sabato 28 settembre 2024

ECCE DEUS — IL RITRATTO EVANGELICO

 (segue da qui)

V. — IL RITRATTO EVANGELICO

136. Un grande avvocato, in questo caso tanto giudice quanto grande critico, mi scrive che la sua principale difficoltà ad accettare la nuova tesi sta nel ritratto estremamente vivido nei Vangeli di una personalità molto attraente. Questo ritratto gli sembra ricavato dal vero, ed è impossibile che sia il prodotto di una fantasia filosofeggiante religiosa. Altri illustri pensatori mi hanno scritto in modo simile e sembrano aver messo a nudo il nocciolo vero della questione, come sta nel pensiero di molti laici molto intelligenti. 

Von Soden insiste anche sul fatto che l'immagine evangelica è fin troppo fresca, originale e non inventabile per essere comprensibile altrimenti rispetto ad una riproduzione diretta e fotografica dal vero. Fintantoché questa tesi è ripetuta interminabilmente nelle apologie liberali di oggi, non sarebbe giusto nei confronti del lettore passarla inosservata. 

137. Una risposta ovvia e sufficiente sembrerebbe essere che se un Evangelista avesse davvero mirato a dipingere una personalità assolutamente nobile e bella — perfetta, anzi, secondo il modello dell'Evangelista — non sembra esserci alcuna ragione per cui non avrebbe potuto farlo; sarebbe solo una questione di abilità letteraria, e non c'è alcun motivo per porre limiti ristretti alle abilità dell'Evangelista. Se qualcuno insiste, però, sul fatto che ci fossero tre o persino quattro artisti di questo tipo e che il loro accordo sia una prova decisiva del fatto che stavano attingendo dallo stesso modello vivente, la risposta è che nel caso dei tre è ammesso e certo che nessuno dei ritratti è strettamente primitivo, ma che tutti sono elaborazioni dello stesso o degli stessi originali; laddove il quarto è manifestamente così divergente dagli altri tre da far disperare persino i ostinati nell'armonizzazione. 

Ma se si insiste sul fatto che la perfezione del personaggio delineato vada oltre la potenza di qualsiasi artista letterario e oltre la concezione di qualsiasi genio filosofico del periodo, la risposta è che si tratta di una mera supposizione, per quanto sia ritenuta superiore la perfezione in questione. La coscienza giudaico-greco-romana era forse la più intensamente religiosa che questa terra abbia mai visto. Inoltre, per secoli si era rovellata su problemi etici con un'energia, una perseveranza e una determinazione che comportano ammirazione e suscitano meraviglia; il Sapiente, l'Uomo Perfetto, era stato a lungo l'oggetto delle sue immaginazioni poetiche; e l'immediata comunione interiore e persino l'identificazione con Dio erano state a lungo l'obiettivo degli sforzi di molti spiriti più o meno elevati. Il fatto che, in condizioni così ben note e riconosciute, soprattutto con il modello trascendente nel Secondo Libro della Repubblica in piena vista, lo scrittore del Vangelo sia stato in grado (se lo desiderava) di raffigurare una personalità di bellezza, nobiltà ed eccellenza del tutto superiori, non sembra dare adito ad alcuna esclamazione di sorta. 

138. Ma non abbiamo ancora toccato il nocciolo della questione. La difficoltà latente sta in una visione comunemente intrattenuta parecchio errata del secolo in questione e di quello immediatamente precedente. Siamo portati a pensare di loro che fossero sprofondati nell'accidia intellettuale e nella turpitudine morale; che fossero completamente abbandonati ai sensi, a desideri degradanti, ai crimini rivoltanti, ad effeminatezza, a  trivialità e a bestialità. Ma questa visione dei secoli al volgere dell'era non ha alcuna giustificazione. Senza dubbio tali elementi ripugnanti furono effettivamente presenti in quell'epoca e in quella civiltà, proprio come lo sono stati in ogni altra. Ma che fossero prevalenti, che escludessero i loro stessi elementi opposti, è falso e calunnioso. In effetti, la presenza di vizi evidenti implicherebbe quasi come reazione naturale la presenza di virtù quasi altrettanto evidenti; e che tali virtù abbondassero, che ideali morali elevatissimi fossero frequentemente creati e non di rado raggiunti, è la testimonianza inequivocabile del periodo. L'eloquente indignazione dei satiri attesta la bontà e la malvagità dell'epoca. Nessuna deduzione generale deriva da esempi occasionali di crimini innaturali; proprio questi esempi vengono occasionalmente alla luce anche oggi nelle più alte sfere, intellettuali e persino ufficiali, della nostra vita moderna. Inoltre, il fatto che il cuore del mondo romano fosse ancora sano e il suo battito costante è provato decisamente dall'improvviso trionfo del cristianesimo, per quanto si possa spiegare questo trionfo. I numerosi convertiti alla nuova fede erano già in gran parte uomini buoni e sinceri, sia pagani timorati di Dio che israeliti senza macchia. In generale, era la loro virtù a renderli convertiti, piuttosto che la loro conversione a renderli virtuosi. Erano già “non lontani dal regno di Dio”. Considera il centurione e l'eunuco, Dorcas e Lidia e Timoteo e le “pie donne” e i “timorati di Dio” che affollano il libro degli Atti. La fiamma divina del proto-cristianesimo si nutrì di un'immensa massa di materiale preparato a lungo e altamente combustibile. 

139. L'epoca non era neppure intellettualmente spregevole. Posidonio, e ancor più Antioco, furono pensatori colti ed energici. Solo poco prima Crisippo fu il più prolifico e Carneade il più sottile di tutti i filosofi greci. La poesia romana cercò non solo di seguire le orme di Omero e dei drammaturghi, ma anche di compiere in Orazio slanci etici e in Lucrezio voli cosmologici. In effetti, la filosofia, divenuta da Socrate in poi sempre più accentuatamente etica, aveva profondamente impregnato l'intera corrente della vita umana; e gli uomini d'azione, come Bruto, Cicerone, Catone, Sergio Paolo e gli Antonini, dedicarono molto più tempo a letture speculative e a conversazioni con i filosofi di quanto non faccia il moderno membro del Congresso o del Parlamento o del Reichstag o delle Camere. Nel primo secolo la Filosofia salì realmente sul trono imperiale e nel secondo governò per due generazioni con uno splendore e una benevolenza ineguagliati negli annali dell'uomo. Non osiamo nemmeno dimenticare la grande nascita del neoplatonismo, per la quale deve essere stato necessario un lungo periodo di preparazione. Su questo punto non possiamo soffermarci di più in questa sede. In un prossimo volume speriamo di ritornare sull'argomento e di presentare la prova conclusiva in tutti i dettagli desiderabili. Considera allora il fatto come vuoi, sembra sufficientemente chiaro che i secoli al volgere dell'era (150 A.E.C. — 150 E.C.) presentavano ogni condizione possibile per spiegare una delineazione fantasiosa della virtù come quella che il lettore moderno si immagina di trovare riprodotta fotograficamente nei Vangeli. Perfino allora, dovessimo concedere che egli abbia letto bene quelle Scritture, non sarebbe neppure chiaro se il personaggio delineato fosse storico oppure un ideale. 

140. Ma siamo il più lontani possibile dal fare una siffatta concessione. Non è affatto vero che gli Evangelisti, almeno i sinottici, abbiano cercato o di riprodurre o di creare un qualsiasi personaggio umano, o reale o ideale. Questa è una tesi estremamente radicale, riguardo la quale, però, non possiamo nutrire alcun dubbio ed essa deve essere fondata solidamente e incrollabilmente. Nelle pagine precedenti è stata presentata la più minuziosa dimostrazione filologica ed è stato mostrato che proprio i termini che sembrano denotare più distintamente il carattere personale di Gesù non hanno alcun riferimento umano personale di sorta, ma sono scelti appositamente per indicare la sua divinità e la sua non-umanità. A questo punto è opportuno indicare certi fatti molto più ampi che recano esattamente la stessa testimonianza. 

141. In primo luogo, che nei Vangeli non ci sia un ritratto fedele o vivido è abbastanza chiaro dal fatto che nessun genio umano è stato ancora in grado di dire in modo convincente quale fosse davvero il carattere di Gesù. Le varie concezioni sono proprio tanto diverse quanto i vari intelletti che le concepiscono. È abbastanza comune leggere nei libri senza fine di critici celebri che Gesù fosse questo, quello e quell'altro; tali affermazioni sono fatte con molta fiducia, come se non ci fosse e non potesse esserci alcun dubbio di sorta. Ma questi scrittori non sono più prodighi di affermazioni di quanto siano a corto di prove. Non sono mai stato in grado di trovare una ragione anche solo plausibile che forniscano o abbiano potuto fornire. A quanto pare, ognuno si è fatto un'idea sua personale di ciò che Gesù avrebbe dovuto essere stato, ed ha interpretato ogni cosa in accordo con quell'idea. Quindi le loro costruzioni del carattere umano di Gesù sono state quasi interamente riflessi dei loro stessi ideali. La loro esegesi è stata un'imposizione piuttosto che un'esposizione. Come risultato, queste interpretazioni amorevoli sono state notoriamente incoerenti; non ce ne sono state due che concordassero essenzialmente. Di recente è diventata una moda abbandonare ogni tentativo di raffigurazione vera e propria e accontentarsi dei profili più sfumati. Gesù, fino a poco tempo fa raffigurato così vividamente, è ora considerato un “Grande Sconosciuto”. L'indizio è inequivocabile. Se il ritratto evangelico perde così nettamente in colore e definizione ad un approccio più vicino e ad uno studio più attento, difficilmente può essere stato ricavato in origine dal vero, né tantomeno inteso a rappresentare un uomo.

142. Possiamo anche capire, senza gravi difficoltà, perché anche le persone più colte e non prive di senso critico immaginano di trovare nei Vangeli un siffatto profilo così convincente. Il fedele maomettano trova ovunque nel Corano la massima perfezione dell'arte letteraria. Per l'ariano infedele l'opera non esercita un simile fascino. Scorrere le sue Sure alla ricerca di gemme di pensiero o di espressione sembra come andare a caccia di perle tra i banchi di ostriche del Delta. La differenza è soggettiva. Musulmani e cristiani recano forme di coscienza completamente diverse di fronte al fatto del Corano. Alquanto simile è il caso del lettore dei Vangeli. Egli porta alla sua lettura un'immensa quantità di pregiudizi. È avvolto e permeato dall'atmosfera dei secoli, che modella e colora l'immagine che osserva nel Vangelo, che è quindi in larga misura la propria coscienza riflessa. Accetta e raramente mette in discussione la sua prima impressione e non sospetta mai che si tratti principalmente di un prodotto soggettivo. Ma se tali documenti fossero stati improvvisamente portati alla luce nell'Africa centrale, egli si sarebbe probabilmente formato un giudizio completamente diverso e difficilmente li avrebbe accolti come strettamente storici. 

143. In effetti, a ben guardare, sembra del tutto impossibile che i Sinottici mirassero a dipingere un qualsiasi personaggio, o reale o ideale. Altrimenti, perché il quadro è così privo di attributi umani? Come spiegare la totale assenza di aneddoti plausibili e ovvi, e in particolare di parole e di atti di bontà, e soprattutto di sacrificio di sé? Sicuramente quest'ultimo è la pietra di paragone di un carattere nobile, ed è un elemento essenziale di attrattiva e di amabilità. Eppure non sentiamo mai parlare di un solo caso di minimo sacrificio di sé da parte del Gesù. La Passione non c'entra affatto, perché il suo contenuto è puramente dogmatico. Egli trova la suocera di Pietro malata di febbre; la tocca e la guarisce. È un atto di potenza divina, semplicemente e solamente. Non c'è alcun accenno all'amore, alla gentilezza, all'affetto umano. Lei si alzò e servì: questa è tutta la storia. Sull'abisso della tempesta, dorme tranquillamente di notte. I suoi discepoli lo risvegliano dicendo: “Maestro, non ti importa che noi periamo?”. Una domanda certamente naturalissima, che non allude in alcun modo a una mancanza di fede. Eppure la risposta è dura: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?”. Certamente non c'è nulla in un simile episodio o in simili manifestazioni caratteriali che attirasse i propri seguaci. Osservazioni come queste si applicano, in pratica, a tutte le azioni del Gesù. La sua tenerezza verso le donne cadute è un'apparente eccezione, un'eccezione del tutto impossibile da comprendere letteralmente come biografica. Infatti, la donna caduta è, nel Nuovo Testamento come nell'Antico, simbolo di un popolo idolatra o apostata; le donne peccatrici che adorano il Gesù sono i popoli pagani che adottano il suo culto. Vedi supra, pag. 106. 

144. Qualcuno potrebbe citare la famosa Dossologia di Matteo 11:27-29, che mostra la natura dolce e amorevole del Gesù, in particolare l'invito “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché io sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre, poiché il mio giogo è dolce (chrestos) e il mio carico è leggero”. Sembra strano che qualcuno dotato di senso letterario possa inciampare su questi versi ritmici, quasi metrici. In bocca a un Gesù umano, in qualsiasi momento della sua presunta predicazione, essi sono semplicemente insensati e impossibili. Chiunque tenti di immaginare il benevolo rabbino che sentenzia tali parole, si accorgerà subito dell'incongruenza. Da tempo abbiamo attribuito ad esse un contenuto puramente dogmatico, e quindi non sentiamo alcuna difficoltà; ma un tale significato non poteva essere compreso, né inteso, al momento presunto della sentenza. Nondimeno la citazione non solo è bella, ma è perfettamente comprensibile. È la voce della Sapienza che udiamo, la Sapienza già menzionata poco prima (versetto 19). Era abbastanza comune rappresentare questa Sapienza, questa Figlia di Dio, come se predicasse, esortasse, invitasse gli uomini a percorrere i suoi sentieri di piacere e di vita. I Proverbi e l'Ecclesiastico sono pieni di tali rappresentazioni. “Non grida forse la Sapienza?” “Ella fa udire la sua voce per le piazze”. In Proverbi 8 le divine funzioni creative di questa Sapienza sono illustrate eloquentemente. In effetti, nel pensiero ebraico successivo, lei divenne una sorta di divinità, evolvendosi facilmente nel Logos divino, nel Figlio di Dio. Ciò è fin troppo risaputo per richiedere una dimostrazione o un'elaborazione. Perciò non è affatto strano che questa esortazione, assieme alla Dossologia, sia qui attribuita a Gesù, aspetto strettamente affine di uno stesso Dio. [1] Non sollevando inutili dubbi sulla forma originale dei versi, scorgiamo chiaramente che il brano è un frammento di un inno gnostico (come se ne trovano altrove nel Nuovo Testamento), e testimonia fortemente il profondo sentimento religioso che l'ha dettato, ma nemmeno per un momento un'umanità di Gesù. 

145. Una prova straordinaria che le qualità umane con cui decoriamo l'eroe del Vangelo non recitarono alcun ruolo nella concezione primitiva della nostra religione è il fatto degno di nota che non ne troviamo alcuna menzione, alcuna allusione, negli scritti cristiani più antichi. Paolo, Pietro, Giovanni, l'autore degli Atti, i primi apologeti non sanno praticamente nulla di questo personaggio che si presume sia raffigurato così vividamente nei Vangeli. Il loro interesse si concentra unicamente sull'aspetto divino del Gesù, sul significato dogmatico e sulle conseguenze del suo culto e del suo messaggio. Il cristiano moderno, in polemica con un pagano, si sarebbe certamente soffermato sulla perfezione dell'uomo Gesù e sulla sua straordinaria elevazione caratteriale rispetto a Mosè, a Davide e a Elia, rispetto a Socrate, a Platone, a Epaminonda e a tutti gli altri, e si sarebbe dilungato sull'incommensurabile superiorità del suo ideale etico rispetto a quello di Zenone, di Antioco, di Epicuro, di Catone, di tutte quante le figure più degne della filosofia greca e della storia romana. Una siffatta linea di argomentazione sembra inevitabile per chiunque tenga il punto di vista del cristianesimo moderno, sia esso ortodosso o eterodosso, conservatore o liberale. Ma l'antico non fece nulla del genere. Egli tace assolutamente proprio dove e quando il moderno sarebbe stato più strenuamente insistente ed eloquente. L'autore di Ebrei, in effetti, confronta le due alleanze ed è molto ansioso di mostrare l'eccellenza superiore della Nuova e l'incomparabilità del grande sommo sacerdote Gesù. Ma per lui è solo una questione di dignità ufficiale, di precedenza nel rango e nell'autorità, di influenza e sovranità cosmiche: in una parola, di potere divino e di esaltazione celeste. Da nessuna parte egli insiste sulla perfezione umana, sul carattere esemplare, sulla virtù etica del sommo sacerdote soprannaturale secondo l'ordine di Melchisedec. [2] Similmente in tutta la lunga serie di Scritture cristiane antiche, canoniche e non canoniche. Le occasioni in cui gli scrittori avrebbero potuto naturalmente dilungarsi su questi temi invitanti furono innumerevoli; il fatto che non lo fecero è una dimostrazione del fatto che la loro coscienza era molto diversa da quella dei moderni. Eppure essi avevano almeno le nostre fonti attuali in cui osservare il presunto ritratto vivido di Gesù. Il fatto che non se ne siano praticamente mai avvalsi è una prova inconfutabile del fatto che non vi riconobbero l'immagine vivida in questione. In tal modo si mostrarono interpreti molto più oggettivi e molto meno soggettivi dei loro seguaci odierni. L'impareggiabile carattere di Gesù nei Vangeli è, infatti, un'invenzione moderna, nata dalla necessità di sopperire con qualcosa di altamente rispettabile la genuina figura evangelica di un Dio, che la critica ha cercato a lungo con tanta plausibilità e apparente successo di rimuovere dai Vangeli e dalla fede primitiva. I primi (non i più antichi) cristiani gioirono sì dell'idea dell'uomo Gesù, ma crearono apertamente il loro eroe in una miriade di Vangeli manifestamente fittizi e di leggende; a differenza dei moderni, non lo trovarono già ritratto con fedeltà e con potenza inimitabili e convincenti nelle pagine delle “Quattro Biografie”. Nello stesso spirito inventarono pure caratteri e vite per Maria e Giuseppe e numerosi altri. Tutte queste immaginazioni non contano nulla nella Storia reale, ma la testimonianza della Scrittura per la personalità umana del Gesù è davvero molto più debole della sua testimonianza per qualsiasi figura secondaria, perché non è semplicemente negativa, ma fortemente positiva contro una qualsiasi personalità. 

146. Nei suoi otto libri Contro Celso l'intelletto più sveglio della Chiesa primitiva, Origene, ha passato il vomere della sua argomentazione sull'intero campo della controversia. Ha anticipato in sostanza quasi tutti gli interventi di diciassette secoli di apologia, e discute Gesù e le rappresentazioni del Vangelo in quasi ogni pagina. Il pagano acuto e impietoso, che aveva tanto allarmato Ambrosio e lo aveva spinto a chiedere a Origene una confutazione parola per parola, Celso non risparmia affatto il personaggio di Gesù, ma lo attacca in ogni punto. Origene comprese a fondo le sue difficoltà logiche e coglie prontamente ogni occasione di vantaggio argomentativo. Se egli avesse percepito nei Vangeli il vivido ritratto di un uomo unico, maestoso e bellissimo, è inconcepibile che non lo avrebbe menzionato, che non lo avrebbe sottolineato con tutta l'enfasi possibile. Ma non fa nulla del genere. Non si stanca di addurre le prove delle profezie, alle quali dà il primo posto, le prove dei miracoli e dei trionfi sorprendenti del cristianesimo; ma non argomenta mai facendo leva sul carattere umano di Gesù. Quando Celso (nella persona del suo ebreo immaginario) accusa Gesù di durezza, la risposta di Origene è assai rilevante: lo Jahvé dell'Antico Testamento era altrettanto duro e minaccioso! Qui, in effetti, egli sembra essersi avvicinato molto alla verità esatta nel suo argumentum ad hominem. Nel suo riassunto (2:79) e in ogni altro punto, l'argomentazione moderna preferita, che si basa sul carattere ineguagliabile dell'eroe evangelico, è evidente solo per la sua assenza. Eppure Origene è molto preoccupato di rivendicare in qualche modo l'umanità di Gesù, che evidentemente considera il tallone d'Achille del suo intero sistema dottrinale. Egli vi ricorre in continuazione, avanza sempre nuove forme di difesa e raccomanda il dogma con nuove sottigliezze e plausibilità. Il fatto che non utilizzi mai la prova preferita, anzi quasi esclusiva, del liberale moderno, sembra mostrare con la massima chiarezza che per il suo pensiero quella prova non esisteva. Origene non percepì nella storia evangelica il vivido ritratto di un carattere ineguagliabile e inconfondibilmente umano; eppure nessun uomo ha mai studiato le Scritture in modo più approfondito, o ne ha padroneggiato il contenuto in modo più completo. Sembra impossibile che un tale genio dell'esegesi non sia riuscito ad osservare ciò che il liberale moderno vede stagliarsi chiaro come il sole sull'intera superficie, se davvero sia lì, se non sia un frutto della fantasia moderna. Le osservazioni appena fatte riguardo Origene possono essere ripetute mutatis mutandis su tutti i grandi scrittori della letteratura cristiana antica. Se non come mero dogma, il carattere umano di Gesù non sembra costituire un elemento apprezzabile della coscienza cristiana antica; e come dogma esso non è mai difeso alla maniera moderna facendo appello alla rappresentazione realistica dei Vangeli. Eppure è indubbio che questa coscienza cristiana antica fosse molto più vicina alla presunta personalità umana in questione sotto ogni aspetto, razziale, geografico, sociale e intellettuale, di quanto non lo sia ogni coscienza moderna europea occidentale. Inoltre, va ribadito che quella coscienza antica (dal 100 E.C. in poi) fu interessata altrettanto intensamente a stabilire quell'umanità come lo è quella moderna in Germania o in Gran Bretagna. C'è quindi una sola e unica conclusione possibile, quella già raccomandata da numerose e decisive considerazioni indipendenti: La presunta vivida raffigurazione umana non è realmente presente nel Nuovo Testamento;  essa è un riflesso, dallo specchio del Vangelo, della coscienza del lettore cristiano moderno. Come il credente antico scorgeva l'intera storia dei Vangeli, l'intera nuova Alleanza, prefigurata nei suoi minimi dettagli nell'Antico Testamento, così il credente moderno scorge delineati negli scritti evangelici tutti i tratti del suo Uomo ideale. Ma sappiamo che nel primo caso si trattò totalmente di un'illusione; presto riconosceremo che l'illusione è altrettanto completa nel secondo.

147. Come ulteriore e ultima dimostrazione generale, entriamo in quello che si potrebbe chiamare l'argomento topografico, finora non accennato. Si tratta semplicemente di questo: Se Gesù fu una grande, carismatica, impressionante personalità umana, nei cui termini vanno compresi principalmente il messaggio e la missione del cristianesimo; se la sua influenza personale e la sua predicazione, che fosse semplicemente naturale, sebbene meravigliosa, o soprannaturale, che fosse puramente umana o sovrumana, iniziarono e determinarono quel grande movimento religioso, allora per necessità la regione della sua attività personale, dove insegnò e predicò e guarì e raccolse intorno a sé i suoi primi devoti discepoli, sarebbe stata il centro e il fulcro dell'“insegnamento nuovo”, lì dovremmo trovare le chiese più antiche e forse le più forti, a quella regione la tradizione avrebbe legato i discepoli più antichi e più illustri. Nessuno citi a questo proposito il detto secondo cui un profeta non è disprezzato, se non nella sua patria e tra la sua gente. Anche ammessa la verità del detto, esso non avrebbe alcuna rilevanza. Infatti, non stiamo parlando circa “la sua patria e la sua gente”, ma circa la regione particolare della sua azione efficace; non dove non poté compiere alcuna opera potente, ma dove si ritiene che avesse compiuto molte e praticamente tutte le sue opere potenti, dove si ritiene che avesse affascinato le moltitudini, che avesse conquistato il suo primo e unico seguito fedele e che avesse ottenuto tutti i suoi trionfi personali.  È vero che, se Gesù avesse cambiato la scena della sua azione, se si fosse recato altrove e lì avesse fondato una nuova scuola, e avesse raccolto intorno a sé un gruppo di credenti ancora più numeroso ed entusiasta, e avesse prolungato la sua permanenza in questa nuova capitale fino alla fine, allora, in effetti, questo nuovo teatro avrebbe potuto prendere il posto del precedente, e figurare nella Storia da fulcro originario della nuova fede. Tuttavia non avvenne nulla di simile, secondo le Scritture. Gli atti di potenza si limitarono praticamente alla Galilea. Lì fu ascoltata la predicazione, lì furono compiute le guarigioni, lì furono espulsi i demoni, lì furono chiamati, esortati e istruiti i discepoli, lì si riunì la moltitudine che gridò con stupore: “Mai un uomo ha parlato come parla quest'uomo”. Per tutte le leggi della psicologia umana, per tutti i precedenti della storia umana, questa stessa ricca e popolosa Galilea, scena esclusiva della predicazione personale di Gesù, avrebbe dovuto, anzi deve, essere stata il teatro principale della prima attività dei discepoli galilei; lì si sarebbe dovuto proclamare prima di tutto il vangelo della resurrezione, lì si sarebbero compiuti i primi miracoli del nuovo spirito, lì si sarebbero formate le prime comunità, lì si sarebbero fondate le prime chiese. Da lì, in un cerchio sempre più ampio, sarebbero dovute scaturire le onde della missione evangelica e diffondersi in tutto l'impero. Ma quali sono i fatti del caso? Essi sono tutti invertiti nel modo più completo possibile! Con la partenza dalla Galilea per Gerusalemme, la Galilea scompare dall'orizzonte delle Scritture, per non apparire mai più. I poveri contadini non rivedono mai più le rive del loro lago nativo. Non rivisitano mai le scene rese sacre dalla vita e dalla dottrina di Gesù; non rivedono mai più il luogo dove camminarono i suoi piedi, dove risuonò la sua voce, dove si compirono i i suoi miracoli, dove le folle lo circondarono, dove le onde furono placate e le folle sfamate; non riportano mai la parola ai loro amici, ai loro parenti, a coloro che credono in lui lì. La Galilea viene abbandonata e dimenticata completamente e per sempre; non vi si predica nessun vangelo, non vi si fonda alcuna chiesa, non vi si indirizzano lettere ai santi. I discepoli proclamano il loro messaggio a Gerusalemme, a Cesarea, ad Antiochia, a Giaffa, a Creta, a Corinto, a Tessalonica, in Galazia, a Roma: sì, dappertutto, ma non nell'unico luogo dove, tra tutti i luoghi del mondo, la proclamazione sarebbe stata più naturale e più efficace, sì, nel solo luogo dove avrebbe potuto essere o naturale oppure efficace. Se i discepoli galilei avessero proclamato la resurrezione e l'esaltazione di Gesù ai galilei in Galilea, dove Gesù aveva già operato e affascinato tutti gli uomini con la sua personalità, con i suoi atti meravigliosi e con la sua dottrina, è almeno ipotizzabile che la predicazione avrebbe potuto trovare una certa accettazione tra i suoi precedenti ammiratori e adepti; un culto sarebbe forse sorto in queste cerchie. Ma abbandonare questo fronte più promettente per la loro missione e inaugurare la loro grande campagna nel cuore del territorio nemico, dove non avevano amici, dove non c'era già alcun sentimento che favorisse loro o Gesù, dove non potevano invocare un solo testimone a proprio favore, dove tutto era indifferenza o ostilità esplicita, dove non era presente una sola condizione favorevole e non era assente una sola circostanza sfavorevole, sarebbe stata un'assurdità che nessun uomo razionale, non importa sotto quale possessione o predisposizione, avrebbe potuto perpetrare. Senza ombra di dubbio, se i discepoli galilei avessero esordito questa grande campagna come è descritta negli Atti 1-2 si sarebbe detto: “Costoro si sono ubriacati di vino”, e la cosa sarebbe finita lì. Nessuno avrebbe prestato loro attenzione. L'autore di Giovanni 21 sembra aver sentito la necessità di riportare i discepoli alle loro case in Galilea, così li fa andare a pescare nel mare, e a catturarvi la miracolosa quantità di centocinquantatré grandi pesci, cioè a catturare il mondo pagano nella rete infrangibile della Chiesa. Nondimeno resta il fatto che la Galilea non figura affatto nella tradizione reale della prima predicazione del Vangelo; e questo fatto nega definitivamente e per sempre l'idea che la Galilea fosse stata la scena di una vita su cui quel Vangelo si basò, da cui scaturì e a cui ritornò come alla sua unica e sola fonte di autorità e di ispirazione.

148. Di tutti i movimenti religiosi di cui abbiamo una conoscenza esatta (perché la storia del mormonismo non offre un simile parallelo), la recente ascesa e carriera del lazzarettismo in Toscana forniscono di gran lunga il parallelo più vicino e più degno al cristianesimo primitivo concepito dai critici liberali. Renan, Rassmussen e Barzellotti, tra gli altri, hanno intuito e sottolineato la notevole somiglianza e hanno pensato di trovare nei fatti accuratamente accertati e verificati di questo caso recente (1878) un'analogia del tutto soddisfacente al cosiddetto movimento galileo di quasi duemila anni fa. Ma è proprio su questo punto capitale e vitale che le due storie si respingono ai poli opposti, che si contrappongono nel modo più netto che si possa immaginare. Nel caso di Lazzaretti il corso degli eventi è esattamente quello che il senso comune richiede come naturale e necessario, laddove nel caso di Gesù e del Vangelo esso è invertito esattamente e in ogni particolare. Per i dettagli più minuti si rimanda il lettore all'eccellente lavoro di Barzellotti, Monte Amiata e il suo profeta (David Lazzaretti), da me recensito sull'International Journal of Ethics (ottobre 1911), da cui basterà citare quanto segue:

Quanto al valore scientifico del lavoro di Barzellotti e di altri simili, e all'importanza dello spirito e del metodo di indagine che esse esemplificano, non solleveremo alcun dubbio. Ma su un punto di vitale importanza dobbiamo registrare un ampio dissenso e la protesta più energica. Anche se si accetta con pochissime riserve l'analisi della coscienza religiosa generale e di molte delle sue più notevoli manifestazioni attive nella genesi di culti, di sette e di ordini, anche se si ammette che la coscienza religiosa precristiana e protocristiana debba essere misurata in alcune dimensioni con l'unico modello universale, resta pur sempre vero che il parallelo, che sia esplicito oppure implicito, tra il Santo e il Gesù è del tutto immaginario e fuorviante, e che ogni tentativo di interpretare l'origine del cristianesimo in termini di Lazzaretti o di San Francesco, o di ogni altro personaggio umano, è un'operazione che non si può fare. Francesco, o di qualsiasi altra personalità umana, deve fallire d'ora in poi come ha fallito finora, nettamente, irrimediabilmente e ignominiosamente. Infatti tutte queste interpretazioni iniziano e finiscono con una strana trascuratezza del fatto centrale e cardine del proto-cristianesimo, cioè che si trattò di un monoteismo, generato, nato e cresciuto in una coscienza intensamente monoteista, diretto nettamente e fermamente contro il politeismo prevalente, che era l'unico fatto religioso supremo dell'epoca, e che costituì di necessità il bersaglio polemico per ogni movimento religioso emergente da circoli greco-giudaici.  È questo fatto enorme che separa radicalmente il movimento cristiano e quello di Lazzaretti, che li divide dall'intera sfera dell'esperienza. In presenza di questa ampia e decisiva diversità, le molteplici somiglianze nei dettagli che appaiono in relazione all'attuale interpretazione superficiale e sistematicamente falsa dei Vangeli, devono tutte sprofondare nell'insignificanza, mentre l'interpretazione più profonda e più corretta le rivela nient'altro che ombre, prive di ogni sostanza di sorta. Sia sufficiente un'illustrazione. La forza del Lazzarettismo risiedette nella personalità di Davide. In cosa consistesse il suo fascino è superfluo indagare. Basti pensare che pochi dei suoi compagni potevano resistere all'incantesimo, e ancor meno potevano romperlo una volta lanciato su di lui. Da questa prospettiva egli fu davvero l'esatta controparte del “Jesusbild”, come fiorisce nella fantasia dei critici liberali. Ma ora nota la differenza. Naturalmente e necessariamente, siccome fu il carisma personale esercitato da Davide a conquistare i suoi discepoli, questi ultimi si trovarono dal primo all'ultimo nella cerchia delle sue immediate conoscenze. Dice il nostro autore (a pag. 339): “Non in tutto il Monte Amiata, ma in Arcidosso e nelle piccole borgate vicine, in quelle più prossime a Monte Labbro e nelle campagne, che guardano la Maremma, ove il profeta trovò fin da principio i più dei suoi seguaci, gli restano ancora fedeli quasi tutti i superstiti delle società fondate da lui, i suoi apostoli e alcuni dei discepoli più giovani, dei chiamati più tardi alla fede”. Al di là di questa cerchia incantata dalla sua personalità, la fede nel Lazzaretti non si è mai estesa, e possiamo tranquillamente dire che non potrà mai estendersi in modo percettibile. Non solo ciò è esattamente come dovrebbe essere, ma sembra esattamente come deve essere. Ma se la propaganda cristiana rassomigliasse a quella del Lazzaretti nella sua origine, se fosse scaturita da un'unica fonte puramente umana, come sostengono i critici, allora sicuramente sarebbe accaduto qualcosa di simile. La regione dell'influenza personale di Gesù, le fertili e popolose rive della Galilea, avrebbe costituito il fulcro luminoso della sua missione evangelica, da lì si sarebbe diffusa a ondate sempre più ampie, e sempre in testa avremmo dovuto trovare i nomi storici dei primissimi discepoli. Tuttavia, nel caso concreto in esame tutto ciò è esattamente invertito. La Galilea è praticamente sconosciuta nella prima predicazione. Le chiese primitive o i gruppi di discepoli sorgono in regioni remote, a Damasco, ad Antiochia, a Creta, in Libia; troviamo epistole ai Corinzi, ai Galati, ai Romani, alla Diaspora e a molti altri, ma nessuna ai santi di Cafarnao, o di Corazin, o di Betsaida, o di Nazaret, e nemmeno di Gerusalemme. Neppure i primi propagandisti storici sono amici, concittadini e discepoli personali del Gesù. Saulo di Tarso, Anania di Damasco, Apollo di Alessandria, Prisca e Aquila di Roma, Barnaba di Cipro, Stefano il protomartire, Filippo il diacono e vari altri missionari: nessuno di loro ha mai conosciuto un Gesù uomo. I dodici Apostoli non sono che ombre di nomi potenti. Le tradizioni più antiche non trovano nulla da fare per loro, non raccontano nulla della loro attività. Ciò è notoriamente vero per gli undici, e in effetti è vero anche per l'unica apparente eccezione, Simon Pietro. Così la presunta somiglianza tra le due origini dei due movimenti si rivela una dissomiglianza e un contrasto così completo da mostrare di per sé l'impossibilità di spiegare i due movimenti in modo simile. Siccome il Lazzarettismo fu chiaramente un'emanazione da un'origine puramente umana, non abbiamo altra scelta che ammettere che il cristianesimo primitivo non fu una siffatta emanazione in tal senso. Quindi, lungi dall'avvalorare e corroborare la tesi critica moderna delle origini cristiane, l'esempio di Davide deve rovinarla e smentirla completamente. Barzellotti e i suoi colleghi hanno reso anzi un grande servizio alla scienza con il loro studio intenso di questo fenomeno religioso recente, ma in un senso esattamente opposto a quello voluto. Hanno costruito meglio di quanto sapessero. 

Quest'argomentazione sembra essere decisiva. I fatti geografici della prima proclamazione ed espansione del cristianesimo negano definitivamente la tesi liberale del carismatico carpentiere galileo. Nessun critico ha finora affrontato l'argomentazione in Der vorchristliche Jesus sull'origine multifocale del cristianesimo. Le considerazioni qui addotte rafforzano tale argomentazione fino a una dimostrazione definitiva e inconfutabile. Cosa faranno i Liberali al riguardo?


NOTE

[1] In realtà, l'identificazione del Gesù con la Sapienza non solo è abbastanza comune altrove, persino frequente in Origene, ma si trova anche nell'Apostolo (1 Corinzi 1:24, 30), e soprattutto in Luca 11:49, dove le parole del Gesù in Matteo 23:34, sono attribuite alla “Sapienza di Dio”. Confronta il commento di Wellhausen (Evan. Luc. pag. 52): “Gesù è sicuramente l'Achamoth”, la Sofia (Sapienza) gnostica, che Origene ritiene essere il “Figlio di Dio”, a dispetto del genere femminile (Contra Celsum 5:39).

[2] Le allusioni alla tentazione (2:18; 4:15) non sono reali eccezioni, essendo solo vaghe e casuali, e con un'importanza solo dogmatica, senza un chiaro riferimento a qualcosa di storico.

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