giovedì 28 agosto 2014

Dell'evento che spinse Marco a scrivere il suo vangelo (II)

Continua la seconda parte della mia recensione di Mark, Canonizer of Paul, di Tom Dykstra. Per l'intera serie si veda qui.

Devo ricredermi: non fu solo la minacciata estinzione di un'intera civiltà a costringere ''Marco'' a reagire con la stesura del suo vangelo (come avevo ipotizzato in passato), ma fu un altro evento, che assai più personalmente, e drammaticamente, segnò per sempre Marco e la sua comunità.


Nel capitolo 1, Mark's sources and Purpose, si fa subito chiaro qual è il problema che si intende risolvere:
Le risposte tradizionali alle domande circa le fonti di Marco e il suo obiettivo letterario sono che Marco attinse la storia ascoltando i discepoli e la scrisse allo scopo di diffondere le buone nuove su Gesù. Ma quelle risposte suonano semplicistiche per un testo nel quale il solo insegnamento di Gesù è ''Tu conosci i comandamenti'' e che lascia la sua risurrezione fuori dalla storia.
(Mark, Canonizer of Paul, pag. 23, mia libera traduzione e mia enfasi)

Paolo era morto. Le sue lettere non bastavano più per opporre i suoi pur numerosi proseliti gentili agli ostinati tentativi dei rivali giudaizzanti di riassorbirli e cooptarli nuovamente sotto la loro egida, nemmeno come richiamo a quella imponente e fiera figura di Apostolo dei Gentili che fu nella Storia Paolo (o la memoria di Paolo).

Richiamarsi alle parole di Gesù non balenò neppure nella mente a quei cristiani gentili ritrovatisi di colpo orfani del loro più autentico ''Giovanni il Battista'' (ovvero Paolo). Evidentemente perchè non ne sapevano nulla, perchè quel Gesù non era mai esistito come figura storica.

Emerse dunque la necessità di raccontare una storia in grado di confermare e per sempre l'autorità di Paolo e il contenuto delle sue lettere, il vero vangelo di Gesù.

Nel 1857 fu Gustav Volkmar il primo a riconoscere tutto questo.
Il vangelo di Marco era una presentazione allegorica dell'insegnamento di Paolo e della vita di Paolo.
(pag. 24, mia libera traduzione e mia enfasi)

Considerato folle nel caso migliore, revisionista della peggior specie nel caso peggiore, la sua tesi fu totalmente ignorata, ricordando lo stesso immeritato destino di infamia a cui furono condannati in passato i miticisti.

Tra così tanti giudizi negativi che stroncavano il suo lavoro, brillava solitario quello essenzialmente positivo del grande William Wrede (il più grande studioso di tutti i tempi del vangelo di Marco perchè scopritore del tema del Segreto Messianico):
''...Senza dubbio il libro di Volkmar è il più perspicace e accorto, e a mio parere insieme il più importante, che noi possediamo su Marco''.
(pag. 25, nota 6, mia libera traduzione e mia enfasi)

Ma oramai, più si disvelavano al vaglio del più rigoroso criticismo letterario i tratti fondamentalmente allegorici del vangelo di Marco, più riemergevano alla luce, dopo tanto oblìo, i pezzi di cui era costruito quel vangelo:
pezzi copiati ora dall'Antico Testamento, ora copiati dai poemi omerici, ora dalle lettere di Paolo.

L'Antico Testamento, i poemi di Omero, le lettere di Paolo, erano tutto ciò che aveva davanti a sé Marco quando si sedette alla sua scrivania per scrivere una storia allegorica.

Con un preciso scopo nella mente: ''esprimere indirettamente un messaggio per mezzo di un linguaggio simbolico'', suggellando per sempre, almeno per coloro che avessero ''occhi per vedere e orecchie per udire'', l'autorità del più grande Apostolo portatore di salvezza all'intera umanità.