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PARTE VII.
(I)SCARIOT(A) = CONSEGNATORE
FORMA E SIGNIFICATO DELLA PAROLA
Che ci sia uno strano fascino nel male sembrerebbe illustrato dal perenne interesse che fiorisce intorno al nome di Giuda Iscariota. Per gli antichi è sinonimo di peccato; per Dante “Quell’anima là sù c’ ha maggior pena” è l'eponimo dell'infimo girone di Cocito, all'apice della voragine infernale, azzannato dalle fauci di Satana, allo zero assoluto del calore divino del mondo. Ogni nuovo commentario, ogni nuova “Vita (?) di Gesù”, ha la sua bella teoria sui motivi che mossero il grande peccatore, proprio come gli antichi si dilettarono con la loro fantasia sulla morte del peccatore. Queste fantasie e teorie sembrano avere tutte quante lo stesso valore: cioè nessuno. Studiosi illustri, di cui non è opportuno fare il nome, hanno messo a dura prova le forze della retorica nel descrivere e denunciare la spaventosa iniquità del Tesoriere dei Dodici Apostoli, rovellandosi sulle parole del tutto prive di passione e indifferenti dei Sinottici. Tutto questo rumore e furore non dovrebbero trattenere un attimo il critico sobrio; ma le domande rimangono perplesse e importanti: chi fu Giuda? Cosa significa (I)Scariot(a)? È quest'ultimo quesito che va trattato per prima. Dopo tutto quello che è stato scritto sul tema, sembra sorprendente quanto poco appaia sicuro o persino altamente probabile. La forma del nome, che ricorre dieci o undici volte, è di per sé molto incerta. In Matteo 10:4, è “Giuda l'Iscariota”, ma in 26:14, l'articolo è omesso. In Marco 3:19; 14:10, è “Giuda Iscariot”; ma in 14:43, “Giuda (l'Iscariota)”, dove le autorità pro e contro le parentesi sembrano quasi bilanciate. In Luca 6:16, leggiamo “Giuda Iscariota”; ma in 22:3, “Giuda chiamato Iscariota”. In Giovanni 6:71 e 13:26, leggiamo “Giuda, (figlio) di Simone Iscariota”; ma in 12:4, “Giuda l'Iscariota” e in 13:2, “Giuda, (figlio) di Simone Iscariota”. Sei volte troviamo il suffisso “che lo consegnò” (mai “che lo tradì”), una volta assieme a “l'Iscariota”, Matteo 10:4. Sette volte leggiamo “uno dei dodici”, una volta “uno dei Suoi discepoli”. Complessivamente questo “Giuda” si incontra ventidue volte, oltre a Giovanni 14:22, dove troviamo “Giuda, non l'Iscariota”. Le varianti testuali sono innumerevoli. Tra le più importanti c'è la lettura “da Cariot” (ἀπὸ Καρυωτου) in ℵ, e altre in Giovanni 6:71; anche la stessa lettura in D in Giovanni 12:4; 13:2, 26, e (con l'articolo ὁ da prefisso) in 14:22; anche la forma “Scariot” in D in Marco 3:19; Luca 6:16; Giovanni 6:71; anche “Scariot” in D in Matteo 10:4; 26:14; Marco 14:10. Questo D è apprezzato così tanto dai grandi critici testuali, come Volkmar, Zahn, Nestle, che loro considerano la sua strana lettura ἀπὸ Καρυωτου l'originale e addirittura l'unica lettura originale in Giovanni (cosa che anche Tischendorf ammette possibile), nonché la conferma della traduzione di Iscariota in “Uomo di Keriot”, come se derivasse dall'ebraico 'îsh q'riyyôth, e questa derivazione si può definire l'etimologia accettata. Holtzmann, ad esempio, dice in Hand-Commentar, i, pag. 97: “Iscariot = l'uomo di Keriot in Giuda, Giosuè 15:25”. Questa interpretazione, però, si scontra con ogni tipo di improbabilità. Dalman la rifiuta (Die Worte Jesu, pag. 41, 42), riconoscendo in Iscariot la forma “originale” “incomprensibile allo stesso scrittore del Vangelo”. Le sue sottili ragioni filologiche possono essere tralasciate. I fatti più significativi sembrano essere che l'espressione q'riyyôth di Giosuè 15:25 non è affatto una città o un villaggio, ma è il plurale della forma dialettica qiryath (città), e si riferisce a un “gruppo di luoghi” (Cheyne) in un distretto Hezron non appartenente realmente a Giuda, dato che la Versione Riveduta recita correttamente Keriot-Hesron; mentre il Keriot di Geremia 48:24, 41, Amos 2:2, appartenne a Moab. Keim (Jesus von Nazara, ii, 225, nota 2), pur ritenendo certo il significato di “Uomo di Keriot”, vide l'improbabilità di questi Keriot, e di conseguenza scoprì in Giuseppe un terzo Keriot, ora chiamato Kuriut, cioè Coree (Guerra Giudaica 1:6, 5; Antichità Giudaiche 14:3, 4), o Corea (Guerra Giudaica 4:8, 1), nel nord di Giuda; ma pochi o nessuno sembrano averlo seguito in questa identificazione. Wellhausen (Ev. Marci., pag. 25) vede chiaramente l'impossibilità “di pensare all'ebraico 'îsh e di tradurre 'Uomo di Keriot'” e, rifiutando l'idea che si tratti di un gentilizio, inclina saggiamente a considerarlo “un nome di accusa come Bandito (Sicarius)”. Inoltre, va ricordato che la forma siriaca (Skariota) depone fortemente contro l'identificazione con l'ebraico איש קריות. Infatti questa forma siriaca scritta in lettere ebraiche è סבר (יו) טא sia nel Sinaitico che nella Peshitta, con varianti occasionali in altri manoscritti meno importanti. Si osserva che il siriaco ha ס, non ש, e ב, non ק — divergenze per nulla trascurabili. Naturalmente, si può plausibilmente affermare che il siriaco ha semplicemente traslitterato il greco, come in molti altri casi — ad esempio, estratiota da stratiotes (soldato). Ma la forma siriaca presuppone l'assenza dell'iniziale Ι dal greco. È vero che il siriaco non può lasciare che la parola inizi con una vocale; però non lascerebbe cadere la Ι, ma preferirebbe una alef א, come nella traslitterazione di Aquila, Evodia, Iconio, Olimpia, Italia, Imeneo e innumerevoli altri nomi, o altrimenti una Yod (י), come in Italica (Atti 10:1). [1] Per ogni ragione, allora, dobbiamo respingere l'interpretazione accettata “uomo di Keriot” in quanto impossibile, e allo stesso tempo l'idea che il termine sia un gentilizio. Inoltre, sembra del tutto impossibile collegare il nome Iscariot con la venerabile e diffusa radice שבר, che significa bevanda, o con un qualsiasi nome di luogo.
A questo punto, quindi, l'idea dell'On. Willis Brewer (The Open Court, agosto 1909) che il nome sia legato alla radice ebraica S-K-R, e significhi prezzolato, merita una seria considerazione. Questa radice ricorre spesso nell'Antico Testamento — circa quarantasette volte — sempre nello stesso senso di ingaggio, salario, ricompensa, prezzo. In tutti questi casi le lettere ebraiche sono שבר, da cui i comuni termini aramaici per salario (sekhîroth) e salariato (sakhîr); ma in un caso (Esdra 4:5) viene usata la forma più tardiva סבר, che concorda esattamente con il siriaco skar-iota. Che Giuda sia chiamato il prezzolato sembra molto plausibile, soprattutto in vista dell'uso fatto da Matteo (27:9, 10) del passo di Zaccaria 11:12, dove l'espressione mio prezzo (שברי, sekharî) è menzionata due volte. Però, pur ammirando questo suggerimento, non dobbiamo adottarlo frettolosamente. Infatti, la narrativa più antica (in Marco) non fa menzione di questo passo veterotestamentario. Il nome sembrerebbe essersi originato allora in modo indipendente. Inoltre, il suffisso rimane inspiegato, anche se non è così importante, e si ha la sensazione che sia richiesto un significato attivo piuttosto che passivo.
Ma c'è un'altra radice, S-K-R (סבר), che compare nell'Antico Testamento, e una volta nel significato preciso che il Nuovo Testamento sembra richiedere. In Isaia 19:4, leggiamo: “E io consegnerò l'Egitto nelle mani di un signore crudele”. È vero che questa radice significa comunemente “rinchiudere”, in ebraico, in aramaico e in siriaco, e così può essere resa pure qui (Cheyne); è pur vero che Ezechiele 30:12 — “Io venderò il paese nelle mani di uomini malvagi” — suggerisce che ס potrebbe essere un errore per מ, sikkarti per makharti. Ma nessuno di questi fatti può influire sul caso, perché il testo fu certamente letto e compreso in quel tempo proprio come lo è ora. Ciò è provato dalla Septuaginta, che rende sikkarti con παραδώσω = io consegnerò. È risaputo che questo verbo greco παραδιδόναι non significa tradire, ma rinunciare, offrire, consegnare, cedere: pure rimettere in senso assoluto, come nel verso di Ben Jonson: “It shall, if you will; I forgive my right” (Cynthia's Revels, 5:2); e così è reso innumerevoli volte ovunque nel Nuovo Testamento, tranne che in relazione a Giuda, dove è reso universalmente tradire. Ma se l'Evangelista avesse voluto dire tradire, lo avrebbe detto; il greco prodidónai era familiare e a portata di mano, ed è usato costantemente dagli scrittori ecclesiastici al posto del neotestamentario paradidónai. Che non si volesse dire tradire, ma consegnare, è chiaro dall'apparente omissione dell'idea di tradire. Ci furono molte occasioni per parlare di Giuda come del Traditore (prodótes); ma solo in Luca 6:16 egli è chiamato così, poiché non c'è la parola paradótes, consegnatore, Ueberlieferer; altrove si usa una circonlocuzione, come “che lo consegnò”, ecc. Inoltre, la versione siriaca sinaitica (teste Adalbert Merx) lo definisce sempre il Consegnatore e mai il Traditore, neppure in Luca 6:16, dove solo il greco legge prodótes (traditore).
A questo punto qualcuno potrebbe prendere in mano Liddell e Scott, e leggere sotto παραδίδωμι: “Anche con idea implicita di tradimento, come προδιδόναι; Latino prodere, Senofonte, Ciropedia 5:4, 51; Pausania 1:2, 1”. Ma indubbiamente un uomo potrebbe consegnare proditoriamente, proprio come potrebbe baciare, o abbracciare, o scrivere, o parlare, o fare molte altre cose proditoriamente. Ma tutto ciò non implica affatto che baciare, abbracciare, scrivere, parlare, significhi mai tradire. Di conseguenza, in nessuno dei casi citati è corretto rendere la parola con tradire. Qualunque “idea implicita” di tradimento possa essere presente, va ricercata nelle circostanze del caso, non nella parola usata, la quale significa semplicemente “consegnare”. In Senofonte, Ciropedia, è dichiarato che due fortezze, per paura di Ciro e per la persuasione di Gadata, furono indotte ad consegnare la loro guarnigione (ἔπεισε παραδοῦναι τοὺς φυλάττοντας). Forse Gadata aveva corrotto le autorità, ma a Senofonte non ha interesse in quel fatto: non farebbe onore a Ciro, e quindi si accontenta di dire che essi consegnarono le guardie, senza ulteriori precisazioni. Non volle dire che essi tradirono le guardie, altrimenti lo avrebbe detto; e Dindorf ha tradotto correttamente “perfectum est ut custodes dederent”. Nell'Attica di Pausania leggiamo che “entrati in città, c'è il monumento dell'Amazzone Antiope......Eracle aveva messo l'assedio a Temiscira sul Termodonte, ma non gli riusciva di conquistarla; ecco però che Antiope, innamoratasi di Teseo — che prendeva parte alla spedizione insieme con Eracle —, consegnò la fortezza al nemico”. Questa fu la versione del trezenio Egia; gli Ateniesi ne raccontarono un'altra. Senza dubbio la consegna in questo caso fu perpetrata a tradimento. Ma non c'è nulla nel linguaggio che lo dimostri. Raramente si erigono monumenti ai traditori; il narratore della storia fu troppo galante per oscurare la memoria dell'Amazzone, e quindi preferì dire che era stata lei a consegnare la fortezza. Ma se qualcuno dice che l'azione di Giuda, comunque descritta, fosse altrettanto traditrice, la risposta è che non abbiamo alcun interesse a smentire questa asserzione. Non ci interessa la qualità morale dell'atto di Iscariota, ma solo la sua rappresentazione da parte dell'Evangelista; e senza alcuna attenuazione del suo reato, dobbiamo riaffermare che il Vangelo lo rappresenta ovunque non come un tradimento, ma semplicemente come una consegna. Sembra curioso che la stessa frase (egli fu consegnato) sia usata per Giovanni il Battista, dove non c'è alcuna questione di tradimento eppure non c'è alcuna allusione visibile nel termine consegnare. Chi lo consegnò? E perché? Sembra inutile fare congetture. Ma per quanto si possa rispondere a queste domande, possiamo comunque dire con perfetta sicurezza che i Vangeli rappresentano ovunque Giuda come il Consegnatore, mai come il Traditore.
Ma confronta le parole (I)Scariot(a) e sikkarti nelle loro forme ebraica e siriaca, una sotto l'altra:
סכרתי
סכריוטא
Sicuramente la rassomiglianza è fin troppo grande per essere accidentale. Essa aumenta ulteriormente, fino quasi all'identità pratica, quando osserviamo che la forma “Iscariot”, apparentemente la più antica, richiede ת, invece di ט, e che l'Alef siriaca (א) si usa regolarmente per vocalizzare, rappresentando sia ā che ē, e questa ē lunga si confonde con ī. Tuttavia, sulle vocalizzazioni, siano esse iniziali, mediali o finali, non si può porre alcuna enfasi. Il punto importante è che l'epiteto (I)Scariot e l'ebraico sikkarti (consegnare) sono quasi identici nella forma. La deduzione immediata e inevitabile è che (I)scariot(a) è solo una forma sottilmente mascherata [2] dell'ebraico, e significa semplicemente il consegnatore; sicché i suffissi ricorrenti del testo greco, “Che-anche-lo-consegnò”, “il consegnatore”, ecc. sono solo traduzioni dell'epiteto (I)scariot(a), dove il kai (anche) del greco sembra riecheggiare l'iniziale ו dell'ebraico. Ciò sembra quanto di più naturale possibile, quasi inevitabile, perché difficilmente può essere una coincidenza casuale che i suffissi greci producano il significato apparente del nome semitico. (I)scariot(a) è, quindi, esattamente ciò che Wellhausen ritenne che dovesse essere, uno “Schimpfname”, un soprannome, un nomignolo dispregiativo: il più appropriato, e persino inevitabile. Ricordiamo, infine, che in Isaia (19:4) la consegna è nelle mani di un signore crudele, e in Ezechiele 30:12, la vendita è nelle mani di uomini malvagi, di cui ci sembra di sentire l'eco nelle frasi evangeliche, “nelle mani dei peccatori” o “di uomini peccatori”. Non c'è bisogno di soffermarsi sulle possibili implicazioni di שקר (inganno) a questo proposito, nonostante la frase ממונ דשקר.
NOTE
[1] Naturalmente, Arimatea non fa eccezione, poiché la A sembra rappresentare la Ha nell'ebraico Ha-Ramathaim.
[2] L'identità assoluta, naturalmente, non va ricercata. L'artista che escogitò per prima il nome sapeva che la parola in Isaia (19:4) era un verbo, e intese riprodurla in forma di sostantivo, non esattamente ma abbastanza approssimativo da rendere il nome una sorta di enigma “comprensibile agli iniziati”. Si può sospettare che avesse modellato la forma Scariota su Stratiotes, anche se ci sono altre possibilità.
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