sabato 7 ottobre 2023

Il «senso di aspettazione» del mondo romano

 (segue da qui)

§ 91 bis) Il «senso di aspettazione» del mondo romano. — Allo stesso modo che nella tragedia greca protagonista non era l'attore tragico (che mutava ad ogni azione, ed il cui sacrificio era solo in funzione di una forma mentis collettiva, impersonante una specie di fato inesorabile), ma era il pubblico: la comunità cioè, rappresentata dal Coro; così nella formazione di un pensiero o di una «mistica religiosa» i veri protagonisti non sono gli attori che si mostrano sul proscenio, bensì le masse amorfe, la cui forma mentis quelli impersonano. Nessuna «mistica» difatti (doxa) potrebbe sorgere, se non esistesse nella coscienza delle masse — minoranze o maggioranze poco importa — qualche desiderio indistinto o qualche «vuoto» da colmare che a tale «mistica» potesse tendere.

Giuda Galileo non aveva creato in Israele il moto neo-messianico, il quale invece era sorto da tempo, in conseguenza di quella sete di «giustizia soggettiva» che emerge chiara da tutta la letteratura biblica. Giuda Galileo si era soltanto reso interprete del momento storico, ora seguendo ed ora precedendo la corrente. Chi più lavorò invece alla formazione e trasformazione del pensiero neo-messianico, fino ad imporlo lentamente al mondo inattento, fu il popolo: le masse amorfe cioè. Ma v'ha di più: l'apostolo Paolo — trasformatore di quel pensiero — non avrebbe potuto divulgare nel mondo romano le sue dottrine, se non rendendole rispondenti alle aspirazioni, che anche nel mondo romano si erano impadronite delle coscienze, dopo che le stesse erano rimaste avvilite dal dispotismo dei Cesari.

Ed invero, da quando in Roma la Repubblica era terminata in tragedia, ed il sangue era corso per le vie ad opera di due torbidi spiriti: da quando cioè il sommo assertore della libertà dei popoli, Marco Tullio, era stato scelto a vittima espiatrice degli Idi di Marzo (sotto la quale data un altro «cadavere» era stato lanciato alla folla amorfa, sempre aspettante novità, affinché le servisse di stendardo), in tutti i singoli si era generato ed era stato coltivato un grande desiderio di ritorno alle libertà di un tempo. Senonché, sciaguratamente, la servitù, una volta affermatasi diventa un nodo che non si allarga mai, e si restringe invece sempre di più. Pertanto a poco a poco quel desiderio di libertà si era trasformato in una sensazione di pericolo incombente, e poi nel desiderio di un «salvatore», che indicasse la «via d'uscita» dallo stato d'avvilimento generale, e migliorasse la sorte dei più coscienti, oppressi ormai dallo «stato di timore», che la norma «voluntas principis lex esto» aveva reso generale. 

Giacché primo era stato Virgilio a pensare che un lupo potesse trasformarsi in agnello, celebrando Ottaviano quale restauratore della libertà dopo che Antonio (al quale tutti i delitti dei duumviri si erano frattanto attribuiti) era stato soppresso. E non pensava il buon Virgilio che il ladro non restituisce mai ciò che fraudolentemente o violentemente abbia rubato. Ma continuando ad aggravarsi le iniquità del primo despota, ed aggravandosi poi di più tali iniquità nei successori di lui, il senso di delusione e di avvilimento sopravvenuto nel popolo era diventato incombente, per cui si era formato a poco a poco in tutti uno «stato di accettazione ansiosa», che si traduceva in intimo desiderio di nuovi eventi.

Era la neurosi insomma, che riemergeva e si radicava nelle coscienze. Quella neurosi che durante l'impero di Nerone diventava parossismo, manifestando apertamente, in tutti i popoli dell'Impero, il desiderio ardente di un nuovo «Capo», desiderio che si mutava in attesa spasmodica, molto simile, anzi identica, alla contemporanea «attesa» del mondo giudeo. Ed appunto questo senso di aspettazione, incombente ormai in tutti i territori dell'Impero, cooperò alla fine, con Paolo di Tarso, alla divulgazione nel mondo romano del neo-messianismo galileo. 

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