mercoledì 16 ottobre 2024

ECCE DEUS — PENTIMENTO NEL NUOVO TESTAMENTO

 (segue da qui)

PENTIMENTO NEL NUOVO TESTAMENTO

Esaminiamo ancora più attentamente l'uso neotestamentario. In Apocalisse 2 e 3 il verbo è usato sette volte: Efeso è elogiata, ma è esortata: “ravvediti e fa' le opere di prima”, “perché hai lasciato il tuo primo amore” (2:5). Chiaramente si intende qualche errore religioso, qualche difetto di fede, qualche deviazione dal vero culto; non c'è alcun accenno di decadenza morale. Pure Pergamo è lodata, ma è anche rimproverata per il compromesso con l'idolatria per il consumo di cibi sacrificati agli idoli, ed è invitata a pentirsi solo per questo motivo. Il pentimento è puramente religioso e non etico. Similmente Tiatira, solo in modo più esplicito: il suo unico peccato è questo stesso compromesso col paganesimo nella persona di quella donna, Gezabele, e solo per questo non era riuscita a pentirsi. Sardi viene rimproverata aspramente e viene esortata severamente al pentimento. Non è detto specificamente per che cosa; tuttavia, la conclusione è sicura che si trattasse di una contaminazione religiosa, di una corruzione indotta da un falso culto; infatti è detto: “Hai alcune persone in Sardi che non hanno contaminato le loro vesti” (3:4). Laodicea è aspramente rimproverata: perché? Evidentemente e unicamente per la mancanza di zelo nella crociata contro il politeismo. La Chiesa si era secolarizzata; nella dura contesa tra i molti dèi e il dio unico non si schierò senza compromessi: non fu né fredda né calda. Per questo anch'essa è esortata: “abbi dunque zelo e ravvediti”. Non c'è motivo di dubitare che il riferimento del termine in questione sia puramente religioso, come altrove. 

Ancora una volta, in 9:20, 21, troviamo: “il resto degli uomini non si ravvide ancora dalle opere delle loro mani e non cessarono di adorare i demoni e gli idoli d'oro......non si ravvidero dei loro omicidi né dalle loro magie né dalla loro fornicazione né dai loro furti”. Anche qui il pentimento è in prima linea puramente religioso, un allontanamento dal falso culto. Delle quattro specifiche aggiuntive del versetto 21, la seconda e la terza sono anch'esse religiose, essendo il riferimento al culto pagano; mentre la prima e la quarta sono allusioni velate oppure alludono a reati in qualche modo ritenuti connessi all'idolatria. I sofferenti erano solo idolatri, “soltanto gli uomini senza il segno di Dio in fronte” (9:4). Infine, in 16:9, 11, il caso è particolarmente chiaro: “Essi bestemmiarono il nome di Dio......e non si ravvidero per dargli gloria......e bestemmiarono il Dio del cielo......ma non si ravvidero dalle loro opere”. Quest'ultima frase è la stessa di 9:20, dove le opere sono definite opere di idolatria e l'obiettivo del pentimento è implicitamente quello di dare gloria a Dio; quindi il pentimento non può essere nient'altro che l'allontanamento dal paganesimo. La testimonianza dell'Apocalisse è esplicita, inequivocabile, decisiva. 

In 2 Corinzi 12:21, l'Apostolo parla di molti che “non si sono ravveduti dell'impurità, della fornicazione e della dissolutezza a cui si erano dati”. Sembra evidente che questi termini severi indichino qui, come spesso nelle Scritture, l'impurità religiosa, cioè una qualche forma di atto idolatrico, qualche infedeltà a Dio. In Atti 2:38; 3:19, abbiamo la presunta prima predicazione, rivolta apparentemente agli ebrei, con l'esortazione: “Ravvedetevi e ciascuno di voi sia battezzato”, “Ravvedetevi dunque e convertitevi”; ma è stato dimostrato in Der vorchristliche Jesus che tutto questo fa parte solo del piano di Luca per far sì che il movimento cristiano parta esclusivamente da Gerusalemme, contro i fatti del caso. L'autore ha preso l'esortazione ai gentili e l'ha applicata agli ebrei. Nota anche che essi dovettero ricevere lo Spirito Santo — naturalmente, qualora rinunciassero agli spiriti immondi (demoni-dèi) che avevano servito. Qui non c'è allora una vera e propria violazione della regola. In 8:22, Simone è esortato: “pentiti di questa tua iniquità”; ma questa aggiunta alla storia precedente non può essere ritenuta storica, come mostrato già in Der vorchristliche Jesus. Essa è l'inizio di quella falsa rappresentazione di Simone che si estende a tutti i Padri e in particolare agli scritti clementini. 

In 17:30, Paolo dichiara: “Dopo esser passato sopra ai tempi dell'ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi”. L'ignoranza fu l'ignoranza che concerne Dio, la vera religione, il monoteismo, come si evince dal versetto 29: “Non dobbiamo pensare che la Divinità sia simile all'oro”, ecc.; per cui il pentimento è certamente un allontanamento dall'idolatria. In Atti 26:20, troviamo: “che si ravvedano e si convertano a Dio, facendo opere degne del ravvedimento”. Questo appello non può che significare l'abbandono dell'idolatria e il culto corretto di Dio. Non dobbiamo stupirci che lo scrittore rivolga questo appello pure agli ebrei, dal momento che abbiamo più volte dimostrato che i primi cristiani insistettero sul fatto che gli stessi ebrei non erano veri adoratori di Dio; in effetti, l'intero discorso di Stefano non è che un'elaborazione e un'illustrazione storica di questa posizione, come emerge chiaramente in 7:51, 52 e 53. Solo da questa prospettiva il discorso è comprensibile. 

In Luca la parola “ravvedersi” ricorre dieci volte. In 10:13 e 11:32, il riferimento è chiaramente all'abbandono dell'idolatria; esso potrebbe essere lo stesso anche in 13:3, 5, e anche in 15:7, 10. Il peccatore è qui contrapposto al giusto. Quest'ultimo non è nient'altri che il Ṣaddîq veterotestamentario, colui che adempie la legge, che adora Dio giustamente: “per la maggior parte in riferimento alla legge divina data agli israeliti; quindi dei fedeli e pii israeliti in opposizione agli erranti” (Buhl), ai trasgressori, ai malvagi, ecc. che, pur non essendo pagani, si comportavano da pagani nella loro irreligione. Non c'è alcun riferimento alla vita morale interiore. In 16:30, nella parabola di Lazzaro, è di nuovo una questione di religione, di accettare il Regno, il culto di Gesù; non è coinvolta alcuna questione di etica. Il brano rimanente — 17:3, 4 — è degno di nota. A prima vista sembra solo una questione di rapporti privati di vicinato. Ma un'attenta considerazione mostra che ciò è impossibile. I versetti precedenti 1, 2, mostrano che si tratta degli inciampi dei “piccoli”, cioè dei gentili convertiti. Tali inciampi furono, ovviamente, frequentissimi e i versetti insegnano ad avere pazienza. Era difficilissimo per un convertito rinunciare di colpo a tutte le sue abitudini pagane; spesso egli avrebbe inciampiato e peccato, sarebbe ricaduto nel paganesimo; ma altrettanto spesso, se si pentiva, doveva essere perdonato e riaccolto. Il pentimento è religioso; è lo stesso ritorno al vero culto dal falso. E chi deve perdonare? Chi è il “tu”? Il singolo cristiano? Certamente no. È la comunità cristiana, la coscienza cristiana. Wellhausen vede qui, in effetti, solo il singolo cristiano, riducendo così il passo all'assurdo; ma riconosce che nel parallelo in Matteo (18:6 e seguenti, 15, 21 e seguenti) c'è un chiaro riferimento alla comunità (Gemeinde). 

Il sicomoro è difficile da capire. L'ipotesi seguente è azzardata: In presenza dell'immenso fatto del politeismo e della debolezza della natura umana, che comporta la necessità di una pazienza e di una tolleranza infinite, il compito di convertire il mondo, di stabilire realmente il vero culto, sembra quasi senza speranza. Persino la fede degli apostoli avrebbe potuto vacillare. Nondimeno il compito sarebbe stato realizzato. Il sicomoro dell'idolatria sarebbe stato rimosso dalla terra e gettato in mare insieme alla legione degli dèi-demoni. Non è strano che il sistema del politeismo sia simboleggiato così, dal momento che il Regno di Dio ha altrove come emblema il seme e la pianta di senape. [1

Ma perché un sicomoro piuttosto che qualche altro? La domanda è difficile, al momento forse impossibile, da rispondere. A meno che non prendiamo questo albero come un vago simbolo generale di salde radici, come la quercia viva della Costa del Golfo, dobbiamo ricorrere alla filologia. La forma siriaca è Thûtha e il nome misnaìco del sicomoro è Tûth. Si potrebbe pensare al Taut (principio fenicio dell'universo), dal suono simile ma dall'ortografia diversa, e al relativo Thoth egizio; forse ci sarebbe un riferimento all'intero schema di cose destinato ad essere rovesciato dalla nuova fede. Anche nel Wörterbuch di Levy (II, 534) troviamo una strana citazione sotto Tothavah (visitatore temporaneo): “Guai, guai, Tothavah espelle il signore della casa — cioè l'idolo è adorato al posto di Dio”. La parola potrebbe quindi celare un'allusione al sistema idolatrico che la nuova fede, piccola quanto un granello di senape, eppure avrebbe sradicato e distrutto. Gli Evangelisti non furono affatto incapaci di fare allusioni di questo tipo; ma nulla di più è suggerito qui se non che una spiegazione di questo tipo, anche se di gran lunga migliore, prima o poi chiarirà la questione. 

Non va dimenticato che Luca menziona (19:4) un altro albero affine, il sicomoro, l'ebraico shiqmah, l'aramaico (plurale) shiqmin. Da qui sembra derivare il greco συκάμινος (sicomoro). I botanici ci assicurano che i due alberi sono ben distinti e i termini siriaci non sono identici; tuttavia, non sembra del tutto certo che l'Evangelista avesse pensato alla differenza. In ogni caso, sembra impossibile non riconoscere in Zaccheo-Zakkai = puro, innocente (Jah ?) — un simbolo dell'elemento ebraico che accettò il culto di Gesù. [2] Anche Keim (J. v. N., III, 47-50) riconosce “la facile comprensibilità dell'origine posteriore dell'intera storia, che Luca attinse evidentemente dal suo Vangelo ebionita”. Non è facile, né di grande importanza, stabilire se ora il sicomoro sia solo un dettaglio illuminante; ma non sembra troppo azzardato intendere con questo albero anche lo stesso culto pagano, attraverso il quale Zaccheo si era invero elevato, dal quale, però, scende accettando il culto di Gesù (ricevendo il Gesù nella sua casa).

Ritornando da questa lunga digressione, osserviamo che in sei dei sette usi di “pentirsi” in Matteo e in Marco il significato è quello di volgersi dagli idoli a Dio; solo nel settimo, le parole del Gesù sono attribuite pure a Giovanni. Alla luce di quanto detto sopra, allora, ci sembra pienamente giustificato mettere in dubbio la correttezza di questa attribuzione. Anzi Giovanni sembra essere stato un asceta e aver introdotto un battesimo simbolo di assoluta purezza; può indubbiamente aver esortato ad una vita religiosa e persino morale più rigorosa, per preparare il popolo alla venuta dell'Unico, poiché era idea comune che il Regno fosse ritardato dal culto imperfetto di Israele. Ma non era ancora l'imperfezione morale, bensì l'imperfezione religiosa di Israele a rimandare l'avvento. Si trattava dell'“opinione generale che il Messia non può venire finché il popolo non si pente e non adempie perfettamente alla legge. 'Se Israele facesse conversione per un sol giorno, immediatamente arriverebbe il figlio di Davide'. Qualora Israele osservasse anche due soli sabati nella maniera prescritta, si sarebbe all'aurora della redenzione” (Schürer, G. d. j. V., II, 11, § 29). Chiaramente l'unica questione era quella della perfetta obbedienza, del culto religioso. A questo proposito si ricordano le parole di Weber (Jüdische Theologie, 243): “Da questa prospettiva percepiamo che i peccati non furono considerati principalmente, ma solo secondariamente, azioni etiche”. Anche se il Battista, riprendendo i metodi degli antichi profeti, avesse gridato “Pentitevi”, lo avrebbe inteso nell'antico senso profetico di “Volgetevi” a Dio e al suo culto puro, lontano dalle corruzioni introdotte dal contatto col paganesimo. 

Sembra necessario spendere qualche parola sul sostantivo “pentimento”. Uno sguardo a tutti gli otto usi della parola nei Vangeli (Matteo 3:8, 11 ; Marco 1:4; Luca 3:3, 8 ; 5:32 ; 15:7; 24:47) mostra che sono tutti perfettamente coerenti con il significato: conversione al vero culto dal falso, al monoteismo dal politeismo. In Atti 11:18, 20:21, il significato qui sostenuto è fortemente raccomandato come l'unico significato soddisfacente; l'uso in 26:20, è perfettamente coerente con esso; in 13:24, 19:4, il riferimento è al battesimo di Giovanni, di cui si è detto abbastanza; in 5:31, l'autore parla di Dio che dà “ravvedimento a Israele e perdono dei peccati”, dove il termine sembra usato nel significato che reca nelle antiche esortazioni profetiche a Israele. In Romani 2:4; 2 Timoteo 2:25; 2 Pietro 3:9, è richiesto il significato qui sostenuto. In 2 Corinzi 7:9 e 10, “Questa tristezza vi ha portati al ravvedimento” e “la tristezza secondo Dio [3] produce un ravvedimento che porta alla salvezza”. Sappiamo poco o nulla di questo episodio, ma sembra difficile credere che non avesse comportato qualche errore religioso da parte della Chiesa. Notiamo, inoltre, che il loro pentimento fu causato dal loro dolore, e non fu affatto il dolore stesso, che sembra contrassegnato dalla frase “secondo Dio” come se avesse un riferimento distinto alla religione. L'ipotesi naturale sembrerebbe che una parte della comunità fosse ricaduta in alcune pratiche pagane, per le quali si addolorava di cuore e dalle quali si rivolgeva di nuovo a Dio. 

In Ebrei 6:1 incontriamo la meravigliosa esortazione: “Perciò, lasciando l'insegnamento elementare intorno a Cristo, tendiamo a quello superiore e non stiamo a porre di nuovo il fondamento del ravvedimento dalle opere morte e della fede in Dio”. Non ci interessa svelare questo enigma, ma solo scoprire il senso del pentimento. Notiamo che esso è in immediata connessione con la “fede in Dio” (ἐπὶ Θεόν). Il suggerimento immediato è che le “opere morte” siano forme di culto pagane o semi-pagane, come i cristiani ritenevano fossero anche i riti e le cerimonie ebraiche, le feste, i noviluni e simili. È certo che non c'è alcun accenno a qualcosa di etico. Nel sesto versetto si dichiara impossibile riportare certi apostati [4] “al ravvedimento”. Qui non c'è alcun dubbio di sorta. È chiaro che l'apostasia è dalla vera fede, da Dio, e il pentimento è il ritorno ad essa. Inequivocabile è anche il passo successivo (12:17), in cui è detto di Esaù che “non trovò luogo di pentimento, benché la ricercasse (la benedizione) con lacrime”. Evidentemente ciò che cercava era il riottenimento del favore divino, delle prerogative di servo eletto e adoratore di Jahvé, che aveva ceduto al fratello minore. Qualunque qualità morale potesse accompagnare l'atto di Esaù apparteneva alla sua ricerca disperata (della benedizione) con lacrime, che tuttavia fu del tutto inutile. Che l'autore abbia in mente la ricaduta in una qualche forma di idolatria o di falso culto è chiarito anche nei versetti 15 e 16, dai termini “contaminati”, “infetti”, “fornicatore”, che si riferiscono tutti al paganesimo, e dalla citazione relativa alla “radice di amarezza”, che si riferisce a un idolatra che corrompe i fedeli con la sua presenza e il suo esempio, come si evince da Deuteronomio 29:16-18, a cui lo scrittore allude chiaramente.

NOTE

[1] D, in accordo con il manoscritto Siriaco (Curetoniano; cfr. la versione di Burkitt), inserisce anche il riferimento allo spostamento della montagna (come in Matteo 17:20). Può essere che la montagna simboleggi il mosaismo (del Sinai) e il politeismo il sicomoro, entrambi che saranno eliminati dalla nuova fede? 

[2] Il caso non cambia sostanzialmente se Cheyne ha ragione e Zakkai = Zaccaria (=Jah ricorda); anzi, anche se il primitivo Zikhri fosse un nome tribale, dato che la questione verte sulla comprensione popolare del nome, e non sull'etimologia scientifica.

[3] κατὰ θεὸν.

[4] παραπεσόντας.

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