domenica 10 settembre 2023

I «figli» di Giuda Galileo

 (segue da qui)

§ 64) I «figli» di Giuda Galileo. È noto che, secondo la tradizione evangelica, Simone (detto Pietro) e Giacomo erano stati, insieme con Giovanni, i discepoli prediletti del «Maestro». Ciò stante non pare inverosimile che con l'appellativo di «figliuoli» il Maestro li abbia talvolta chiamati a sé. Se ciò non è inverosimile, potrebbe anche il particolare essere stato conosciuto dai contemporanei, ed essere pervenuto allo storico Giuseppe, il quale con quella qualifica li avrebbe quindi registrati. Ma a parte questa considerazione, va tenuto presente che nel linguaggio ebraico (come in genere in molti linguaggi d'Oriente, specie presso gli Arabi) non si dice ad esempio «Giuda figlio di Israele» o «servo» o «discepolo» di Israele, ma si dice semplicemente «Giuda di Israele» (Judas ben Israel). Tale espressione difatti, che nella lingua latina è stata tradotta ponendosi il patronimico al genitivo (Judas Jacobi), veniva adoperata sia per significare Giuda figlio di Israele, sia per significare Giuda familiare di Israele, sia per significare Giuda servo, discepolo, o seguace di Israele. I Vangeli e gli Atti hanno interpretato la particella ben dell'uso vivo ebraico usando il termine mathetès, che significa scolaro, discepolo ed anche fedele; Giuseppe Flavio invece ha tradotto la stessa particella usando la parola «pais» oppure «uiòs», voci entrambe che hanno per significato tanto «figlio», quanto «fedele», «discepolo» ecc.

Ma pur trascurando tali argomenti generici, abbiamo motivi specifici per dedurre che nell'uso greco e nella prassi biblica, le parole «paîs» ed «uiòs» venivano adoperate nel senso di «seguace», «discepolo» e anche «servitore» (come nella frase paîs theoû). Sappiamo infatti che i medici, ad esempio, «discepoli di Esculapio», venivano chiamati «figli di Esculapio» (oi paides tou Asclepìou), [1] mentre nel linguaggio biblico dei Settanta, gli appartenenti alla corporazione dei profeti — che erano seguaci ed «attivisti» della mistica profetica — venivano chiamati «figli dei profeti» così come i sacerdoti erano chiamati «figli» di Aronne. [2] Né è fuori luogo ricordare che venivano chiamati «figli di Sadoc» anche i lontani continuatori del primo Gran Sacerdote Sadoc (saddochiti o sadducei), il che deve dirsi anche per i «figli di Levi», per i «figli di Giacobbe», ecc. Ciò posto, era naturale che anche i continuatori ed attivisti di Giuda Galileo fossero chiamati «figli» di lui.

Del resto, proprio in base a queste considerazioni Giuseppe Flavio aveva chiamato «figli» di Tobia (oi Tobiou paides) i lontani seguaci e continuatori di quel primo e più antico agitatore. [3] E se Giuseppe chiamò paides, e cioè «figli» di Tobia, i lontani seguaci di Tobia, e cioè i membri del partito tobiade, non poteva egli non chiamare paides, ossia «figli» di Giuda Galileo, i seguaci e continuatori di questo più recente agitatore.

Per quanto poi si riferisce allo specifico termine «figli di Giuda Galileo» usato dallo storico, abbiamo, nella figura di Manaemo, la prova inequivocabile che colla parola «figli», riferita a Giuda Galileo, Giuseppe Flavio volle sempre significare — in conformità colla prassi biblica — «seguaci» e «attivisti» (come già per i «figli di Tobia»), e non già «figliuoli» nel senso comune.

Difatti, laddove lo storico parla di Manaemo — lo stesso che nel 66 E.V. fu a capo degli Zeloti, e diede inizio alla guerra giudaica — così scrive: «Frattanto un certo Manaemo, figlio di Giuda soprannominato Galileo (uiòs Juda tou kaloumènou Galilaiou), filosofo terribilissimo, che già al tempo di Cirenio rimproverò ai Giudei il loro sottomettersi dopo Dio ai romani, con parecchi di grande affare vola a Massada» ecc. Lo storico dunque chiamò «figlio» di Giuda Galileo anche Manaemo, come già aveva chiamato «figli» Simone e Giacomo. Senonché, considerando che nel 66 Manaemo poté «volare» a Massada ed aprire l'armeria reale per armare i suoi uomini, appare manifesto che a quell'epoca egli doveva avere un'età non superiore ai 30 o 40 anni circa. Ma come poteva esserci nel 66 un «figlio» di Giuda Galileo, giovane ed energico come Manaemo, se Giuda Galileo era morto sessanta anni prima?

Tutto ciò fu già riconosciuto nei primi secoli del cristianesimo, tanto vero che il traduttore latino del testo greco [4] non tradusse alla lettera la frase greca «Manaemo, figlio di Giuda Galileo»; ma tradusse «Manaemus quidam, Judas Galilei qui vocabatur filius». Un Manaemo che si faceva chiamare «figlio» di Giuda Galileo.

Per vero il Renan cadde in equivoco a questo proposito, perché non rilevò che Manaemo non poteva essere stato «figlio» di Giuda Galileo. Renan però non era uno storico, ed alla cronologia non poneva importanza, mentre in concreto proprio la cronologia ci dà già la sicurezza che Manaemo non poteva essere stato un figlio, ma solo un seguace di Giuda Galileo.

Ed infatti al capo IV della Vita di Gesù, così scrive Renan: «Giuda, è evidente, fu capo di una setta galilea impregnata di messianismo, che terminò in un moto politico. Il procuratore Coponio schiacciò quella sedizione, ma sopravvisse la scuola, e serbò i suo i capi. Guidato da Manaemo, figlio del fondatore, e da un certo Eleazaro di lui parente, nelle ultime lotte dei Giudei contro i Romani la troviamo attivissima». Ma, se Renan ammette che Giuda era stato il «Capo» del movimento, e che il procuratore Coponio aveva «schiacciato» quel movimento, non può non ammettere che Giuda sia stato tra i primi ad essere «schiacciato». Giacché come mai si potrebbe dire «schiacciato» un movimento, se non si fosse colpito il capo? E se Giuda era stato ucciso nella reazione dell'anno 7, quando appunto Coponio era in Giudea, come poteva Giuda stesso nel 66 avere un figlio giovane, e ardimentoso come Manaemo? Del resto di contraddizioni e anacronismi ce ne sono parecchi nelle opere del Renan; ed è bene avvertire che anche Eleazaro di Giairo non era «parente» di Manaemo, bensì «fratello» di fede, come abbiamo visto altrove (§ 20).

NOTE

[1] Cfr. in qualunque lessico, compreso Schenkl. Notare poi in Amos, che lo stesso vorrebbe vietare a se stesso di essere «figlio di profeta», cioè «discepolo di profeta» (cfr. Loisy, Rel. d'Israele, Parigi, 1911, p. 153).

[2] Cfr. II Re, IV, 1, 38, per quanto ai profeti; Levitico, XIII, 2, per quanto ai sacerdoti.

[3] Antichità, XII, VI. Cfr. anche Eusebio, Hist., II, XXIII, 17 circa i «figli» di Rechab (recabiti).

[4] Cfr. J. Flavii, Opera, ed. Ambrosii Firmin Didot, Parisiis, 1929, vol. II, pag. 124.

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