(segue da qui)
11. Filosofia contro Religione Rivelata.
Si è osservato sopra che la resistenza del secondo secolo ai propagandisti di nuove rivelazioni assicurò uno spazio di respiro alla filosofia indipendente. Questa tregua permise a Plotino, nel terzo secolo, di fondare l'ultimo grande sistema filosofico dell'antichità, da allora noto come neoplatonismo, senza neppure nominare la Chiesa cattolica, anche se in un libro egli si oppose alle dottrine degli Gnostici. I cristiani gnostici, con le loro elevate pretese speculative, sembrarono senza dubbio più degni di essere confutati da un filosofo che non agli ortodossi, i quali, per lui, avrebbero rappresentato solo il lato puramente superficiale del movimento. Plotino trova, infatti, negli Gnostici una sorta di riflesso sfocato di Platone: eppure dovremmo sapere dal suo trattato, se non avessimo altre prove, che anch'essi furono fanatici anti-ellenistici, pieni di quell'arroganza che considerava l'intero mondo visibile e tutti gli uomini, tranne i cristiani, esclusi dalla cura del potere divino distinto da quello demoniaco o addirittura diabolico. Il nuovo sviluppo filosofico non fu, a lungo andare, privo di benefici per il cristianesimo stesso, in quanto sistema che poteva dare soddisfazione a coloro che cercavano nella religione elementi più elevati del credo e del cerimoniale. Molto di ciò che passa comunemente per cristianesimo è in realtà Stoicismo o Platonismo; e i neoplatonici, diventando gli espositori autorizzati dell'antica filosofia finché insegnamento di quest'ultima non fu represso, trasmisero ai cristiani istruiti parte dell'erudizione delle scuole. Inoltre, essi apportarono contributi propri alla speculazione, che i pensatori cristiani trovarono vantaggioso riprendere.
Alla luce di quanto è stato detto circa la “teurgia” della scuola, è necessario sottolineare che il neoplatonismo rimase essenzialmente una filosofia. Esso non aveva una nuova religione da propugnare ma, se consentito, avrebbe continuato il processo di allegorizzazione e di riforma morale delle religioni del mondo greco-romano. Alcuni membri della scuola si rifiutarono di avere a che fare con la teurgia e, se altri furono influenzati dal contagio dell'epoca, ciò non è sorprendente. Ciò che divide tutti quanti loro fondamentalmente dai cristiani - e, anzi, dal mondo orientale in generale - è il loro approccio nei confronti della mitologia. Presso di loro il mito è chiaramente distinto dalla scienza. Essi allegorizzano le avventure di un dio pur negando esplicitamente che ciò che è raccontato fosse mai avvenuto. Sembra che alcuni, seguendo lo stesso Platone, si opponessero persino a questo grado di conformità alla religione popolare. Proclo, nel suo commentario alla Repubblica, si scaglia contro coloro che incolparono i miti greci di aver dato manforte ai cristiani, [1] i quali erano soliti farsi valere denunciando la loro immoralità. La sua risposta è singolarmente moderna. L'abuso non toglie l'uso: si potrebbe ugualmente sostenere che gli alcolici dovrebbero essere espulsi dallo Stato perché alcuni ne fanno un uso eccessivo. I miti divini vanno usati moderatamente: vanno trattati nel loro significato ovvio come miti, e non come un'espressione di pura ragione; ma un significato filosofico va ricercato sotto di loro.
Ora, naturalmente, il modo di allegorizzare Omero comune alle scuole greche posteriori, pur spesso interessante in sé, allontanò dalla verità sulla vera natura dei poemi, i quali non erano esposizioni di teologia filosofica. Ma è bene riconoscere che dopotutto c'è qualcosa nel punto di vista. Gli antichi creatori di miti, non potendo esprimersi con astrazioni, ma solo con immagini, spesso trasmisero una verità generale mediante questo mezzo. Gli stessi filosofi, nell'esporre le loro interpretazioni, erano soliti esprimere il dubbio se ciò fosse stato fatto in modo autoconsapevole o per una sorta di istinto. È ancora abbastanza facile trovare sotto storie come la Caduta dell'Uomo o la Torre di Babele una verità mitica come quella trovata sotto molti miti greci; e un filosofo non può essere biasimato ragionevolmente per aver esercitato il suo ingegno in questo modo:
“dum vera re tamen ipse
Religione animum turpi contingere parcat”.
Il significato estrapolato dalle storie bibliche, come da storie simili in Esiodo, potrebbe esservi stato riposto in origine: sembrano essere esempi di mito che passa allo stadio riflessivo. In ogni caso, la questione fornirebbe un interessante argomento di discussione. E bisogna ammettere che, se i filosofi avessero potuto trattenere per uso popolare il sistema antico contro il nuovo, avrebbero preservato per il tempo una superstizione meno crudele.
I cristiani, per quanto ad alcuni sarebbe piaciuto sbarazzarsi dell'intera tradizione che li aveva preceduti, si accorsero ben presto che, per mantenere la loro presa su un mondo che ancora ereditava i resti della cultura intellettuale, necessitarono di una filosofia ufficiale da combinare alla loro mitologia. Questa filosofia loro potevano solo ricavarla dalle scuole greche. Il neoplatonismo fornì loro la successiva teoria dell'anima immateriale. Ed è un fatto interessante che una sedicente religione rivelata abbia dovuto ricorrere, per ogni serio sforzo di trovare nell'universo la manifestazione di un ordine razionale e morale, a pensatori che non pretesero mai di aver ottenuto ciò che potevano offrire in tal senso con qualcosa di diverso dall'esercizio della propria ragione. È doveroso rendere omaggio agli intelletti migliori del periodo del cristianesimo istituzionalizzato per essere tornati alla sapienza dei Greci, così sprezzantemente contrapposta, nei documenti da loro ritenuti sacri, alla “follia” che l'avrebbe confusa. Dobbiamo, ad esempio, a Guglielmo di Morbeka, l'arcivescovo domenicano di Corinto nell'ultima parte del tredicesimo secolo, la preservazione, in una versione latina, di tre trattati di Proclo contenenti l'esposizione della sua teodicea. E questi, nella traduzione semi-comprensibile, possono ancora essere letti con interesse; mentre il trattato corrispondente di Leibniz, per la sua accettazione ufficiale di elementi comuni ai credi protestante e cattolico del diciassettesimo secolo, è già obsoleto.
La questione radicale tra i neoplatonici e i cristiani era se la filosofia dovesse essere ufficialmente al di sopra della religione popolare oppure la religione popolare al di sopra della filosofia. Un sistema di pensiero che riassumeva per il suo tempo la tradizione della più elevata civiltà raggiunta non poteva sottomettersi a diventare l'“ancella” di una fede che considerò barbarica. E questa doveva essere la posizione assegnata alla filosofia durante la decadenza della civiltà in cui l'Europa stava ora sprofondando. Nei tempi moderni la filosofia si è di nuovo emancipata a tal punto da poter sussistere come una sorta di specializzazione scientifica senza rendere omaggio al credo ancora nominalmente accettato dal mondo in generale; ma, fino a quando la posizione non sarà ufficialmente invertita, la civiltà antica, in cui tutti coloro che non si accontentarono della semplice consuetudine cercarono luce nella filosofia, va classificata sotto questo aspetto superiore a quella moderna. Naturalmente, nessuno proporrebbe di far rivivere il neoplatonismo come credo filosofico. Esso però ha un valore tipico in quanto risultato di un lungo processo intellettuale che, per quanto cauto potesse essere in relazione al sentimento popolare, non aveva bisogno di prestare deferenza a nessuna autorità costituita in fatto di opinioni. Per quanto tempo questo è stato vero per la filosofia moderna? [2]
NOTE
[1] Allusi, ma non menzionati per nome.
[2] Sul versante naturalistico, Comte ha affermato di essere stato il primo ad essere perfettamente esplicito, anche se la posizione reale di alcuni dei suoi predecessori è inequivocabile. Nelle teorie dell'idealismo costruttivo, una certa ambiguità si riscontra ancor oggi per il tacito riferimento a una posizione mitologica giudeo-cristiana per quanto riguarda la “creazione”. Quanti pensatori idealisti si arrischiano a porre chiaramente la domanda, perfettamente comprensibile, se nei loro principi vada ipotizzato un inizio assoluto dei fenomeni? In questo caso ci sarebbe un vantaggio nel riferirsi ai neoplatonici, non necessariamente per concordare con loro, ma al fine di partire da una tesi sostenuta su basi razionali.
Nessun commento:
Posta un commento