sabato 3 maggio 2025

Thomas Whittaker: LE ORIGINI DEL CRISTIANESIMO — SUA COMPOSIZIONE

 (segue da qui)



II. SUA COMPOSIZIONE. 

Le prove invero di una ricostruzione fantasiosa sono evidenti. Pietro nel rivolgersi ai suoi connazionali non avrebbe potuto parlare delle autorità ebraiche come “i vostri capi” (3:17), né dell'invio del Figlio di Dio prima a Israele (3:26). [1] Nel veemente sfogo alla fine del discorso di Stefano noi udiamo la voce, non di Stefano stesso contro il Sinedrio, ma del cristianesimo successivo contro il giudaismo da cui esso si era separato, e che da allora aveva avuto abbondanti opportunità di “opporre resistenza allo Spirito Santo”. È un simile trasferimento drammatico delle idee del presente al passato in cui Paolo e Barnaba si “rivolgono ai Gentili” (13:46). Si fa intuire ai lettori che “Paolo” è costretto a fare questo passo perché gli ebrei hanno rifiutato “la grazia di Dio”. Questo è anche l'effetto a cui mira l'amaro, e allo stesso tempo folle, sfogo di Paolo contro gli ebrei a Corinto (18:6). 

Che l'opera non sia una composizione libera in tutto e per tutto è dimostrato, però, dalla mescolanza di tradizioni incoerenti. Nel racconto del “parlare in lingue”, la tradizione più antica, secondo cui si trattava di un'anomalia come quella descritta in 1 Corinzi 12 e 14 è fusa con quella più recente, secondo cui si trattava del dono, conferito istantaneamente, di parlare lingue straniere. In quest'ultimo caso l'accusa di ubriachezza non poteva avere alcuna rilevanza. Talvolta è l' infusione dello Spirito Santo, talvolta è il battesimo, a costituire il segno distintivo del cristiano. In 11:16 (cfr. 1:5) il battesimo dei cristiani con lo Spirito Santo (βαπτίζεσθαι ἐν πνεύματι ἁγίῳ) è contrapposto al battesimo con acqua (βαπτίζειν ὕδατι) di Giovanni. Nell'altra tradizione, ricevere lo Spirito Santo è un dono speciale indipendente dal battesimo. Ancora, in 19:5, i convertiti di Efeso devono essere ri-battezzati (dopo essere stati battezzati con il battesimo di Giovanni), per poter ricevere lo Spirito Santo. 

A questo si collega un'altra duplice tradizione. Da un lato, gli “apostoli” sono indicati chiaramente come la massima autorità tra i cristiani. Essi hanno una dottrina (ἡ διδαχὴ τῶν ἀποστόλων) a cui si deve aderire (2:42); operano miracoli; hanno potere di vita e di morte; nominano i diaconi; rimangono come corte suprema a Gerusalemme; inviano missionari. Tutti si sottomettono ai loro “dogmi” (16:4). Luca, però, conosce una tradizione diversa, secondo cui la massima autorità tra i cristiani è lo Spirito Santo, dal quale sono nominati direttamente i custodi del gregge (20:28). Talvolta egli tenta di combinare queste due tradizioni, come, ad esempio, quando la decisione del concilio di Gerusalemme è posta nella forma: “È piaciuto allo Spirito Santo e a noi” (ἔδοξεν τῷ πνεύματι τῷ ἁγίῳ καὶ ἡμῖν, 15:28). 

La comunità più antica, da un lato, è rappresentata come un ideale di amore e di armonia. Dall'altro lato, ci sono circostanze come il contenzioso tra le vedove che indussero alla nomina di diaconi (6:1—7), la riluttanza da parte dei conservatori a mangiare con i convertiti pagani, e così via. La comunità si diffonde rapidamente, eppure può rimanere a lungo indisturbata a Gerusalemme. Essa ha il favore di tutto il popolo (2:47), eppure è sottoposta fin dall'inizio a derisioni e persecuzioni. Paolo è appena passato al cristianesimo quando la sua vita è minacciata. 

Luca conosce diverse risposte alla domanda: chi fece per prima convertiti tra i pagani? Una versione avrebbe attribuito ciò all'evangelista Filippo, un'altra a Pietro, una terza a certi uomini di Cipro e di Cirene (11:19—22), una quarta a Paolo e a Barnaba (13:46—49), una quinta a Paolo e a nessun altro. A questo scopo Paolo fu scelto dal Signore fin dall'inizio (9: 15, 22:21, 26:16—18). La presenza di questa tradizione è particolarmente evidente nel modo brusco con cui Luca gli fa voltare le spalle agli ebrei a cui egli si è appena rivolto. 

Circa Paolo stesso le tradizioni sono incoerenti. Egli è un “giovane”, apparentemente senza particolare importanza, al momento della morte di Stefano, eppure è abbastanza vecchio da diventare subito dopo l'animatore di una sanguinosa persecuzione, che cessa quando lui passa al cristianesimo (9:31). Egli è rappresentato come un contemporaneo degli Apostoli e in relazioni costanti con loro; eppure, nella sua ultima visita a Gerusalemme, egli non è ricevuto dagli Apostoli, ma solo dai “fratelli”. Nel complesso, qui è come se fossimo in una generazione successiva. Luca conosce la tradizione secondo cui la sua chiamata non provenne dagli uomini, ma dal Signore risorto. Egli conosce anche un racconto in cui Anania (ἀνὴρ εὐλαβὴς κατὰ τὸν νόμον, μαρτυρούμενος ὑπὸ πάντων τῶν κατοικούντων Ἰουδαίων, 22:12) svolge un ruolo importante nella sua conversione. In accordo con questa rappresentazione, Paolo cerca e ottiene udienza dagli Apostoli, obbedisce alle loro istruzioni e si sottomette alle loro decisioni. 

Luca ha una duplice visione della cerchia in cui egli fu chiamato a operare. Talvolta egli è rappresentato come se i pagani gli fossero stati indicati fin dall'inizio come l'obiettivo dei suoi sforzi. Tra i suoi convertiti sono menzionati soprattutto i “Greci”. Di dove fossero i convertiti pagani, però, non è sempre chiaro. A Berea, per esempio, dal contesto non si può dedurre altro se non che essi provenissero dalla sinagoga degli ebrei (17:12). Ad Atene egli visita la sinagoga e parla pubblicamente a tutti allo stesso modo. A Giacomo e agli anziani di Gerusalemme (21:19), egli non ha nulla da riferire sulla sua attività tra gli ebrei, ma racconta ciò che Dio ha fatto tra i Gentili per mezzo della sua predicazione. Secondo un'altra concezione di quella predicazione, essa cominciò sempre presso gli ebrei; ed ebbe un certo successo tra di loro. Essi sono messi al primo posto tra quelli rivolti ad Atene (17:17), anche se poi lì non ne sentiamo più parlare in seguito. Gli ebrei guardano a lui come se egli abbia a che fare soprattutto con loro, poiché lo accusano continuamente e sollevano tumulti contro di lui. Egli è considerato da loro il loro nemico speciale (ὁ ἄνθρωπος ὁ κατὰ τοῦ λαοῦ καὶ τοῦ νόμου καὶ τοῦ τόπου τούτου πάντας πανταχῇ διδάσκων, 21:28). 

Anche sulla sostanza della predicazione di Paolo Luca conosce una duplice tradizione. Secondo una concezione di essa, non solo gli Ateniesi, ma anche gli ebrei e persino i primi cristiani avrebbero avuto il diritto di parlare della sua “nuova dottrina” e di definirlo un “annunciatore di divinità straniere”. Gesù è proclamato non più come il Cristo nel senso del Messia promesso a Israele, ma come Gesù Cristo, il Figlio di Dio, appena rivelato e oggetto di una “fede” che “giustifica” e “salva” come la Legge non può fare. Tramite lui c'è il “perdono dei peccati”. La “grazia di Dio” e la “vita eterna” sono riversate ai credenti in Cristo. Paolo non predica il Dio degli ebrei, ma un Dio finora ignoto (17:28). Questo Dio non dimora in templi fatti da mani d'uomo, quindi non nel santuario di Gerusalemme. [2] Gli oppositori di Paolo, sia ebrei che cristiani primitivi, [3] sanno bene che egli non “osserva la legge” veramente. Affiancata a questa, tuttavia, c'è un'altra rappresentazione, secondo la quale egli avrebbe semplicemente insegnato che Cristo, il Messia ebraico, “doveva necessariamente soffrire e risorgere dai morti” (17:3). Il contenuto della sua predicazione non è, come altrove, il nuovo “vangelo della grazia di Dio”, ma il tradizionale “regno di Dio” (29:8, ecc.), nel quale i cristiani devono entrare attraverso molte tribolazioni (14:22). Egli non ha fatto nulla contro il suo popolo o la sua legge (ἐναντίον τῷ λαῷ ἢ τοῖς ἔθεσι τοῖς πατρῴοις, 28:17), di cui è stato dall'inizio alla fine uno scrupoloso osservante (21:20—27). Anche come cristiano, egli è un adoratore del Dio dei suoi padri (ὁμολογῶ δὲ τοῦτό σοι, ὅτι κατὰ τὴν ὁδὸν ἣν λέγουσιν αἵρεσιν, οὕτως λατρεύω τῷ πατρῴῳ Θεῷ, 24:14). [4] Luca tenta di riconciliare queste due prospettive mediante la loro semplice sovrapposizione Lo si può vedere nella forma particolare di dichiarazione intorno alla predicazione di Paolo; ad esempio, 9:20 (ἐκήρυσσεν τὸν Ἰησοῦν ὅτι οὗτός ἐστιν ὁ υἱὸς τοῦ θεοῦ). “Predicare Gesù” e “che egli è il Figlio di Dio” possono ancora essere percepiti come due concezioni che non sono giunte a una fusione completa. 

Come si potrebbe ipotizzare dalla sua introduzione al terzo Vangelo, Luca ha attinto per queste diverse tradizioni in parte a fonti scritte. Ciò lo si può provare da un esame esplicito degli Atti. Diverse confusioni e contraddizioni nella narrativa sono spiegabili per mezzo di una rielaborazione parzialmente libera del materiale, insieme alla conservazione, in una certa misura, delle frasi stesse dei documenti. Le parole “per mezzo dello Spirito Santo” (διὰ πνεύματος ἁγίου) in 1:2 hanno l'aspetto di un'interpolazione da parte di qualcuno che voleva dire che Gesù insegnò per mezzo dello Spirito Santo prima della sua ascensione: un'affermazione davvero incoerente con 1:4, 5, secondo cui i discepoli dovevano aspettare a Gerusalemme che esso venisse donato. Se non c'è motivo di pensare che l'interpolatore fosse qualcun altro rispetto all'autore del libro, allora possiamo supporre che lui abbia esteso una frase che egli riprese da qualche narratore precedente e non abbia notato l'effetto dell'aggiunta. Una spiegazione simile si applicherà al passo confuso 5:12—15. Così pure per l'ammonimento di Gamaliele in 5:38—39 (ὅτι ἐὰν ᾖ ἐξ ἀνθρώπων ἡ βουλὴ αὕτη ἢ τὸ ἔργον τοῦτο, καταλυθήσεται· εἰ δὲ ἐκ Θεοῦ ἐστιν, οὐ δυνήσεσθε καταλῦσαι αὐτούς) che ovviamente rompe il nesso. Le ripetizioni e l'interruzione del nesso nel racconto della morte di Stefano possono essere spiegate analogamente mediante inserimenti per mano di Luca in una narrativa su cui egli operò. Il racconto di Simon Mago indica l'uso di due fonti diverse, in una delle quali si celebrava l'effetto prodotto dalla predicazione di Filippo, mentre nell'altra si rappresentava il mago samaritano nel tentativo di carpire lo Spirito Santo a sua disposizione, al pari gli Apostoli. Tralasciando altri casi di rielaborazione imperfetta, giungiamo ai passi, di cui 16:10 offre il primo esempio, dove la narrativa passa dalla terza persona alla prima. Ciò indica la ripresa letterale di frammenti da un itinerario e ci occuperà più tardi. Nel frattempo, si possono notare uno o due casi che giungono più oltre nel libro. L'Areopago, dove Paolo è detto aver tenuto il suo discorso ad Atene (17:19), era un tribunale. Questo non era un luogo dove ognuno era libero di esporre la propria teologia ai passanti. Forse Luca trovò dichiarato, nella fonte che utilizzò, che ad Atene, come altrove, Paolo aveva dovuto difendersi dinanzi alle autorità legali. Ciò spiegherebbe la circostanza per cui è detto che coloro che lo scortarono all'Areopago lo presero con sé (ἐπιλαβόμενοί δὲ αὐτοῦ ἐπὶ τὸν Ἄρειον πάγον ἤγαγον). L'autore, elaborando ciò alla propria maniera, immaginò un incontro con filosofi curiosi di udire l'esposizione di una nuova dottrina. In 19:14 si parla di sette figli di Sceva; essi sono in seguito (19:16) riferiti come “entrambi” (ἀμφοτέρων, cambiato dai correttori in αὐτῶν). La spiegazione probabile è che Luca avrebbe ridotto la narrativa intermedia, trascrivendo alla lettera le porzioni di essa che egli riprese. Infine, si osservi quella che sembra l'irrimediabile confusione di 20:4, 5, [5] dove è detto che coloro che lo seguirono partirono prima.

 Allora ci furono fonti scritte. Possiamo accertare quali fossero queste fonti?

NOTE
[1] Non ho fornito numerosi dettagli di questa dissezione alquanto spietata. Il tradizionalista che riuscisse a immaginare le parole di 1:19 (ὥστε κληθῆναι τὸ χωρίον ἐκεῖνο τῇ ἰδίᾳ διαλέκτῳ αὐτῶν Ἀκελδαμάχ, τοῦτ’ ἔστιν χωρίον αἵματος) pronunciate da Pietro a Gerusalemme, sarebbe certamente incurabile con qualsiasi metodo noto alla logica.

[2] Il discorso agli Ateniesi messo in bocca a Paolo è qui visto come un'espressione di quelle idee “paoline” di cui lo gnosticismo successivo, con la sua subordinazione del Dio degli ebrei al Dio supremo, costituì un'evoluzione. Se lo considerassimo più una composizione originale di Luca e meno l'espressione di una tradizione, persino quella dei “Paolinisti”, lo si potrebbe interpretare un abbozzo della tipica apologetica ortodossa del secondo secolo descritta da Renan. Gli apologeti, come sottolinea Renan, si appellarono, con poca sincerità, alle classi colte dell'Impero romano facendo leva su quel monoteismo filosofico che di norma essi già possedevano, cercando di dare l'impressione che l'adesione alla nuova fede avrebbe significato poco più che l'ufficializzazione di una siffatta teologia razionale. 

[3] Questi, secondo Van Manen, sono raffigurati nella leggenda di Bar-Gesù (13:6—12), il “figlio” o discepolo di Gesù: in altre parole, il cristiano del vecchio stampo. 

[4] Qui vediamo la tradizione preservata del tempo in cui il cristianesimo fu solo una setta, una αἵρεσις, del giudaismo.

[5] Van Manen discute a lungo questo passo.

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