lunedì 8 agosto 2016

Sul vangelo come allegoria della resistenza anti-romana secondo Frans J Vermeiren

ROMANI: Famoso popolo  che, per diritto di conquista, è diventato padrone del mondo e ai diritti del quale è succeduto per diritto divino un prete che ha conquistato l'Europa a forza di argomentazioni. Coloro che tra i cristiani sono sottomessi a questo prete si chiamano cattolici romani; le sue legioni sono composte da cappuccini, recolletti, cordiglieri, giacobini; i gesuiti formano la schiera pretoriana; i vescovi sono i tribuni militari e i re saranno i loro portamunizioni, finché avranno abbastanza fede.
(Il Libero Pensatore Paul Heinrich Dietrich, barone d'Holbach, La théologie portative, 1768)


 
L'ebreo lottava con violenza al centro del gruppo silenzioso, ma era tutto inutile. Due robusti soldati romani gli si erano inginocchiati sulle braccia bloccandole contro la ruvida trave di legno, il patibulum, mentre un terzo gli teneva ferme le gambe.
Di ritorno a cavallo da un villaggio vicino e con indosso un'uniforme da ufficiale romano, il fariseo Flavio Giuseppe guardava, come guardava tutte le crocifissioni. A quanto ne sapeva, quell'ebreo non aveva commesso reati specifici contro l'impero romano, ma lui aveva ormai perso ogni speranza di poter trattenere gli insorti dal loro folle proposito di liberarsi di Roma e di solito giustificava meccanicamente ogni atto di repressione compiuto dall'esercito romano, anche il più crudele, o almeno così sembrava agli occhi del suo nuovo protettore.
Il soldato allentò leggermente la presa sul braccio sinistro del prigioniero, quanto bastava per consentire a un altro uomo di avvolgergli un panno spesso intorno al polso. I romani erano esperti in quel metodo di esecuzione — avevano avuto molte occasioni per affinarlo — e sapevano che il tessuto avrebbe assorbito il sangue delle ferite. La crocifissione doveva essere lenta, dolorosa e pubblica, e l'ultima cosa che volevano era che il condannato morisse dissanguato nel giro di poche ore.
Normalmente le vittime venivano prima frustrate, ma in quel caso gli uomini di Vespasiano non avevano avuto il tempo né la voglia di farlo; a ogni modo, sapevano che gli ebrei duravano più a lungo sulla croce se non venivano fustigati, e ciò rafforzava l'inequivocabile messaggio del generale alla città assediata.
Terminata la fasciatura, i soldati tornarono a spingere il braccio del prigioniero sul patibulum scabro e incrostato di sangue, e si avvicinò un centurione munito di martello e chiodi. Questi ultimi — spessi, lunghi circa venti centimetri e dotati di grandi teste piatte — erano fatti apposta per quello scopo e, come le croci, erano stati riutilizzati più volte.
«Tenetelo fermo», ordinò il centurione, piegandosi.
L'ebreo si irrigidì quando sentì la punta metallica che gli toccava il polso, e urlò quando il centurione diede la prima martellata. Il colpo fu energico e sicuro, e il gambo penetrò nella carne, conficcandosi a fondo nel legno; tranciò il nervo mediano, procurando al prigioniero un dolore intenso e continuo lungo tutto il braccio.
Il sangue zampillò dalla ferita, schizzando sul terreno intorno al patibulum. Il chiodo sporgeva ancora di una decina di centimetri dallo straccio insanguinato, ma altre due martellate lo piantarono sino in fondo. Quando la testa del chiodo premette contro il tessuto, immobilizzando il braccio contro il legno, l'emorragia si ridusse notevolmente.
L'ebreo urlò a ogni colpo, poi perse il controllo della vescica. Il rivolo di urina sul suolo polveroso fece sorridere un paio di soldati, ma la maggior parte lo ignorò. Come Vespasiano, erano stanchi — i romani combattevano a intermittenza contro gli abitanti della Palestina da oltre cent'anni — e negli ultimi mesi avevano visto troppa morte e sofferenza per considerare una crocifissione come qualcosa di più di un diversivo temporaneo.
Le battaglie erano state aspre e tutt'altro che impari. Solo qualche anno prima, l'intera guarnigione romana di Gerusalemme si era arresa agli ebrei ed era stata subito linciata. Da allora la guerra in piena regola era stata inevitabile e gli scontri si erano inaspriti. La presenza dei romani in Palestina era considerevole. Vespasiano comandava la quinta e la decima legione — la Macedonica e la Fretensis —, mentre suo figlio Tito era arrivato da poco con la quindicesima, l'Apollinaris; l'esercito comprendeva anche truppe ausiliarie e unità di cavalleria.
Il centurione girò intorno all'ebreo e s'inginocchiò accanto all'altro braccio. Ormai il prigioniero non sarebbe più andato da nessuna parte, benché urlasse forte e lottasse con ancora più violenza. Dopo aver avvolto il polso nella stoffa, il centurione piantò il secondo chiodo con gesti esperti e arretrò.
Lo stipes, la sezione verticale della croce a tau, era un elemento fisso degli accampamenti romani. Ciascuna delle tre legioni — i cui campi sorgevano fianco a fianco su una piccola altura affacciata sulla città — ne avevano eretti cinquanta, tutti ben visibili dalla città assediata. La maggior parte era già occupata da corpi, vivi o morti, che penzolavano in numero quasi uguale.
Obbedendo agli ordini del centurione, quattro soldati sollevarono il patibulum e, trascinando la vittima che gridava sempre più forte, lo trasferirono verso l'area rocciosa, dove lo fissarono a un'asta verticale. Alcuni larghi gradini erano già stati posizionati sui due lati dello stipes e, quasi senza fermarsi, i quattro romani li salirono e issarono la pesante trave in cima al palo, facendola scorrere sull'apposito piolo.
Non appena i piedi dell'ebreo si staccarono dal terreno e le braccia dovettero sostenere il peso di tutto il corpo, gli si slogarono le spalle. L'uomo cercò un appoggio per alleviare quel dolore insopportabile e, quando col tallone destro trovò un blocco di legno attaccato a circa un metro e mezzo dalla base dello stipes, vi posò sopra i piedi e spinse verso l'alto. Quello, naturalmente, era lo scopo per cui i romani avevano collocato il blocco in quel punto. Il condannato sentì che gli regolavano la posizione dei piedi, girandoglieli di lato e tenendogli uniti i polpacci. Una martellata gli conficcò un chiodo nei talloni, bloccandogli le gambe contro la croce.
Il fariseo Flavio Giuseppe guardò il moribondo che lottava invano come un insetto intrappolato, i lamenti già più deboli, e si voltò, schermandosi gli occhi dalla luce del tramonto. L'ebreo sarebbe morto nel giro di due giorni, tre al massimo. Terminata la crocifisione, gli uomini cominciarono a disperdersi, tornando al campo e alle loro occupazioni. Le croci a tau erano disposte in una fila provocatoria che si allungava davanti a tutti e tre gli accampamenti, ricordando costantemente ai difensori di Gerusalemme il destino che li attendeva se fossero stati catturati.
Ma qualcosa attirò improvvisamente l'attenzione di Flavio Giuseppe ai gemiti emessi da quel particolare moribondo inchiodato alla croce. Non erano più solo gemiti: il crocifisso stava tentando di proferire il suo nome, tra urla e grida convulse di nera disperazione. Quasi all'unisono, Flavio Giuseppe udì all'improvviso i gemiti finora trascurati dei due moribondi inchiodati alle croci rispettivamente a destra e a sinistra di quell'ebreo crocifisso: pure loro sembravano in grado di implorare il  nome di Yozef bar Matthea.
Il fariseo Flavio Giuseppe alzò lo sguardò e li riconobbe.


Qualche anno più tardi, così a Roma il fariseo dal cognome romano scriveva nella sua autobiografia:
In seguito, inviato dal Cesare Tito, con Cereale e mille cavalieri, a un villaggio chiamato Tekoa, per verificare se il luogo era adatto ad accogliere un campo trincerato, poiché ripartendone vidi molti prigionieri crocifissi e ne riconobbi tre che erano stati miei amici, ne ebbi il cuore straziato e mi recai piangendo a dirlo a Tito.
Egli ordinò immediatamente che fossero tirati giù e che ricevessero le cure più attente. Due, nonostante le cure, morirono, ma il terzo sopravvisse.

(Vita, 420-421)

E più o meno intorno allo stesso periodo, da qualche parte nell'Impero romano, così scriveva l'anonimo autore dell'Epistola agli Ebrei:
Nei giorni della sua carne, con alte grida e con lacrime egli offrì preghiere e suppliche a colui che poteva salvarlo dalla morte ed è stato esaudito per la sua pietà.
(Ebrei 5:7)

Con un piuttosto facile sforzo di immaginazione, ho ricostruito quello che secondo l'olandese Frans J Vermeiren sarebbe stato il vero atto fondativo del cristianesimo. L'ebreo crocifisso che scampò al suo destino di morte grazie al tempestoso soccorso di Flavio Giuseppe sarebbe stato nient'altri che lo stesso sedizioso galileo Gesù figlio di Saffia, menzionato in più occasioni dallo storico ebreo sia in Vita che in Guerra Giudaica.  L'effetto di tale soccorso in extremis, per gli esseni reduci dal conflitto contro i romani, sarebbe stato paragonabile alla vista, da parte dei suoi fedeli, di un capo mormone ergersi illeso dalle macerie delle Torri Gemelle l'11 Settembre: un miracolo divino.
Sebbene il messia non si mostrò come il definitivo vincitore militare, almeno si era rivelato come colui che raggiunse una vittoria altamente simbolica sull'odiato nemico, l'imperatore divinizzato dell'impero romano. Anche il requisito della località dell'intervento divino, la città santa di Gerusalemme, fu soddisfatto. In questo modo, bizzarro e inaspettato come potrebbe sembrare, l'attesa del messia esseno fu ancora realizzata. Un messia fu profetizzato e così un messia fu offerto. Un messia non appare semplicemente dal nulla come un deus ex machina, egli solo si presenta a coloro che con fervore lo bramano.
(mia libera traduzione dalla posizione 1626 dell'ebook)

Ecco un accenno al Gesù in questione:
A incendiare i loro animi era principalmente Gesù figlio di Saffia, che allora ricopriva la massima carica di Tiberiade, un indi­viduo squallido, fornito di una naturale inclinazione a ingarbugliare le situazioni già difficili, un sobillatore e un rivoluzionario quant’altri mai.
(Vita, 134)
Non intendo togliere al lettore interessato la sorpresa di sapere come arriva Vermeiren a quella conclusione, nel suo interessante A Chronological Revision of the Origins of Christianity. Mi limiterò a citare il punto più forte del suo più vasto argomento con le sue stesse parole:
Per coloro familiari col racconto della crocifissione di Gesù come riferito dai vangeli, una somiglianza con la storia di cui sopra emergerà: in entrambi i casi tre persone sono crocifisse. Krijbolder confrontò meticolosamente questo passo in Vita col racconto della crocifissione nel vangelo di Giovanni e scoprì numerose somiglianze in più:

1. Flavio Giuseppe: Tre persone sono crocifisse, una delle quali sopravvive alla sua crocifissione.
Vangelo di Giovanni: Tre persone sono crocifisse, una delle quali resuscita dopo la sua morte.
2. Flavio Giuseppe:  lo stesso Flavio Giuseppe (in aramaico Jozef bar Matthea) si confronta con la crocifissione.
Vangelo di Giovanni: Giuseppe di Arimatea è presente alla crocifissione.
3. Flavio Giuseppe:  un dominatore romano (Tito) è a Gerusalemme.
Vangelo di Giovanni:  un dominatore romano (Pilato) è a Gerusalemme.
4. Flavio Giuseppe:  Flavio Giuseppe implora Tito di permettergli di rimuovere gli uomini dalla croce e di prendersene cura.
Vangelo di Giovanni:  Giuseppe di Arimatea domanda a Pilato di permettergli di rimuovere Gesù dalla croce. Dopo la sua rimozione dalla croce, Gesù è curato con generose quantità di mirra e aloe.
5. Flavio Giuseppe:  Flavio Giuseppe è di ritorno da Tekoa. La strada verso e da sud corre lungo l'ovest della città, così lungo l'area che i romani livellarono al principio dell'assedio.
Vangelo di Giovanni:  Gesù è crocifisso sul “Golgota”.
Il parallelo finale, che suggerisce un'analogia tra “area livellata” e “Golgota”, richiede una piccola comprensione tecnica.
Nei vangeli è detto che Gesù fu crocifisso in un lugo chiamato Golgota. Una traduzione greca della parola aramaica vi è fornita: kraniou topos (luogo del cranio). Di nuovo, rifacendoci a Krjbolder, apprendiamo che “cranio” in “luogo del cranio” può solo alludere alla nudità di uno scheletro. L'associazione spontanea o ad un campo d'esecuzione oppure ad un colle arrotondato (dalla forma che rassomiglia ad un teschio) è scorretta a sua opinione. Anche, in tempi più tardi, Golgota fu tradotto in latino come calvaria (da calvus, calvo) che punta alla stessa conclusione.
Come dobbiamo intendere un luogo calvo come un cranio? Di fatto, essite solo una spiegazione plausibile: il Golgota era un'area che era stata livellata per scopi militari, cioè ripulita di tutte le escrescenze e le costruzioni umane e poi livellata. Nella sua opera principale, La Guerra Giudaica, Flavio Giuseppe descrive una tale operazione di fronte alle mura di Gerusalemme poco dopo l'inizio dell'assedio della città nella primavera dell'anno 70 EC. Questa operazione di livellamento iniziò a nord della città e coprì infine una vasta area a nord e ad ovest: Tito (...) comandò di spianare il terreno fino alle mura. E quelli abbatterono tutti i recinti e gli steccati con cui gli abitanti avevano delimitato i loro orti e le loro piantagioni, tagliarono tutti gli alberi da frutta che vi crescevano, colmarono le cavità e le anfrattuosità del terreno e, spianando col piccone i macigni adoranti, livellarono tutto il suolo dallo Scopos fino ai monumenti di Erode...

(mia libera traduzione della posizione 332-352 dell'ebook)

Vermeiren fa bene a notare come perfino un accademico del calibro di Karel Hanhart (riscoperto di recente da Vridar per la sua quanto mai azzeccata interpretazione della natura di Marco) ha notato la stranissima coincidenza, ovviamente non facendo mancare una grossolana armonizzazione con la sua malcelata agenda apologetica (secondo lui, nelle reali intenzioni di Flavio Giuseppe, l'episodio avrebbe dovuto fungere da sarcastica parodia della crocifissione del vero Gesù storico, il che è tutto dire quanto a disperata follia apologetica).

Vermeiren cita pure l'opinione di un miticista olandese deceduto di recente, Pierre Krijbolder, il quale spiega così l'episodio (trovando, pace Vermeiren, la mia approvazione):
“Una crocifissione e una 'resurrezione' biologica veramente accaduta nel 70 è stata proiettata dai quattro evangelisti sulla figura astratta della personificazione mitologica di Gesù.”
 (mia libera traduzione dalla posizione 2666 dell'ebook)

Avendo letto il libro, io posso concludere che non mi ha convinto della sua tesi principale (Gesù figlio di Saffia dietro il Gesù dei vangeli) e per le seguenti ragioni:

Primo, non posso evitare di esibire una certa punta di fastidio nell'apprendere man mano dei tentativi piuttosto forzati di Vermeiren nel voler ridurre ad ogni costo ogni principale episodio evangelico, perfino il più grottescamente fantasioso, ad un concreto fatto storico che più o meno approssimi quello di un sedizioso ebreo come Gesù figlio di Saffia. Questo goffo letteralismo non è un limite solo di Vermeiren, intendiamoci, ma di tutti gli storicisti che intraprendono, loro malgrado, la disperata impresa di voler setacciare ad ogni costo le pagine dei vangeli spinti dall'irrazionale ricerca di qualcosa di storico al loro interno, impresa destinata a fallire in principio per la semplice ragione che non hanno a che fare con biografie, tantomeno con testimonianze di prima mano, ma con sacre agiografie fittamente popolate da allegorie, parabole, simboli, metafore e allusioni più o meno criptiche o velate a seconda se a leggerle siano privilegiati e astuti insiders oppure ottusi outsiders fin troppo creduloni.

Secondo, ciò che mi procura ulteriore fastidio, è che a conoscere la presunta verità storica intorno al Gesù dei vangeli, secondo Vermeiren, sarebbe stato non solo “Marco” (autore) — e la cosa potrebbe pure starci, dato che almeno l'autore del più antico vangelo (sia esso Marco oppure Mcn) avrebbe dovuto essere di certo il depositario della verità ultima sul conto di Gesù — ma anche gli autori dei vangeli successivi e perfino, come s'è visto, lo stesso autore dell'Epistola agli Ebrei.
Non ci si rende conto in questo modo che più si fa aumentare il numero di cospiratori più si corre il rischio che la verità riesca a trapelare e a divenire di pubblico dominio, attirando proprio l'attenzione di quei romani che i cospiratori avrebbero invece voluto eludere tramite la creazione artificiale di un Gesù di Nazaret a mascherare il sedizioso Gesù figlio di Saffia. Questo in termini probabilistici ha un nome preciso: improbabilità (che la tesi di Vermeiren sia corretta). Io trovo implausibile che “Matteo”, “Luca” (vale a dire, Marcione — “Luca” essendo solo l'editore proto—cattolico del vangelo dell'eresiarca), e financo pure “Giovanni” conoscessero la verità sul conto di Gesù, posto perfino che fosse per davvero il famigerato Gesù figlio di Saffia. Una volta che “Marco” (o Mcn per quella materia) introdusse un Gesù “storico” sulla scena, non ci fu modo alcuno di impedirne la proliferazione dei suoi ritratti a seconda dei vari differenti e spesso perfino rivali gusti teologici di questa o quella setta cristiana desiderosa di venderlo come propria figura fondativa. Tutto questo è ingenuamente ignorato da Vermeiren (e per quella materia, anche da Lena Einhorn) ma di nuovo, si tratta di un errore comune a tutti gli storicisti (apologeti e non): irrimediabilmente tutti costretti, uno dopo l'altro, velim nolim a basarsi soltanto su Marco (come più antico vangelo dal quale tutti gli altri dipendono) per avanzare i loro pretenziosi atti di fede in un “Gesù storico”.
Se la verità su Gesù (al di là se esistito o meno) fosse nota non solo a Marco, ma anche a Matteo e a Luca, allora perchè si ha l'amara sensazione (e molto di più di una mera sensazione, ma reale evidenza) che Matteo e Luca sono indebitati fino al collo al primo vangelo, al punto da non poter affatto vantare alcuna fonte indipendente da Marco che non sia a sua volta copiata dalla letteratura sacra precedente (peraltro la stessa dalla quale aveva attinto Marco medesimo: la Septuaginta, le lettere di Paolo, l'Odissea di Omero e le opere di Flavio Giuseppe) ???  

Comincio a pensare davvero che gli storicisti procedono, nel trattare i vangeli, alla stessa ridicola maniera del demente astroteologo di turno: pensano davvero, nel loro tronfio ottimismo ermeneutico, che sia possibile combinare un episodio di “Marco” con un detto di “Matteo” assieme ad un aneddoto di “Luca” prima di poter infine esclamare “Eureka!” e portarsi felicemente a casa un presunto nucleo storico (o nel caso di Pier Tulip, addirittura un intero sedicente “Teorema”!), quando il buon senso consiglia invece di giudicare la natura di un testo e il pensiero di un autore unicamente per sé stessi (ergo sarebbe profondamente irrazionale far dire al Gesù di “Marco” ciò che vorrebbe fargli dire il Gesù proto-cattolico di “Luca” oppure il finto Gesù giudeo-cristiano di “Matteo”).

Una terza e ultima critica è rivolta alla tesi stessa di Vermeiren: e mi riferisco all'improbabilità intrinseca, da assumere in anticipo, che un ebreo crocifisso di nome Gesù (o qualsiasi altro) possa venir equiparato ad un arcangelo celeste nel giro di poche ore dalla sua morte (vera o presunta che fosse). Affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie, recita il buon vecchio adagio, e che un ebreo crocifisso venga mitizzato è qualcosa di intrinsecamente straordinario: vale a dire, imprevedibile, vale a dire, sorprendente, vale a dire, inatteso. Tradotto: improbabile. E l'improbabilità della tesi di Vermeiren si estende anche da questo punto di vista alla tesi storicista tradizionale: che un ebreo crocifisso di nome Gesù venga creduto risorto (o come vogliono raccontarla: “vendicato da Dio”) dai suoi seguaci è una pretesa tanto straordinaria (= imprevedibile, = sorprendente, = inattesa, = improbabile) da farsi quanto lo può essere quella che un egiziano di nome Osiride venga creduto risorto (o come vollero raccontarla: “riassemblato da Iside”) dai suoi sudditi.

Affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie,  e fino a quando non si adduce una prova vera e propria (non le banali interpolazioni cristiane in Flavio Giuseppe e neppure il banale vociferio cristiano udito da un Tacito o da un Plinio il Giovane) che l'oggetto di culto dei più antichi apostoli del Cristo fosse un ebreo del I secolo crocifisso da Pilato, allora tale pretesa non merita più valore storico della pretesa che il dio che muore e risorge Attis fosse un avvenente giovane mandriano frigio morto dissanguato a seguito di un'automutilazione, o che il dio che muore e risorge Romolo fosse davvero un sovrano assassinato dai senatori, o che il dio che muore e risorge Osiride fosse veramente un faraone trucidato dal fratello Seth.


Su un punto però Vermeiren ha ragione da vendere, o almeno induce seriamente a riflettere. E cioè quando dice:
La mia ricerca mostra che il cristianesimo non è radicato nell'unicità di un singolo personaggio ma piuttosto nelle idee di un movimento religioso estremista interno all'ebraismo. Esso fu provocato da un evento eccezionale alla fine della guerra contro i romani. (...) Il cristianesimo deriva dallo “scontro di civiltà” (con niente meno che il dominio del mondo in gioco) tra gli esseni e i romani. (...)
Non importa quanto sia comprensibile il mezzo astuto impiegato da Marco per ingannare i romani con una cronologia falsificata, al suo intervento è stato permesso di porre il suo timbro sulla storia per fin troppo tempo.

(mia libera traduzione dalla posizione 2594—2595 dell'ebook)

Sottoscrivo in pieno. Nonostante mi consideri zelante fautore della Reductio ad Paulum come più sicura ermeneutica di Marco, penso e credo che, perfino se fosse Mcn e non Marco il più antico vangelo, non ci sarebbe stato in fin dei conti nessun vangelo se non fosse stata minacciata fatalmente di estinzione la stessa civiltà ebraica nel 70 EC. Troppo sangue essendo stato versato. Troppe illusioni essendo state infrante. Che una nobile menzogna si rendeva necessaria in nome della pura e semplice sopravvivenza.

E Vermeiren mi convince ulteriormente della profondità di questa tesi. Con la sola differenza che io non vedo l'incombente “Figlio dell'Uomo” in quel Gesù figlio di Saffia sopravvissuto miracolosamente alla sua crocifissione a guerra terminata, bensì nel più numeroso popolo di Israele. 

...o, in altre parole, noi abbiamo la crocifissione di Gesù come un'allegoria dell'incubo ebraico, seguito dall'immagine di sopravvivenza e rinascita dello spirito (il figlio di Adamo che giunge sulle nubi, nell'eco da Daniele 7:13). Il “Figlio di Adamo” qui rappresenta sia l'ebreo che il gentile, perchè il messaggio di Gesù è coerentemente un messaggio di inclusione del gentile e dello straniero da parte di un ebreo (Gesù) con una visione più inclusiva della vera spiritualità.

Vista come un'allegoria della distruzione del mondo ebraico da parte dei romani nel 70 EC, la morte di Gesù spiega il fato degli ebrei e lo collega ad un concetto universale di redenzione. (...) Nella Guerra Giudaica, come la racconta Flavio Giuseppe, “la terra era tutta ricoperta di cadaveri, e i soldati per inseguire i fuggiaschi dovevano calpestare mucchi di corpi”. Paralleli così specifici tra le profezie apocalittiche di Gesù e la guerra descritta da Flavio Giuseppe sono troppo comuni da elencare, ma più sconvolgenti di ciascuno di loro è la spiegazione offerta da Flavio Giuseppe della ragione per la quale i ribelli ebrei andarono in guerra prima contro l'un l'altro e poi contro Roma, precisamente a causa di “un'ambigua profezia, ritrovata ugualmente nelle sacre scritture, secondo cui in quel tempo uno proveniente dal loro paese sarebbe diventato il dominatore del mondo”. Un collaborazionista dei romani, Flavio Giuseppe è rapido a sottolineare che l'oracolo si riferiva a Vespasiano, che arrivò al potere in Giudea, e che la carneficina della Guerra Giudaica del 70 EC rivelò la follia dell'interpretazione ebraica della loro scrittura messianica.
In Luca 17, Gesù dice che lui è la causa dei turbamenti da lui predetti. Egli venne a sconvolgere il mondo. Il conflitto intra-familiare occorre come risultato del suo “battesimo” e il suo scopo è recare conflitto, e ciò conduce a “cadaveri” per le strade. Comunque, è ovvio che la crocifissione di Gesù non causò letteralmente la guerra, se non altro perchè fu detta di esser accaduta circa un trentennio prima degli eventi del 66-70 EC. Quindi, la connessione fatta da Gesù alla storia conosciuta del suo pubblico è emblematica. La sua storia è quella profezia di un uomo del loro paese — un “Re dei giudei” — che avrebbe dominato il mondo — ma solo mediante una metafora letteraria. La storia è un'allegoria. Il discorso dato da Gesù in Luca 17 lo rende ovvio. Ma rivela anche il significato allegorico della resurrezione, a causa della cornice temporale in cui Gesù qui vi allude: il figlio di Adamo è visto nella gloria sulle nubi dopo la catastrofe della guerra. Quindi, la storia del maestro che è crocifisso sul Golgota a Pasqua, e risorge dai morti tre giorni dopo è semplicemente un microcosmo del significato macrocosmico necessariamente comprensibile ad un lettore contemporaneo del vangelo di Luca: quello di una resurrezione dello spirito di un'assassinata cultura.

(Clarke W. Owens, Son of Yahweh, The Gospels as Novels, pag. 65, mia libera traduzione)

Si veda ad esempio la sua suggestiva esegesi di questa parabola lucana (che potrebbe benissimo trovarsi in Mcn e quindi risalire al più antico vangelo):
La mia ricerca sulle origini del cristianesimo rivela che i vangeli sono molto più politici in natura e hanno molto più a che fare con la guerra contro i romani di quanto è generalmente accettato. Io credo che questo sia anche il caso con la parabola dei dieci talenti in Luca 19, 12-27, di cui in mia opinione l'imperatore romano Vespasiano è il protagonista. Io riproduco e commento la storia (quasi) verso dopo verso di seguito. 

(verso 12) Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano per ricevere un titolo regale e poi ritornare.

Commento: Vespasiano, un patrizio romano (appartenente all'ordine equestre) fu proclamato imperatore dalle sue legioni quando era in Oriente. Ritornò a Roma per rivendicare il titolo di imperatore e sconfiggere Vitellio. 
(Nota: Il greco ‘basileia’ è tradotto come ‘regno’, ma è un termine esteso che significa ‘governo supremo’, coprendo il titolo di imperatore come pure quello di sovrano.)

(verso 13) Chiamati dieci servi, consegnò loro dieci mine, dicendo: Impiegatele fino al mio ritorno.

Commento: L'impero romano consisteva di 10 province: Italia, Asia, Siria, Egitto, Africa, Spagna, Gallia, Britannia e Germania. 
Quando Vespasiano salì al potere, le finanzie dell'impero erano in rovina, così egli cercò del denaro dovunque poteva migliorare la situazione finanziaria del tesoro. 

(verso 14) Ma i suoi cittadini lo odiavano e gli mandarono dietro un'ambasceria a dire: Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi.

Commento: Nella perdurante guerra civile a Roma i partiti opposti si odiavano l'un l'altro. Naturalmente gruppi ostili non vollero che Vespasiano diventasse imperatore.

(verso 15) Quando fu di ritorno, dopo aver ottenuto il titolo di re, fece chiamare i servi ai quali aveva consegnato il denaro, per vedere quanto ciascuno avesse guadagnato.

Commento: Vespasiano ordinò di aumentare le tasse delle provincie. Dopo chiamò i governatori a rendicontare.

(verso 16) Si presentò il primo e disse: Signore, la tua mina ha fruttato altre dieci mine. (17) Gli disse: Bene, bravo servitore; poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città. (18) Poi si presentò il secondo e disse: La tua mina, signore, ha fruttato altre cinque mine. (19) Anche a questo disse: Anche tu sarai a capo di cinque città.

Commento: Il significato delle dieci città non mi è chiaro. Ma Svetonio menziona cinque comunità (città e città-stato) a cui Vespasiano tolse loro la libertà: Acaia, Licia, Rodi, Bisanzio e Samo. 


(verso 20) Venne poi anche l'altro e disse: Signore, ecco la tua mina, che ho tenuta riposta in un fazzoletto;
(verso 21) avevo paura di te che sei un uomo severo e prendi quello che non hai messo in deposito, mieti quello che non hai seminato.

Commento: Il cattivo amministratore è la nazione ebraica. Che i ribelli ebrei videro i romani come mietitori che raccoglievano quel che non seminavano, è ovvio. 

(verso 22) Gli rispose: Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato: (23) perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l'avrei riscosso con gli interessi. (24) Disse poi ai presenti: Toglietegli la mina e datela a colui che ne ha dieci (25) Gli risposero: Signore, ha già dieci mine! (26) Vi dico: A chiunque ha sarà dato; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.

Commento: Durante la ribellione gli ebrei non pagarono le tasse, così finanziariamente la ribellione (e gli sforzi bellici) furono di detrimento a Roma. Alla fine della guerra l'enorme ricchezza di Gerusalemme fu trasferita a Roma. Una pesante tassa capitale (tributum capitis) fu imposta; dopo la guerra il contadino ebreo pagava di tasse quattro volte di più rispetto al contadino egiziano. 

(verso 27) E quei miei nemici che non volevano che diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me.

Commento: Simone bar Giora, il leader ribelle catturato, fu scortato a Roma e crocifisso di fronte a Vespasiano alla fine della marcia di trionfo in celebrazione della vittoria dei Flavii sugli ebrei nel 71 EC (Flavio Giuseppe, La Guerra Giudaica VII, 153-154).

Così nella mia opinione questo frammento di Luca parla dell'imperatore romano Vespasiano, del suo arrivo al potere, della sua politica finanziaria, della sua relazione con gli ebrei ed infine della condanna a morte del suo principale avversario militare durante la guerra, il principale leader ebreo ribelle Simone bar Giora, l'anno dopo la caduta di Gerusalemme. L'autore del vangelo sembra essere ben informato sulla situazione politica dei suoi giorni.  
(fonte)

Infine, devo a Vermeiren la realizzazione di una terza possibilità per quanto riguarda Paolo l'apostolo. Tutti sanno cosa si è detto finora di Paolo da parte storicista: che lui conosceva il Gesù storico ma se ne disinteressò (così Bart Errorman), che lui conosceva il Gesù storico ma se ne imbarazzò (così Bermejo-Rubio), che lui conosceva il Gesù storico ma, per usare le parole di Nietzsche, lo crocifisse alla “sua” croce (così  la pensa pure Gerd Lüdemann).

E tutti sanno (almeno spero) cosa dicono i veri miticisti sul conto di Paolo l'apostolo: che lui non seppe mai nulla di un Gesù itinerante per la Giudea perchè l'unico Gesù che conosceva era un arcangelo celeste crocifisso da demoni nel loro regno invisibile, oppure che Paolo fu una chimera inventata da Marcione e cooptata dai proto-cattolici

A queste prospettive Vermeiren ha l'originalità di introdurre una terza: Paolo non conosceva Gesù perchè lui predicava, come un “normale” apocalittico ebreo, solo l'avvento liberatorio di un Cristo al futuro, e non già un Cristo crocifisso nel passato. Sarebbero stati i cristiani successivi a riesumare Paolo dal passato (Vermeiren non nomina Marcione — un vero peccato! — ma sarebbe intrigante vedere in Marcione l'autore di questa resurrezione di Paolo dall'oblìo che avrebbe altrimenti meritato) interpolando il più delle volte il nome “Gesù” laddove Paolo si sarebbe limitato innocentemente a scrivere solo “Cristo” (intendendo con ciò il tradizionale messia ebraico, lo stesso che attendono ancor oggi gli ebrei).

Ancora una volta in termini schiettamente probabilistici, tutto questo si traduce a ragion veduta come improbabilità, eppure, da un personalissimo punto di vista, non vedo grande differenza tra un “Cristo” senza nome e senza volto perchè non ancora giunto sulla Terra, e un arcangelico e rarefatto Gesù Cristo evocato solamente in visioni, apparizioni e rivelazioni da privilegiati apostoli allucinati come Pietro e Paolo: in entrambi i casi si sta parlando dell'INVISIBILE, del puro NULLA, dell'INESISTENTE per definizione.

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