venerdì 29 agosto 2014

Di banali distrazioni apologetiche (III)

Continua la terza parte della mia recensione di Mark, Canonizer of Paul, di Tom Dykstra. Per l'intera serie si veda qui.

Il capitolo 2, A Tale of Two Missions, riepiloga la già fin troppo nota vicenda che portò ad un primo scisma del cristianesimo primitivo tra i seguaci di Paolo e i giudeocristiani guidati dai leader fondatori del movimento, i cosiddetti Pilastri Cefa, Giacomo e Giovanni.

Si trattava di una dissidio ben più lacerante di quanto si sarebbe poi pensato, se è vero che i cristiani successivi si sentirono fortemente impegnati a fare revisionismo storico per veicolare, a fini di mera, tendenziosa propaganda apologetica (considera per tutti i famigerati Atti degli Apostoli), l'immagine fin troppo edulcorata di un'unità armoniosa tra paolini e giudaizzanti, contro tutta l'evidenza manifesta nelle lettere di Paolo.
In questa battaglia entrambi i lati riconoscevano l'Antico Testamento come la loro autorità scritta, ed entrambi i lati pensavano che l'Antico Testamento supportava il loro lato contro l'altro.
(pag. 37, mia libera traduzione e mia enfasi)

È davvero inatteso, sotto l'ipotesi della storicità, che il ruolo ricoperto in questo dissidio dall'Antico Testamento (il ruolo di autorità scritta) non lo ricoprisse invece la memoria storica di un Gesù vissuto di recente in Judaea con le SUE dottrine. La medesima situazione invece è straordinariamente attesa sotto il miticismo: non c'era mai stato uno storico Gesù e dunque si citavano senza posa e senza tregua le Scritture a supporto della propria posizione, perfino se già le si conoscevano a memoria (essendo il cristianesimo primitivo formato in stragrande maggioranza da ebrei, di Giudea o della diaspora). Se ci fosse stato un Gesù storico, lo si sarebbe menzionato nelle epistole perfino se si fosse già saputo tutto su di lui (esattamente come si rammentavano ad nauseam le Scritture pur conoscendole a menadito): ma evidentemente quel Gesù non c'era mai stato, a differenza delle Scritture.


Quello che impressiona, in questo capitolo, è il tentativo da parte di Dykstra di inserire tra gli innumerevoli echi, indizi ed esempi di questo originario, drammatico conflitto, addirittura questo passo di 1 Corinzi 9.
Un altro esempio è in 1 Corinzi. Nel capitolo 7 Paolo stima la sua personale abilità a rimanere non sposato sia pure concedendo che il matrimonio è accettabile per persone che sono ''incapaci di contenere sé stesse'' (7:8-9); poi giusto due capitoli più tardi egli allude allo status maritale dei ''fratelli del Signore [Giacomo] e Cefa [Pietro]'' (9:3-6). L'effetto, e piuttosto possibilmente l'intento, di quei due passagi è descrivere in una luce negativa gli uomini che opposero Paolo a Gerusalemme e ad Antiochia.
(pag. 34-35, mia libera traduzione)


A pagina 583 di On the Historicity of Jesus si confuta la falsa assunzione sottesa a queste parole: ossia che Paolo stesse parlando sul suo diritto di sposarsi come gli altri che menziona.

Altri palesi errori commessi da Dykstra su questo punto mi sono stati segnalati dal dr. Carrier nella sua risposta qui, che traduco.
Dykstra è caduto vittima di una comune assunzione di fede cristiana circa il passo di 1 Cor. 9  (tu trovi questo stesso errore fatto dal pulpito spesso, ma raramente in commentari accademici su 1 Corinzi). Peggio ancora, l'argomentazione di Paolo implica che Paolo e Barnaba avevano una moglie al cui mantenimento Paolo sta pensando. Non è quindi contro il mantenimento delle mogli dei missionari; egli in realtà sta sostenendo ciò come qualcosa a cui lui e il suo entourage hanno diritto. Possiamo supporre dalle sue altre osservazioni altrove che probabilmente Paolo non aveva una moglie, quindi questo deve essere circa Barnaba (non possiamo sapere con certezza, perché manca il resto originale di questa lettera, dove Paolo avrebbe spiegato l'argomento che sta rispondendo e per quale scopo).

Dykstra ha anche perso traccia del fatto che c'è una'interruzione tra il capitolo 8 e 9: questi non erano originariamente nella stessa lettera. Qualcuno ha ritagliato il capitolo 9 da qualche altra lettera e lo ha incollato qui (come mostro in OHJ), dal momento che si connette vagamente con  l'oggetto del capitolo 8 (entrambi sono su controversie connesse al cibo, ma la connessione è troppo debole perchè la transizione abbia senso per Paolo se l'avesse scritto così com'è, e la spiegazione dell'argomento a cui sta rispondendo nel capitolo 9 è mancante).


Il secondo errore commesso in quel capitolo da Tom Dykstra è lo stesso che commette impunemente l'apologeta cristiano Mauro Pesce: ritenere autentico 1 Tessalonicesi 2:14-16.

È semplicemente impossibile che l'ebreo Paolo maledica gli ebrei, dunque compreso sè stesso, quando tutti i suoi sforzi miravano a far convivere pacificamente ebrei legati alla Torah e gentili liberi dalla Torah. È semplicemente impossibile che Paolo si mostri così sicuro della distruzione imminente degli ebrei quando quella distruzione poteva solo testimoniarla chi era vissuto fino al 70.

Nonostante la presenza di questi motivi squisitamente apologetici inquini la qualità di questo capitolo, tuttavia non manca di segnalare il diverso valore che Paolo e i Pilastri attribuivano alla crocifissione e alla risurrezione.

Per Paolo Cristo era crocifisso e, sebbene risorto, Cristo doveva dunque ancora venire (la prima volta) sulla Terra.
Per Pietro il Cristo risorto era già in parte venuto, ovviamente non lui in persona nella gloria, ma almeno i primi mirabili effetti del suo Regno venturo, che già si riverberavano sulla Terra nell'entusiasmo apocalittico dei suoi fedeli giudeocristiani della prima ora.

Chiaramente i due apostoli erano entrambi apocalittici. Ma l'apocalitticismo di Paolo lo induceva all'azione missionaria tra i gentili, quasi novello Mosè. L'apocalitticismo di Pietro, essendo paradossalmente più virulente e irrazionale di quello di Paolo, induceva lui e i suoi seguaci a vivere come se il regno fosse già invisibilmente presente nella sua comunità, sicuramente in conseguenza di continui stati alterati di coscienza a causa delle frequenti allucinazioni che erano normale routine in quel mondo drogato di misticismo.

Il risultato fu che i giudeocristiani accentuavano ancora il valore di visioni, rivelazioni celesti, glossolalia, e altri fenomeni mistici allucinatori di questo genere.
Laddove Paolo e seguaci, pur non essendo da meno in quel genere di cose, sottolineavano invece senza posa l'amore e la carità reciproca in un mondo oramai divenuto ombra di sé stesso e prossimo a risvegliarsi nella luce di un nuovo, eterno Regno.
Cosa, allora, poteva aver indotto qualcuno a intraprendere la composizione di Marco al tempo specifico in cui fu scritto così molto tempo dopo la storia che racconta? Un'ipotesi che fa senso dei fatti conosciuti è che lo stesso gruppo coinvolto nella creazione delle epistole semplicemente aggiunse una nuova tattica - quella della narrazione - al loro repertorio letterario. Il cambiamento di tattica potrebbe essere stato occasionato dalla morte di Paolo e dalla realizzazione che l'efficacia della sua personale autorità nella perdurante battaglia stava per diminuire.
(pag. 38-39, mia libera traduzione e mia enfasi)


Dunque era necessaria inventare da zero una storia su Gesù in grado di:

1) proiettare nel passato, al tempo in cui si originò il movimento, la lacerante controversia sulla Legge che scoppiò solamente più tardi, con l'ingresso di Paolo sulla scena, e che ancora perdurava senza esclusione di colpi al tempo in cui Marco stava scrivendo.

2) disonorare chi si fregiava di aver ''visto'' Gesù prima di Paolo, arrogandosi per tal ragione il titolo di Pilastro.

3) ridimensionare la risurrezione di Gesù a tutto vantaggio della crocifissione di Gesù, così da indurre i credenti a non vivere come se gli effetti della prima si vedessero già tra loro dimenticandosi di emulare Gesù nella sopportazione della seconda, disimpegnandoli da ogni impegno civile e galvanizzandoli eccessivamente di un irrazionale fanatismo apocalittico e allucinatorio. In linea con quanto predicava Paolo (1 Corinzi 2:2: ''Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso.'' ).


Questo letterario Gesù non avrebbe bisogno di presentare alcun nuovo o unico insegnamento se non di confermare l'autorità dell'Antico Testamento.
(pag. 39, mia libera traduzione e mia enfasi)

Non capisco come uno storicista possa dire queste parole senza nessun segno di SORPRESA (si ricordi quanto avevo descritto nella prima parte della recensione). Se Gesù era esistito e ci si ricordò di lui in qualche modo, la conclusione sarebbe ben diversa da quella appena detta: PERFINO il letterario Gesù occasionato dalla necessità tutta contingente di rimpiazzare la perdita di Paolo AVREBBE AVUTO BISOGNO di presentare un insegnamento ''nuovo o unico'', anche se quell'insegnamento non fosse stato il suo ma gli fosse stato attribuito da altri, se non altro per dimostrare che quel Gesù era davvero esistito.


Si noti come tutto questo è al contrario straordinariamente atteso sotto l'ipotesi del mito di Gesù. Infatti, nell'assoluta mancanza di un Gesù storico, SOLO ALLORA con assoluta necessità il ''letterario Gesù non avrebbe bisogno di presentare alcun nuovo o unico insegnamento se non di confermare l'autorità dell'Antico Testamento.'' Lo stesso Antico Testamento che servì a dare una ''carne'' e una ''voce'' a quel Gesù letterario, e prima ancora al Gesù mitico di Paolo, e dei Pilastri prima di lui.