
Per introdurre in una Buona Novella i ricordi di Pietro, Marco doveva mutarli di posizione. Forse già Pietro stesso aveva mutato il loro piano. Bisognava parlare in spirito. Si doveva dire Gesù là dove i carnali dicevano Pietro. Era Gesù che aveva agito.
Poiché Pietro stesso si diceva incapace di operare un miracolo, non essendo, come gli altri apostoli, se non uno zoticone senza virtù taumaturgiche.
Ben prima di Marco, nelle lettere di Paolo, Gesù è lo spirito che muove gli operatori di miracoli e i profeti, che parla ed agisce per mezzo di essi e di tutti coloro in cui vive. I poteri di guarigione, le produzioni di miracoli sono energie dello Spirito, così come le profezie, i detti di saggezza, i detti di scienza, il discernimento degli spiriti, il parlare in lingue inintelligibili (1 Corinzi 12, 8-10). Diverse sono le ispirazioni, unico l'Ispiratore.
Paolo distingue accuratamente il caso in cui egli parla in parola del Signore, ossia enuncia nell'estasi un oracolo ispirato che è oracolo vero di Gesù, dal caso in cui lui parla, lui, non il Signore. Non si può capire nulla dei primi documenti cristiani finché non si sente fortemente come Gesù Spirito fosse una persona familiare e vivente in tutte le assemblee cristiane. Al tempo di Paolo le manifestazioni di Gesù erano molteplici e frequenti. Al tempo di Marco erano diventate rare, e quelle dei primi tempi, narrate a uditori nuovi, si fissavano in leggende.
È dunque ben vero che la prima parte della buona novella di Marco può avere simili ricordi per fonte accessoria. Ma non è certo che all'origine non si riferissero a Gesù Spirito.
L'esordio della seconda parte ci riconduce in piena apocalisse.
“Gesù prese con sé Pietro, Giacomo, Giovanni e li condusse soli, in disparte, sopra un alto monte. E fu trasfigurato in loro presenza; le sue vesti divennero sfolgoranti, candidissime, di un tal candore che nessun lavandaio sulla terra può dare. E apparve loro Elia con Mosè, i quali stavano conversando con Gesù. Pietro, rivoltosi a Gesù, disse: «Rabbì, è bello stare qua; facciamo tre tende: una per te, una per Mosè e una per Elia». Infatti non sapeva che cosa dire, perché erano stati presi da spavento. Poi venne una nuvola che li coprì con la sua ombra; e dalla nuvola una voce: «Questo è il mio diletto Figlio; ascoltatelo». E a un tratto, guardatisi attorno, non videro più nessuno con loro, se non Gesù solo” (Marco 9, 2-8).
Ecco una bella visione mistica con le impressioni mistiche di bagliori e di ombre, con le profonde penetrazioni di benessere e di terrore.
Essa inaugura il secondo capitolo della Buona Novella, il più specialmente cristiano, quello che Paolo aveva chiamato il discorso della croce. Essa si riferisce ad un essere percepito nell'estasi.
Il Messia Figlio di Dio non viene semplicemente con Mosè ed Elia, ad abitare fra i credenti, come desidera il poco intelligente Pietro. Le Scritture e la voce di Dio dicono altro ancora, che si deve accettare per duro che sia. Mosè ed Elia appaiono solo un istante e si dileguano. E il Messia deve morire per i nostri peccati. Egli stesso insegnò che deve
molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare” (Marco 8, 31). La voce celeste ordina di ascoltarlo e ricorda ancora una volta che egli è il misterioso Prediletto di cui Isaia riferì tutto ciò.
Le sofferenze, la morte e la resurrezione del Messia sono fondate principalmente sul capitolo 53 di Isaia, e sul salmo 22. Zaccaria, i Salmi 16, 12, 42, 117 aggiunsero alcuni tratti importanti. Quei testi allucinanti erano probabilmente recitati durante la commemorazione liturgica della morte del Messia nella Cena del Signore. Erano stati profondamente meditati e visti da tutti i profeti cristiani.
Si vedeva il Messia acclamato in Gerusalemme: “dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un'asina, con un puledro figlio di bestia da soma” (Zaccaria 9, citato in Matteo 21, 5). Si udiva l'acclamazione: “Osanna!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!” (Salmo 117). Il Tempio era purificato secondo ciò che è detto: In quel giorno non vi sarà neppure un Cananeo nella casa del Signore degli eserciti” (Zaccaria, 14, 21).
Ma già “la pietra era scartata dai costruttori”(Salmo 117, citato in Matteo, 21, 42). Tradito da uno dei suoi, il Messia può dire: “Colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno” (Salmo 41, 9, citato in Giovanni 13, 18). Tutti lo abbandonano nel momento in cui sta per essere colpito. “Io colpirò il pastore e le pecore andranno disperse” (Zaccaria 13, 7, citato in Marco 14, 27). Egli geme: “La mia anima è triste fino alla morte” (Salmo 42, 6 e Giona 4, 9).
Eccolo quale lo mostra Isaia: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire... trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità... Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca”, Isaia 53, 3, 5, 7). La sua morte ha un misterioso rapporto con quella dell'agnello pasquale, poichè
era come agnello condotto al macello” (Isaia, 53, 7). Egli è annoverato fra gli empi (Isaia, 53, 12), intercedeva per i peccatori” (Isaia, 53, 12).
Ed ecco il suo supplizio che descrive il Salmo 22. Egli grida: “Mio Dio, perchè mi hai abbandonato?” (Salmo 22, 1, citato in aramaico da Marco, 15, 34). Si dividono le sue vesti, le si tirano a sorte (Salmo 21, 19). Egli è impalato o piuttosto crocifisso, poiché è “trafitto” (Isaia, 53, 5; Zaccaria 22, 10), “trafiggi con chiodi le mie carni” (Salmo 118, 120, citato secondo la lettera di Barnaba, 5, 13),
hanno forato le mie mani e i miei piedi” (Salmo 21, 17). Tutti quelli che lo vedono ridono di lui e scuotono la testa (Salmo 21, 8, citato in Marco 15, 29).
Morto, gli si dà il sepolcro di un ricco (Isaia, 53, 9). Lo si piange: “Essi guarderanno colui che hanno trafitto. Faranno lutto per lui come per persona amata; soffriranno dolore come per un primogenito” (Zaccaria 12, 10). E dopo tre giorni, secondo il segno di Giona, egli resuscita, poiché “Non lascerai che il tuo santo veda la corruzione” (Salmo 15, 10).
Marco, nella sua seconda parte, non ha altro da fare che trasformare in commovente discorso la materia fornita dalla Scrittura, già così ricca di santo orrore, di immagini drammatiche, di emozioni e di singhiozzi. Egli ha poco bisogno di elementi di rincalzo. L'esegesi immaginativa basta pressappoco.
Ma, per coordinare le due parti del suo Vangelo, egli deve condurre sulla terra il dramma di salvezza che in Paolo ondeggiava ancora fuori nel tempo nelle visioni celesti, in mistici limbi senza frontiera e senza età. Come egli sublimò i racconti di Pietro in termini della Buona Novella, così carica ora la Buona Novella di circostanze di tempo e di luogo. Da un capo all'altro un vago ambiente storico è creato, che serve da luogo comune all'aneddoto ed alla teologia.
Il Salmo secondo rivelava che i Principi si sono confederati contro il Messia. Chi sono questi Principi? Marco li fa uscire dall'imprecisione poetica e li nomina senza citare: il tetrarca Erode, che aveva fatto uccidere Giovanni il Battista, e Ponzio Pilato, le cui sevizie contro i giudei erano rimaste leggendarie. Qui c'è una innovazione. In Paolo, la morte del Messia era un dramma teologico i cui autori erano tutti soprannaturali. Il Signore della Gloria era crocifisso dai Prìncipi di questo tempo, cioè da Satana e dai suoi angeli.
Sotto il travestimento storico, la seconda parte della Buona Novella conserva le grandi linee fortemente tracciate dai Salmi e dalle preghiere. Sembra perfino scandita sul ritmo delle recitazioni rituali. Nella recisa divisione della Passione giorno per giorno, quarto di vigilia per quarto di vigilia, si sente l'influenza di una liturgia avanzata, di una vera Settimana Santa.
Ai testi consacrati degli antichi profeti l'evangelista aggiunge, come è suo diritto, alcune visioni dei profeti nuovi. L'Agonia del Getsemani, che nessuno in nessun modo poteva aver riferita, sembra essere il riassunto di una visione intuitiva fondata sul testo: “La mia anima è triste fino alla morte”. L'istituzione della “Cena del Signore” che in Paolo è una visione accordata dal Signore stesso (I Corinzi 11, 23-35) passa in Marco allo stato di racconto.
Resta poco spazio per echi storici. Tuttavia il processo di Stefano davanti al Sinedrio sembra sia stato tramutato in processo di Gesù davanti ai medesimi giudici. Per il credente è Gesù che in Stefano era stato perseguitato e condannato.
Falsi testimoni deposero contro Stefano:
“Noi lo abbiamo udito dichiarare
che Gesù il Nazareno distruggerà questo luogo” (il Tempio) (Atti 6, 13-14).
Falsi testimoni depongono contro Gesù:
Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d'uomo” (Marco 14, 57-58).
Stefano,
pieno di Spirito Santo, fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra e disse: «Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla destra di Dio»! Proruppero allora in grida altissime turandosi gli orecchi; poi si scagliarono tutti insieme contro di lui” (Atti 7, 55-57).
Gesù, meno naturalmente, “rispose al gran sacerdote
: «Io sono (il Messia Figlio di Dio). E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». Allora il sommo sacerdote si stracciò le sue vesti... E tutti sentenziarono che era reo di morte.” (Marco 14, 62-64).
Un altro evangelista metterà sulle labbra di Gesù in croce le due parole che sono riferite di Stefano morente: “Signore, ricevi il mio spirito! — Signore non imputare loro questo peccato!” (Atti, 7, 59-60 — Luca 23, 46-34). Stefano fu il primo a portare nel suo corpo, come dice Paolo, “la morte di Gesù” (2 Corinzi 4, 10). La morte di Stefano fu il grande avvenimento tragico dei primi tempi cristiani. Essa diede alcuni lineamenti alla morte mistica di Gesù. Fu forse nel processo di Stefano che Pietro rinnegò Gesù, poichè, dopo la condanna di Stefano, noi vediamo i cristiani ellenisti violentemente dispersi ma Pietro e gli apostoli restare tranquilli a Gerusalemme (Atti, 8, 1).
Concludiamo: il Vangelo secondo Marco non è un documento di storia. È un commento libero e favoleggiato dei testi biblici e dei ricordi spirituali sui quali si fondava la fede cristiana. Esso li presenta ben connessi e in forma attraente, servendosi delle tradizionali libertà della leggenda ebraica, della haggada pia ed inventiva. Se porta con sé un pò di materia storica, ciò avviene in maniera secondaria ed indiretta, trasformandola.
Gli ebrei eccelsero nel midrash, che è una spiegazione per mezzo dell'immagine, un racconto netto ed ingegnoso destinato a far comprendere una verità morale. Per essi, il racconto è uno dei mille volti dell'idea. Là giace il principale malinteso fra il loro spirito ed il nostro. Il nostro pesante spirito occidentale non prende sul serio una storia se non crede che essa sia successa, nel senso più materiale della parola. Vogliamo che il nòcciolo di una leggenda sia un fatto, mentre per l'ebreo è un'idea. Ruth, Giona, Ester, Giuditta sono dei midrashim di un colore così fresco e così sobrio che noi ci lasciamo ingannare. Così pure il Vangelo di Marco è un midrash sul mistero cristiano.
Il suo scopo non è quello di fissare punti di storia, ma quello di esporre il mistero del Figlio di Dio morto per noi. Esso fa vedere come lo si esponeva a Roma verso il tempo di Domiziano, come l'Apocalisse mostra la maniera di Efeso verso la medesima epoca. Queste due opere, così diverse d'aspetto, hanno in fondo il medesimo oggetto ed un metodo eguale. Esse riguardano l'essere soprannatturale da cui sono ispirate.
L'autore dell'Apocalisse è un aristocratico altero, un potente poeta, un formidabile veggente: egli possiede il grande colpo d'ala. L'autore del Vangelo è un catechista popolare, un goffo senza stile, affannoso, limitato, ma sincero, commosso, comunicativo e che sa trascinare i lettori. Entrambi secondo i loro mezzi dipingono, quale lo vedono, il Signore Gesù, l'uno in larghi lampi, come un profeta entusiasta, l'altro in tratti minuti e piatti come un diligente narratore. Né dall'uno né dall'altro si deve esigere l'umile e banale informazione storica.
Gli altri Vangeli non possono trattenerci a lungo. Essi rassomigliano a Marco di cui riprendono di seconda mano, rimaneggiano e abbelliscono, la Buona Novella.
Matteo e Luca per le parti narrative si attaccano a Marco, correggendolo ciascuno secondo il suo temperamento letterario. Le licenze che essi prendono coi fatti materiali mostrano bene che in una Buona Novella i fatti non contano, ma solo contano le verità. E sotto i pretesi fatti Matteo lascia ingenuamente trasparire i testi sacri di cui essi sono, secondo lui, l'adempimento, in realtà il prodotto. Come fu detto, nell'Antico Testamento le profezie sono fatte dopo gli avvenimenti, nel Nuovo al contrario gli avvenimenti sono fatti secondo le profezie.
Matteo e Luca aggiungono a Marco, ciascuno a modo suo, una leggenda sulla nascita del Messia. Essi sfruttano certe raccolte di oracoli e di parabole trascurate da Marco. Molte di queste parole del Signore hanno altissimo valore religioso e poetico. Ma per alcune altre si vede chiaramente, per tutte si indovina che sono oracoli di Gesù enunciati in spirito dai profeti cristiani.
Il quarto Vangelo fa vedere come si sapeva rifare in Efeso una grossolana opera romana. Esso ha tutte le qualità che mancano a Marco, di nobiltà, di stile, di poesia, e di grande maniera. È il capolavoro del genere di cui Marco aveva dato l'abbozzo. La sua portata teologica eguaglia quasi quella delle lettere di Paolo. Ma la teologia vi trionfa troppo perché si esaminino dal punto di vista storico i mutamenti da essa pretesi nella cornice e nel contenuto di Marco.
Il Vangelo di Pietro è soltanto rappresentato da un frammento, la cui principale originalità è una visione del tutto fantastica della resurrezione di Gesù.
I Vangeli giudeo-cristiani e quello degli Egiziani sono noti soltanto per mezzo di brani incerti. I Vangeli dell'Infanzia sono piccoli romanzi scipiti e tardivi.
Abbiamo sfogliato l'incartamento storico di Gesù. Esso non contiene un solo documento che soddisfi la critica storica meno rigorosa. Esaminato tutto, tutto ben pensato, lo storico freddo e severo deve concludere con un processo verbale di carenza.
Gesù è sconosciuto come personaggio storico. Egli ha potuto vivere, poichè miliardi di uomini vissero senza lasciare traccia certa della loro vita. È questa una semplice possibilità, da discutere come tale.
Non basta dire con certi critici: di lui non sappiamo nulla, salvo questo che egli è esistito. Si deve dire coraggiosamente: non sappiamo nulla di lui, né se egli è esistito. In una indagine storica, sola la severa esattezza permette di progredire. Ora il documento che, in buona critica, proverebbe positivamente l'esistenza di Gesù, manca.
Ed ecco l'enigma. Di un uomo, di cui è dubbia perfino l'esistenza, si potè fare il gran Dio dell'Occidente?

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