sabato 15 aprile 2017

Circa «Le mystère de Jésus» di Paul-Louis Couchoud (III)

(Questa è la terza parte della traduzione italiana di un libro del miticista Paul-Louis Choucoud, «Le mystère de Jésus». Per leggere il testo precedente, segui questo link)


- III. PLINIO, TACITO, SVETONIO

Nell'ordine dei fatti nudi, Gesù è un infinitamente piccolo. La storia positiva non giunge ad afferrarlo.
Abbandoniamo il Gesù della fede. Dimentichiamo le età cristiane, tutto ciò che Gesù è diventato nel cuore dei credenti. Lasciamo la sua immagine risplendente. Cerchiamo l'originale, ciò che fu effettivamente egli stesso, fra le realtà della sua epoca e del suo paese.
Si tratta ora di un'inchiesta precisa, limitata. Ciascuno storico probo ed esperto, sia egli credente o incredulo, si trova in grado di svolgerla coi metodi ordinari dell'indagine storica. Gli basta di accingervisi liberamente, di trattarla francamente, per sé stessa, staccandola dalle conseguenze che eventualmente può intravedere. Essa non è né lunga né complicata. Consiste nell'esaminare e nel pesare giustamente un piccolo numero di dati, incerti o negativi.
Un uomo avrebbe potuto fornire alcune informazioni su Gesù. Egli non lo fece. È l'ebreo Flavio Giuseppe, autore prolisso, ben informato sui suoi compatrioti, da lui traditi come soldato e serviti come scrittore con eguale abilità, il solo storico giunto fino a noi che racconti con qualche particolare ciò che avvenne in Giudea durante la prima metà del primo secolo. Egli non parlò di Gesù. Già anticamente il fatto parve penoso, e mani cristiane aggiunsero al testo di Giuseppe ciò che si sarebbe desiderato di leggervi.
Esse furono padrone di farlo. Quando, dopo la rovina della nazione ebraica, gli ebrei si ripiegarono sulla loro “Torà” e sulla loro “Mishna” ebraiche, abbandonarono tutta la letteratura giudaica di lingua greca. Furono i cristiani che conservarono per esempio quel grazioso romanzo magico di Tobia, composto in greco da qualche ebreo di Alessandria contemporaneo di Apollonio di Rodi, o quella “Sapienza di Salomone” che, volendo conciliare Mosè e Platone, li guasta l'uno per mezzo dell'altro.
Essi salvarono anche certi scritti di circostanza che erano chiamati apocalissi, cioè rivelazioni sugli ultimi giorni del mondo che si supponevano prossimi, opuscoli di cui il libro di Daniele aveva dato il modello, come il “Testamento dei dodici Patriarchi”, i due libri di Enoch, le due apocalissi di Baruch, il “Quarto libro di Esdra”. Lo fecero arricchendone molti di aggiunte cristiane. Talvolta il supplemento fu più importante che il testo principale. L'“Ascensione di Isaia” è una lunga appendice ad un brano di agiografia ebraica. La grande Apocalisse di Giovanni è edificata sulle rovine ancora visibili di un'Apocalisse ebrea dei tempi di Nerone. Flavio Giuseppe nelle loro mani non doveva rimanere intatto.
In due delle sue opere egli avrebbe potuto o dovuto parlare di Gesù. Anzitutto, nel secondo libro della “Guerra Giudaica” che, in 44 capitoli, espone gli avvenimenti notevoli verificatisi in Giudea dalla morte di Erode il Grande (anno 4 prima dell'era volgare) fino allo scoppio della rivolta contro Roma (anno 66), particolarmente gli urti che si produssero fra giudei e romani sotto i procuratori.
La storia di Gesù, come noi crediamo di conoscerla, avrebbe trovato il suo posto segnato in questa cornice. Noi possediamo il testo greco dell'opera che, a credere all'autore (Vita, 65), fu copiato di propria mano dall'imperatore Tito e pubblicato per ordine imperiale. Nessuna menzione vi è fatta di Gesù. Ma esistette una recensione cristiana, oggi perduta, conosciuta soltanto in grazia di un'antica traduzione in russo arcaico. In otto passi erano aggiunti lunghi brani su Gesù. Essi sono curiosi e meritano di essere studiati a lato dei Vangeli apocrifi. Sono impregnati di teologia cristiana e non hanno nulla a che fare col racconto di Giuseppe.
Nei libri XVIII, XIX e XX della sua “Storia Antica dei giudei”, Giuseppe riprende con nuovi dati la storia della Giudea da Tiberio a Nerone.
Anche là si aspetta una parola su Gesù. Si è fin troppo contentati. Questa volta ci è pervenuta solo la recensione cristiana. Nel capitolo terzo del libro XVIII sono raccontate le sventure sopportate dagli ebrei sotto Tiberio. Ivi è inserita, senza collegamento col testo, una maldestra interpolazione, fra le crudeltà del procuratore Ponzio Pilato contro i giudei di Palestina e l'esilio dei giudei da Roma ordinato da Tiberio.
Ecco come essa si presenta. L'autore finisce il racconto della crudele repressione di una rivolta a Gerusalemme:
...Assaliti inermi da uomini ben armati, molti perirono sul posto, gli altri fuggirono feriti. Così finì la rivolta.
E venne verso quel tempo Gesù, uomo saggio, se pure lo si può dire uomo. Egli operò azioni meravigliose, istruì persone che di buon animo ricevevano la verità e attirò a sè molti giudei, e molti anche del mondo greco. Egli fu il Messia. Quando, denunciato da coloro che erano i primi presso di noi, fu da Pilato condannato alla croce, quelli che dapprima lo avevano amato non cessarono di amarlo. Egli apparve loro, il terzo giorno, di nuovo vivente. E i profeti divini avevano predetto ciò e diecimila atre meraviglie sul suo conto. Ancor oggi sussiste la setta dei Cristiani che da lui presero nome.
Nel medesimo tempo un'altra terribile sciagura colpiva gli ebrei...”.
Giammai stoffa applicata fu cucita con filo più bianco. Il seguito naturale del racconto va dalla sommossa di Gerusalemme, così duramente repressa, all'altro colpo terribile piombato sui giudei, che consiste nell'invio in Sardegna di quattromila giudei romani. Ciò che è detto di Gesù appartiene ad un altro ordine di idee.
E traspare in quel brano la fede cristiana più ardente, la fraseologia cristiana più tipica. Quel Gesù che non è propriamente un uomo, che è il Messia nel senso cristiano, che è resuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, è il Gesù della fede. E quelli uomini che cercano di buon animo la verità, che, avendo amato Gesù in principio, l'amarono sino alla fine, sono i cristiani veduti da loro stessi. Se Flavio Giuseppe avesse scritto questo, sarebbe stato cristiano e avrebbe fatto professione pubblica di cristianesimo. La sua opera intera sarebbe altra da quella che è. L'interpolazione è candida e sfrontata.
Essa fu citata nel IV secolo da Eusebio di Cesarea (“Historia ecclesiastica”, I, 5, 105). Sembra che nessun apologeta anteriore l'abbia letta o ne abbia avuto sentore. Origene, nel III secolo, concede che Giuseppe, sebbene non creda a Gesù come Messia (“Contra Celsum”, I, 47), si avvicina talora alla verità. Dice questo a proposito di un'altra interpolazione che non leggiamo nei nostri esemplari. Evidentemente egli non leggeva nel suo quella in cui Giuseppe è ritenuto confessare arditamente che “è Gesù che fu il Messia”, in contraddizione con sé stesso, poiché altrove egli dice che il Messia fu Vespasiano.
Nei nostri esemplari troviamo ancora “Gesù detto il Messia” menzionato indirettamente nel libro XX, capitolo nono, “Anano... fece convocare il Sinedrio e comparire davanti a questo il fratello di Gesù detto il Messia, di nome Giacomo, ed alcuni altri...”. Qui si tradisce di nuovo un'annotazione cristiana. L'espressione
Gesù detto il Messia è quella che nel Vangelo secondo Matteo introduce Gesù alla fine della sua pretesa genealogia. Non si capisce come Giuseppe la usi così, senza avere in nessun luogo presentato il personaggio a cui si applica quel nome sorprendente. L'espressione fratello di Gesù non è altro che il titolo consacrato di fratello del Signore, sotto il quale, dopo Paolo (Galati I, 19 — I Corinzi IX, 5) quel Giacomo era conosciuto dai cristiani... L'annotatore volle precisare per i lettori cristiani l'identità del condannato da Anano, ricordando loro la denominazione sotto la quale lo conoscevano.
Flavio Giuseppe non disse nulla di Gesù. La nostra miglior probabilità di essere informati è perduta. Certamente non si devono dedurre da questo silenzio conclusioni eccessive. Gesù potè esistere benissimo senza che Giuseppe abbia scritto su di lui. Ma infine il principale documento storico è muto.
Un rivale di Giuseppe come militare e come storico, nato nel presunto paese di Gesù, Giusto di Tiberiade, scrisse egli pure una “Guerra Giudaica” e una “Cronaca dei re ebrei” da Mosè ad Agrippa II. Le due opere sono perdute. Fozio leggeva ancora la seconda nel IX secolo e si stupiva di non trovarvi nulla su Gesù (Bibliotheca, cod. 33).
Il primo autore non cristiano che faccia allusione a Gesù è Plinio il Giovane, nell'anno 111 o 112. giunto come legatus pro praetore nella provincia di Bitinia e del Ponto, egli la trova infestata da cristiani. Scrive in merito ad essi all'imperatore Traiano. Nella sua lettera egli dice:
“Coloro che negavano di essere cristiani... se al mio cospetto avevano invocati gli Dèi, adorata la tua immagine, e maledetto il Messia... io credetti bene di lasciarli liberi. (Coloro che non erano più cristiani) venerarono tutti la tua immagine e maledissero il Messia. Ma essi affermarono che tutta la loro colpa e il loro errore consisteva soltanto nell'essersi riuniti secondo i loro usi in un giorno fisso, avanti l'alba, per cantare fra loro per turno una formula incantata (carmen) al Messia come ad un Dio (Christo quasi Deo)...”.
Plinio ha sentito chiaramente che cosa caratterizzi i cristiani e li renda pericolosi. Essi trattano il Messia, che prima di loro era soltanto un personaggio della mitologia ebraica, come un Dio di misteri greci. E questo nuovo Dio, innestato sul vecchio Dio geloso degli ebrei, è irriconciliabile con gli Dèi dell'impero e col divino imperatore. Solo per lui essi vanno salmodiando il loro incantesimo notturno. Ad ogni altro rifiutano l'incenso e il vino.
Plinio ha una sorpresa — la stupefacente e temibile diffusione del culto del Messia. Egli è un testimone di Gesù dio, ma non di Gesù persona storica.
Il nome del Messia figura ancora due volte nella letteratura latina, in due amici di Plinio il Giovane: Tacito e Svetonio.
Negli Annali di Tacito, in questa storia dei primi Cesari troppo brillante, troppo drammatica, troppo di maniera, vi ha una riga su di lui. E a proposito dell'incendio di Roma sotto Nerone, nel libro XV, capitolo 44:
“Nerone suppose dei colpevoli che condannò a supplizi raffinati. Furono coloro che, odiati per le loro infamie, erano chiamati dal volgo Chrestiani. L'autore di questo nome, il Messia (Christus), era stato condannato al supplizio, sotto il regno di Tiberio, dal procuratore Ponzio Pilato”.
In queste poche parole Tacito fa due allusioni. Quella gente infame e odiosa, il volgo la chiama chrestiani, parola che ha l'aria di derivare dal greco chrestos e di significare gli “eccellenti”. E il supplizio spetta bene ad essi, poiché il loro capo, Christus (Tacito rettifica l'etimologia), fu anticamente suppliziato.
Donde viene questa allusione al supplizio del Messia? Sarebbe motlo temerario il credere che per questa frase detta di passaggio Tacito si sia basato sopra un documento d'archivio, egli che non ha affatto l'abitudine di valersi di documenti originali. Non c'è ragione di supporre che sia mai esistito, negli archivi del gabinetto degli imperatori (commentarii principis) alcun rapporto del procuratore Ponzio Pilato sul supplizio di Christus. E si sa da Tacito che quegli archivi erano segreti e che al Senato stesso l'imperatore ne rifiutò la consultazione.
Dobbiamo forse supporre che Tacito si fondi sopra uno storico romano anteriore, Plinio il Vecchio o Antonio Giuliano che, scrivendo sopra gli ebrei e la guerra giudaica, avrebbe riferito fra gli avvenimenti che risalivano al procuratore  Ponzio Pilato un fatto omesso da Giuseppe o da Giusto di Tiberiade?
Si sospetta che la storia perduta di Plinio il Vecchio sia stata la fonte principale di Tacito, e Plinio il Vecchio si recò, a quanto pare, in Giudea. Egli ricorda a Tito le campagne militari in cui furono camerati e, se una certa iscrizione di Aradus si riferisce a lui, egli fu durante la guerra giudaica antepitropos, parola che Mommsen traduce: sottocapo dello stato maggiore generale. Mario Antonio Giuliano fu uno dei grandi capi che tennero un consiglio di guerra sotto il comando di Tito prima dell'assalto del Tempio (Flavio Giuseppe, “Guerra Giudaica”, VI, 4, 3) e sembra avere scritto sugli ebrei con odio marziale. Aveva l'uno o l'altro di questi soldati-letterati riferito la morte del Messia, come verificatasi una quarantina d'anni prima della presa di Gerusalemme? Non lo sapremo mai. Nessun apologeta cristiano dice in proposito una sola parola.
Non è necessario supporlo. All'epoca in cui Tacito scriveva gli Annali, fra il 115 e il 117, c'erano intorno a lui, a Roma, molti cristiani, ben organizzati, come si può giudicare dalla lettera di Clemente romano ai Corinzi, scritta una ventina d'anni prima, e dal Pastore Hermas. La leggenda evangelica, come la leggiamo nei Vangeli sinottici, era fissata. Il nome del Messia suppliziato era legato indissolubilmente a quello del procuratore Ponzio Pilato. Per poco che Tacito abbia potuto sapere sui cristiani, non poté mancare di saper questo.
È dunque molto probabile che egli faccia semplicemente eco alla credenza corrente dei cristiani quando fornisce la spiegazione del loro nome, in una frase dove, come spesso, egli si preoccupa più di un effetto di stile che di una precisione storica. Sarebbe temerario affermare che Tacito porti su Gesù una testimonianza indipendente.
La “Vita dei Cesari” di Svetonio, pubblicata verso il 121, contiene una notizia curiosa. Si legge nella Vita del divino Claudio, nel capitolo XXV:
“I Giudei, che a istigazione di Cresto facevano inceessanti tumulti (impulsore Chresto assidue tumultuantes), furono da lui cacciati da Roma”.

 Questa piccola frase si trova in un elenco secco e disordinato di atti di Claudio che l'onesto grammatico, segretario di Stato, dovette togliere da Servilio Noniano, o da qualche altro annalista.
Chi è questo Cresto? È assai probabile che sia un agitatore ignoto. Il nome di Cresto era comune fra gli schiavi e i liberti: figura più di ottanta volte nelle iscrizioni latine di Roma.
Ma ci sono anche probabilità che questo nome banale sia stato sostituito a Christus in grazia dell'omonimia (in greco i due nomi si pronunciano allo stesso modo), e che si tratti del Messia.
Le origini della comunità cristiana di Roma sono profondamente oscure. Vediamo nella lettera di Paolo ai Romani, scritta verso il 55, che all'inizio del regno di Nerone essa era già numerosa e forte. Dovette formarsi tra gli ebrei romani sotto il regno di Claudio e nascere in mezzo a dispute infiammate sul Messia, gli uni affermando che egli si era già manifestato, gli altri negandolo. Le dispute andarono fino ai tumulti continui e la polizia imperiale espulse in blocco i tumultuanti, riferendo quindi nel suo rapporto che l'agitazione era dovuta ad un certo Chrestus? Il libro degli Atti ci mostra un giudeo, Aquila, costruttore di baracche, e sua moglie Priscilla cacciati da Roma dall'editto di Claudio, che installano a Corinto la loro industria girovaga (Atti, XVIII, 2-3). Ora questa coppia giudaica è in realtà cristiana; cioè partigiana del Messia manifestato. Essa aveva potuto scaldarsi e tumultuare per impulso di Cristo (impulsore Christo).
Se la correzione della parola è giusta e se il rapporto poliziesco che il testo di Svetonio suppone è realmente esistito, quest'umile processo verbale errato si trova ad essere il più antico documento conosciuto sul cristianesimo. È più antico della più antica lettera di Paolo, che fu scritta da Corinto, dal cantiere stesso di Aquila dove Paolo, cacciato dalla Macedonia, si ingaggiò per lavorare. In ogni caso non si riferisce al Gesù storico, ma alla rappresentazione del Messia nelle teste, all'Idea che cominciava già a sconvolgere Roma e l'impero.
Di passaggio, Plinio il Giovane incontrò il culto instaurato del Messia, Tacito il tratto più ripetuto della sua leggenda, Svetonio una traccia dei primi disordini sollevati intorno alla sua immagine. È tutto quanto gli scrittori greci e latini sanno farci apprendere intorno a Gesù.
Ci si aspetterebbe di trovare presso gli ebrei, nel mare del Talmud, attraverso la massa inestricabile e ondeggiante degli scritti rabbinici, una tradizione particolare su Gesù. Non la si trova. Pochissime allusioni sono fatte a Gesù, nessuna che lo mostri conosciuto in modo diretto.
Il Gesù del Talmud non è altri che quello dei Vangeli, deformato, reso grottesco ed odioso. È una triviale caricatura fatta goffamente sul disegno altrui. Certi rabbini irritati volsero in derisione e in accusa ciò che i cristiani dicevano di Gesù. I loro ingenui sarcasmi e le loro credule invenzioni si riferirono soprattutto alla nascita verginale, ai miracoli ed alla condanna al supplizio.
Nato dallo Spirito Santo? Eh via! Sua madre, una pettinatrice, aveva avuto per amante un certo Pandira. Egli non è figlio di Dio, è figlio (ben) di Pandera. O, se preferite, sua madre era di razza principesca e si prostituì con un falegname. Taumaturgo? No di certo! Un mago che portò dall'Egitto (reminiscenza di Matteo) dei segreti di stregoneria. Egli confuse i Farisei? Dite che derise le parole dei saggi? Fu ingiustamente condannato? Giustissimamente, al contrario, dall'Alta Corte di Lydda, come apostata e seduttore! Lo si era ben inteso e ben visto, poiché si erano nascosti testimoni  e si era appesa una lampada al di sopra del suo volto. Prima della sua esecuzione, durante quaranta giorni, un araldo chiese testimonianze in suo favore e non ne raccolse alcuna. Assiso alla destra di Dio? No, escluso dal mondo futuro!
A causa dell'incredibile inettitudine dei rabbini ad ogni cronologia, questo Vangelo capovolto ondeggia, senza data stabilita, da cento anni avanti la nostra era a cento anni dopo. Non è attestato prima del terzo secolo. I rabbini più antichi si guardavano dal saperla così lunga. All'esordio del dialogo che Giustino pretende aver avuto luogo fra il rabbino Trifone e lui stesso nello “xisto” di Efeso, Trifone dice semplicemente: “Voi seguite una vana voce; vi siete inventati per voi stessi un Messia” (Dial., 4). In replica, Giustino si accinge a dimostrargli l'esistenza del Messia Gesù. Non si appella affatto alla testimonianza della storia e nemmeno a quella dei Vangeli, ma soltanto a quella del Salmista e dei profeti, all'Antico Testamento.
Non più dei romani e dei greci, gli ebrei per sé stessi non seppero nulla del Gesù storico. Non gli diedero mai il suo nome ebraico Yehoshua, come avrebbero fatto per uno dei loro. Lo chiamano sempre col suo nome greco Yeshu. Indizio che non lo conobbero se non attraverso i libri cristiani, redatti in greco.

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