lunedì 7 ottobre 2024

ECCE DEUS — IL SILENZIO DI GIUSEPPE

 (segue da qui)

IL SILENZIO DI GIUSEPPE

Quando il critico liberale è chiamato a giustificare il suo dogma della mera umanità del Gesù, il suo unico ricorso deve essere a qualche forma di documento storico. Una vita meramente umana è semplicemente una questione di storia umana, a cui coerentemente va fatto appello. La storia o è o sacra o è profana. La testimonianza della prima non è qui in discussione e inoltre è stata esaminata accuratamente altrove dal presente scrittore. Della storia profana la testimonianza è “breve ma interminabile”, se mai ci sia una testimonianza del genere. La prima, e senza ombra di dubbio la più importante, si trova nelle Antichità dello storico ebreo Giuseppe — proprio l'opera in cui la si cercherebbe con il più vivo interesse e la più grande fiducia. L'attestazione, come la leggiamo ora, è chiara, decisiva e inequivocabile. Accettata per quella che è, risolve per sempre la questione che ora agita così tanto la testa e il cuore della Germania. Merita, allora, l'esame più coscienzioso e illuminato. 

Siffatto esame rivela in primo luogo che il capitolo in cui si trova la deposizione riguarda esclusivamente le calamità che colpirono gli ebrei. È inserito tra altri due paragrafi che parlano di pesanti disastri che colpirono il popolo di Dio a Roma e a Gerusalemme. Ora, a meno che questo stesso passo non parli di qualche disgrazia grave per i suoi compatrioti — e a dispetto di Chwolson è irrimediabilmente assurdo e ridicolo tentare una costruzione del genere — sembra impossibile che Giuseppe debba averlo introdotto a questo proposito. Facciamo questa osservazione preliminare nella speranza che il lettore la tenga costantemente a mente fin dall'inizio, e perché è di per sé assolutamente decisiva contro l'intero paragrafo e contro ogni emendazione che l'ingegno apologetico possa suggerirne. Non c'è una sola parola dell'intero brano che possa reggere contro questa singola considerazione: ossia che tutto il resto del capitolo, sia prima che dopo, è dedicato alle afflizioni che flagellarono i compatrioti dello storico. 

Ecco allora questo famoso paragrafo riprodotto nel suo (condensato) contesto: Antichità, Libro 18, capitolo 13.

§ 1. Pilato, procuratore di Giudea, trasferisce l'esercito da Cesarea a Gerusalemme per i quartieri invernali e, contro ogni precedente, introduce di notte le effigi di Cesare nella Città Santa. Gli ebrei accorrono a Cesarea protestando per cinque giorni, ma invano; il sesto giorno Pilato medita un piano per massacrarli, ma, colpito dalla loro eroica devozione nell'esporre a nudo il proprio collo, si trattiene e ordina di riportare le immagini da Gerusalemme a Cesarea. 

§ 2. Pilato si impegna a rifornire Gerusalemme di acqua, utilizzando denaro sacro. Gli ebrei protestano clamorosamente e abusivamente. Così egli distribuisce tra la popolazione soldati in veste di cittadini; a un segnale (quando gli ebrei si rifiutarono di disperdersi) i soldati estraggono i loro pugnali nascosti e fanno strage: “Ma i Giudei non calmarono la loro fierezza, e così, colti disarmati com’erano, da uomini preparati all’attacco, molti rimasero ammazzati sul posto, mentre altri si salvarono con la fuga. Così terminò la sommossa”.

§ 3. “Allo stesso tempo, circa, visse Gesù, uomo saggio, se pure uno lo può chiamare uomo; poiché egli compì opere sorprendenti, e fu maestro di persone che accolgono con piacere la verità. Egli conquistò molti Giudei e molti Greci. Egli era il Cristo. Quando Pilato udì che dai principali nostri uomini era accusato, lo condannò alla croce. Coloro che fin da principio lo avevano amato non cessarono di aderire a lui. Nel terzo giorno, apparve loro nuovamente vivo: perché i profeti di Dio avevano profetato queste e innumerevoli altre cose meravigliose su di lui. E fino ad oggi non è venuta meno la tribù di coloro che da lui sono detti Cristiani”.

§ 4. “Nello stesso periodo un altro orribile evento [1] gettò lo scompiglio tra i Giudei”.  ......Poi segue la storia del disonore di Paulina nel tempio di Iside recatole da Mundo che impersonò Anubi, e della punizione di questo sacrilegio da parte di Tiberio, che fece demolire il tempio e crocifisse tutti i colpevoli, tranne il principale, Mundo stesso. 

§ 5. La disgrazia degli ebrei: 4000 sono banditi da Roma per la malvagità di quattro, un rabbino e tre compagni, che si procurarono doni da Fulvia, moglie di Saturnino, con  falsi pretesti. 

Difficilmente possiamo invidiare l'intuizione critica che vede in questo § 3 la mano di Giuseppe. Il capitolo tratta solamente delle disgrazie degli ebrei a Cesarea, a Gerusalemme, a Roma. § 3 è del tutto estraneo al suo contesto. 

Per di più, che § 4 segua immediatamente da § 2 è evidente nelle parole “un altro orribile evento”. L'ovvio riferimento è al precedente massacro di Gerusalemme. Non c'è alcun possibile riferimento a § 3

Inoltre, lo stile non è quello dello storico. È semplice, diretto, disinteressato, in contrasto con le maglie intricate della sentenza di Giuseppe. 

Ma ancora di più, e decisamente, lo scrittore di § 3 è un cristiano. Egli dichiara positivamente: “Egli era il Cristo”. [2] Fingendosi Giuseppe, dice di Gesù: “uomo saggio”, ma all'istante si corregge: “se pure uno lo può chiamare uomo”; descrive Gesù come un autore di prodigi, come un maestro della verità; afferma precisamente la resurrezione: “nel terzo giorno, apparve loro nuovamente vivo”; accetta la serie dei diecimila prodigi narrati a proposito di lui come Messia e  predetti su di lui dai divini profeti. Una fede del genere, e una confessione così aperta, avrebbero potuto soddisfare persino il Sant'Uffizio dell'Inquisizione. 

Ancora una volta, la fraseologia ricorda smaccatamente il Nuovo Testamento. Così γίνεται nel senso di viene (Marco 1:4; Giovanni 1:6; 2 Pietro 2:1; 1 Giovanni 2:18) e il cambiamento dal tempo passato al tempo presente; [3] “che accolgono con piacere la verità”; [4] confronta “i principali nostri uomini” con “i capi” [5] dei Vangeli, degli Atti, delle Epistole; confronta pure “coloro che fin da principio lo avevano amato” con Giovanni 13:1, “dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”; confronta anche le “innumerevoli cose meravigliose” con Giovanni 21:25, “Non basterebbe il mondo intero a contenere i libri che si potrebbero scrivere”

Infine, la frase “fino ad oggi” richiama il Nuovo Testamento “fino a questo giorno” (Matteo 28:15), e indica similmente una datazione tardiva del paragrafo, sicuramente posteriore all'80 E.C., quando Giuseppe scrisse le sue Antichità. Schürer osserva (§ 17, nota 24) che “Giuseppe è stato certamente interpolato da una mano cristiana”; e alla luce di tutto ciò non ci dovrebbe essere nessuna esitazione a considerare spurio questo paragrafo, con il grande editore Bekker. 

A questa evidenza interna si aggiunge il fatto esterno decisivo che il paragrafo fu sconosciuto a Origene. Il più dotto dei Padri, nella sua polemica contro Celso, ebbe frequenti e pressanti occasioni di utilizzare ogni frammento di testimonianza esterna alla tesi cristiana aggredita. Come vedremo immediatamente, egli cita copiosamente e ripetutamente la testimonianza di Giuseppe riguardante Giacomo il Giusto; egli ebbe ogni occasione e ogni motivo per citare questa testimonianza incomparabilmente più rilevante e assai più importante relativa al Cristo. Il fatto che non la metta mai in evidenza è una prova moralmente conclusiva che non ne conoscesse l'esistenza, il che può solo significare che essa non fosse presente nella copia di Origene di Giuseppe. Nessun tentativo ancora di eludere questa conclusione sembra degno di nota. Il fatto che il passo non sia menzionato da scrittori ancora più antichi, come Ireneo, Tertulliano, Clemente di Alessandria e altri, fornisce una conferma, se mai ce ne fosse bisogno, del fatto che né questa né ogni altra testimonianza disponibile riguardante Gesù si trovassero nelle copie di Giuseppe in mano ai Padri cristiani. 

Sembra allora che l'origine non di Giuseppe di questo paragrafo sia indicata inequivocabilmente da quasi ogni tipo di prove che si possono richiedere in queste materie. La sua testimonianza sembrerebbe essere non a favore, ma nettamente contro la posizione che fu designata a sostenere; perché gli uomini non fabbricano documenti per corroborare il vero, ma per raccomandare il falso. Non insistiamo su questo punto, comunque, ma accontentiamoci del fatto ovvio che, secondo la valutazione più favorevole possibile, il paragrafo è soggetto ai più gravi sospetti e non può attestare nulla se non che esso stesso ha estremo bisogno di attestazione.

Qui sin da subito è bene osservare che l'ipotesi generale dell'interpolazione cristiana non ha bisogno di alcuna verifica e non comporta alcuna improbabilità. Infatti che ciò sia un dato di fatto in innumerevoli casi è ammesso da tutti. Tralasciando per il momento il Nuovo Testamento, l'elenco delle composizioni cristiane completamente pseudonime, universalmente riconosciute come tali, è lungo e formidabile. Non è necessario appesantire queste pagine con un elenco di tal genere, poiché tali elenchi sono facilmente accessibili e il fatto generale non è in discussione da nessuna parte. Inoltre, tra le opere probabilmente genuine, è la rara eccezione ad aver sfuggito all'interpolazione. Le opere ebraiche erano regolarmente adattate all'uso cristiano mediante questo processo approvato di interpolare sentimenti, dogmi o allusioni cristiane. Lo testimoniano gli Oracoli sibillini, i Testamenti dei Patriarchi e gli Apocrifi ebraici in generale. Ben lungi, allora, dall'essere improbabile a priori, tale interpolazione è molto probabile a priori; è più probabile che no. Nondimeno, per lasciare un margine di sicurezza più ampio, impiegheremo questa forma di argomentazione con parsimonia, non dovunque il suo uso è possibile, ma solo laddove è raccomandato da considerazioni indipendenti. 

Un secondo riferimento di Giuseppe a Gesù potrebbe essere immaginato nel seguente paragrafo (Antichità 20:9, 1) che tratta della morte di Giacomo, “il fratello del Signore”: “Con il carattere che aveva, Anano pensò di avere un’occasione favorevole alla morte di Festo mentre Albino era ancora in viaggio: così convocò i giudici del Sinedrio e introdusse davanti a loro un uomo di nome Giacomo, fratello di Gesù, detto Cristo, e certi altri, con l’accusa di avere trasgredito la Legge, e li consegnò perché fossero lapidati”

Le parole in corsivo [6] sono state considerate spurie — pensiamo, correttamente. Neander e altri le difendono, e McGiffert dice (The Church History of Eus., pag. 127, nota 39): “È difficilissimo supporre che un cristiano, nell'interpolare il passo, si sia riferito a Giacomo come al fratello del 'cosiddetto Cristo'”. [7] Infatti! Al contrario, è proprio perché questa frase è quella cristiana più approvata, evangelica e canonica che noi la sospettiamo in Giuseppe. La ritroviamo in Matteo 1:16; 27:17, 22; Giovanni 4:25. Il deprecativo “così” non è nel greco. Quindi leggiamo di “Simone cosiddetto Pietro” (Matteo 4:18; 10:2), “il sommo sacerdote cosiddetto Caifa” (Matteo 26:3), “la festa cosiddetta di Pasqua” (Luca 22:1), “l'uomo cosiddetto Gesù” (Giovanni 9:11), “Tommaso il cosiddetto Didimo” (Giovanni 11:16; 20:24; 21:2), “la porta cosiddetta Bella” (Atti 3:2), “il tabernacolo cosiddetto Santo dei Santi" (Ebrei 9:3), dove il deprezzamento è fuori questione. L'indicazione è semplicemente quella di un cognome o soprannome, o di un nome in qualche modo particolare o straordinario. 

Sembra incredibile che Giuseppe abbia inserito una tale osservazione in questo punto, senza alcuna preparazione o spiegazione o occasione. Inoltre, è certo che Giuseppe è stato interpolato altrove da mani cristiane, e proprio con questa stessa frase; Origene, infatti, cita tre volte da Giuseppe l'affermazione che le sofferenze ebraiche per mano di Tito fossero un castigo divino per l'uccisione di Giacomo: “Flavio Giuseppe afferma nelle sue Antichità Giudaiche: 'Ciò era loro avvenuto secondo l’ira di Dio, per i torti che avevano osato compiere nei confronti di Giacomo, fratello di Gesù chiamato Cristo'. ......E afferma che 'anche il popolo pensava di aver subìto questi castighi a causa di Giacomo'” (463) in Commento a Matteo 13:55. “E lo stesso autore [Giuseppe], ricercando la causa della caduta di Gerusalemme e della distruzione del Tempio...... dice: 'Queste [disgrazie] sono capitate ai Giudei per render giustizia di Giacomo il Giusto, il quale era fratello di Gesù detto il Cristo, dacché lo condussero a morte pur essendo l’uomo più giusto'”Contra Celsum 1:47. “Tito distrusse Gerusalemme, secondo quel che scrive Giuseppe, a causa di Giacomo il Giusto, che era fratello di Gesù detto il Cristo” Contra Celsum 2:13 fin. Il passo si trova ancora in alcuni manoscritti di Giuseppe; ma siccome è mancante in altri, è e deve essere considerato un'interpolazione cristiana più antica di Origene (contro Hilgenfeld, Einleitung, pag. 526, che ritiene che il passo sia stato espunto dai manoscritti cristiani di Giuseppe!) Ora, siccome questa frase è certamente interpolata in un punto, l'unica conclusione ragionevole è che sia interpolata nell'altro. L'idea che la morte di Giacomo fosse stata vendicata nell'assedio di Gerusalemme si ritrova in germe in Egesippo, che dice: “E così subì il martirio. E lo seppellirono sul luogo presso il tempio....... Questi è divenuto veritiero testimone per i Giudei e anche per i Greci del fatto che Gesù è il Cristo. E subito Vespasiano li assedia” (Eusebio, H. E., 2:23, 18).

Ma la frase stessa non attesta forse la mera umanità di Gesù? Ma è chiaro che se Giacomo o qualsiasi altro fosse stato davvero il fratello in carne e ossa del Signore o di Gesù, allora quest'ultimo di certo non fu puramente divino. Ma è intesa una parentela in carne e ossa dal termine “fratello”? Non è certo; non è neppure probabile. Winckler (in Arabisch-Semitisch-Orientalisch) e altri ci hanno mostrato quanto sia ampio il concetto di fratello in Oriente. Nello stesso Nuovo Testamento il termine è usato continuamente, regolarmente, per indicare una relazione religiosa, senza il minimo accenno a una parentela di sangue. In Occidente e ai giorni nostri è usato similmente per tutti i membri di un'organizzazione, sia laica che religiosa. Nei Vangeli [8] a Gesù stesso si fa chiedere: “Chi sono i miei fratelli?”. E risponde: “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. Qui, allora, nella Chiesa più antica, troviamo una precisa dichiarazione che essere “fratello di Gesù” equivaleva ad osservare la legge, a fare la volontà del Padre nei cieli. Ma era proprio questo adempimento puntiglioso della legge il motivo per cui questo Giacomo il Giusto fu famoso. Questo fatto è ben noto e universalmente ammesso, tanto che regge senza nessun bisogno di una prova esplicita.

Negli Atti sentiamo parlare molto di questo Giacomo, ma solo in questa veste di capo dei discepoli rispettosi della legge. Nientemeno che un'autorità come Girolamo (387 E.C.) ha espresso l'idea corretta su questo punto. Commentando Galati 1:19, egli dice (in sintesi): “Giacomo è chiamato fratello del Signore a causa della singolare moralità, della fede senza pari e della sapienza non comune; anche tutti gli altri apostoli vengono certo chiamati fratelli (Giovanni 20:17), ma principalmente è chiamato fratello colui al quale il Signore, andando al Padre, aveva affidato i figli di sua madre” (ossia i membri della Chiesa di Gerusalemme). Similmente Origene, nell'immediata continuazione del passo citato (Contra Celsum 1:47). Da 1 Corinzi 9:5 vediamo con chiarezza che c'era un gruppo di Messianisti, quasi coordinato con gli Apostoli, recante il nome onorato di “fratelli del Gesù” o “del Signore”; anche un gruppo chiamato “Quelli di Cefa”. Infatti a Corinto alcuni dicevano: “Io sono di Cefa”; altri: “Io sono di Cristo”

In effetti, non è mai accennato che Giacomo fosse davvero consanguineo di Gesù. Riteniamo, allora, che questo termine “fratello del Signore” non implichi affatto una parentela familiare: che molto probabilmente designi un gruppo di sinceri Messianisti, zelanti dell'obbedienza; e ci spingiamo a metterli in stretta relazione con “Quelli del Cristo” di Corinto. [9] Sicuramente, se una setta di antichi Messianisti fosse nota come “Quelli del Cristo”, è altamente probabile che essi o qualche gruppo simile dovessero essere noti come “fratelli del Signore” o di “Gesù”. Specialmente questo sembra intrinsecamente probabile quando ricordiamo che non ci sono prove che questo nome fu impiegato prima che si fosse già affermata, o almeno si stesse affermando, la nozione dell'esistenza umana e terrena di Gesù. Il fatto che alcuni zelanti nella legge chiamassero sé stessi e il loro capo precedente “fratelli di Gesù” non è più strano del fatto che Loyola fondasse la “Compagnia di Gesù”. Inoltre, non dobbiamo mai dimenticare che abbondarono grandemente nomi dei cristiani come Santi, Discepoli, Chiamati, Eletti, “di Paolo”, “di Pietro”, “di Cristo”, Nazorei, Gnostici, Perfetti, Pneumatici e altri. Da tutto ciò concludiamo che l'espressione in questione, non importa quando usata per prima, né da chi, né di chi, non implica affatto alcuna parentela, né fornisce alcuna prova della natura puramente umana di Gesù.


NOTE

[1] ἔτερόν τι δεινόν.

[2] ὁ Χριστὸς οὗτος ἦν.

[3] Così pure παραδόξων, come in Luca 5:26, εἴδαμεν παράδοξα σήμερον.

[4] Confronta Luca 8:13, “ricevono la parola con gioia”; Atti 17:11, “ricevettero la parola con ogni premura”; Giacomo 1:21, “ricevete con dolcezza la parola piantata in voi”.

[5] ἄρχοντες.

[6] τòν ἀδελφòν Ἰησοῦ τοῦ λεγομένου Χριστοῦ (Ἰάκωβος ὄνομα αὐτῷ) e καὶ ἑτέρους.

[7] τοῦ λεγομένου Χριστοῦ.

[8 Matteo 12:46-50; Marco 3:31-35; Luca 8:21. Si veda anche Matteo 25:40, 28:10; 1 Corinzi 9:5; Galati 1:19.  

[9] οἱ τοῦ Χριστοῦ.

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