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§ 7) L'Unto-Salvatore. — La filologia insegna che la voce ebraica Mosè (Moshe) corrisponde al participio presente del nostro verbo salvare (mashah): il suo significato quindi è «salvante» e pertanto «salvatore» (non già «salvato», come volle la tradizione giudaica — dopo l'avvenuta sua fusione col mito babilonese di Sargon — ricordando il «salvato» delle acque). Deve quindi ritenersi che fin dai tempi di Mosè il fenomeno messianico fosse stato «attuale» in Israele, avendo esso dato luogo fin da allora ad un «Messia-Salvatore». Giacché il nome profano di Mosè, se vogliamo credere a Manetone, era stato Osarsif: derivato di Osiride. Dopo Mosè, ch'era stato il primo «Messia» e «Duce» d'Israele, alla guida delle collettività israelitiche era succeduto Giosuè. Ma anche la parola Giosuè (Yhoshua = Gesù) era stata un attributo messianico significante «Salvatore», perché anche «Giosuè» era stato «Messia».
Ed invero gli Israeliti, fin dai primordi della loro esistenza come popolo, avevano coltivato una forma mentale, ch'era stata degli egiziani, e di tutti i popoli primevi, che avevano subìto la neurosi diluviale. Essa implicava la credenza che nei momenti più difficili per la comunità — specialmente quando una potenza straniera ne avesse occupato il territorio — il Dio dei padri ispirasse un «Duce» (Mesiah), perché elevasse milizie, e con esse salvasse la comunità stessa, liberandola dalla servitù straniera. La voce Messia difatti, come meglio illustreremo più avanti (§ 13), nel linguaggio ebraico vuol dire bensì «unto» od «ispirato» di Jahvè; ma ispirato quale «salvatore»: quale «Capo del popolo», cioè, e pertanto quale «Capo dell'esercito» (cfr. Daniele, IX, 25). Giacché «popolo» ed «esercito» erano, un tempo, sinonimi. Ed era naturale che una volta rivelatosi al popolo l'Unto di Jahvè, costui, oltre all'attributo generico di «Capo» (in ebraico «Messia», in greco «Cristo»), ricevesse anche l'attributo specifico di «Salvatore» (in ebraico Yhoshua, ossia Gesù).
Al tempo degli Erodiadi — periodo che più interessa qui mettere in luce — l'idea messianica di Mosè e di Giosuè riemerse in Israele, ed operò in funzione antiromana, come era riemersa, operando in funzione anti-filistea, ai tempi di Sansone, e come aveva operato in funzione antiseleucida ai tempi di Giuda Maccabeo. Ciò posto, quale meraviglia che anche questa volta, quando è apparso l'Uomo riconosciuto «Messia», sia stato designato dai suoi fedeli col vecchio attributo di Salvatore? E qual meraviglia se proprio con questo attributo (che nella lingua dell'epoca suona Gesù), le sue gesta siano state poi propagate dalle comunità di aderenti emigrati nell'Oriente greco, e raccolte da ultimo nella tradizione ivi formatasi? I termini «Gesù» e «Cristo» pertanto, essendo stati attributi, e non già nomi propri, non potevano costituire una base per la ricerca del personaggio nelle fonti profane.
La conferma, se occorresse, l'abbiamo da Paolo, il quale così scrisse nell'Epistola a quei di Filippi (II, 6-10): «Egli, che esisteva in forma di Dio, non trasse vantaggio dall'essere uguale a Dio, ma si vuotò prendendo forma di schiavo, diventando simile all'Uomo. E ritenuto in apparenza Uomo, si abbassò, diventando ubbidiente fino a morire, e morire di croce. Per la quale cosa Dio lo innalzò, e gli donò un nome (Gesù), che è sopra ogni altro nome, acciocché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio». Se quindi, anche secondo Paolo, il nome «Gesù» fu conferito da Dio al «Maestro» soltanto in seguito al suo sacrificio sulla croce, deve dedursi che quell'attributo se lo era egli guadagnato sacrificandosi, perché appunto col suo sacrificio aveva salvato gli uomini dalle conseguenze del peccato originale. Il nome natale invece, sotto il quale il Maestro era vissuto ed aveva operato in Giudea, era stato un altro, non registrato dalla tradizione evangelica.
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