venerdì 21 luglio 2023

L'Unto di Jahvè

 (segue da qui)

§ 13) L'Unto di Jahvè. — La voce ebraica «Messia» (Mesiah) tradotta in greco dà la voce «Cristo» (Kristòs). Ugualmente la voce derivata «Messianismo», sempre del linguaggio ebraico, tradotta in greco dà la voce «Cristianesimo» (Kristianismòs). Pertanto è fuori dubbio — come meglio illustreremo più avanti — che proprio il «Messianismo d'Israele», trasferitosi con alcuni gruppi di suoi aderenti nell'Oriente di lingua greca, abbia dato vita al «Cristianesimo greco». E poiché d'altro canto la parola «apocalisse» significa «rivelazione», mentre sappiamo che la religione cristiana è una «religione rivelata» che accettò le «apocalissi» nei propri libri sacri, non occorrerà di più per intuire che non si potrà acquistare la conoscenza epistemologica del fenomeno cristiano, se non si sia acquisita prima la conoscenza epistemologica dei due concetti, noti comunemente come «Messianismo» e come «Apocalittica».

A proposito del «Messianismo» — e fermo restando quanto già detto — sappiamo che la parola ebraica «Messia» equivale alla parola italiana «Unto». Ora il concetto di «unto» richiama alla mente dello studioso la fase più saliente del rito sacrificale umano. Infatti in La prima umanità (§§ 51 e 93) noi abbiamo illustrato che durante la celebrazione del sacrificio (istituito subito dopo il cataclisma diluviale), la vittima umana, dopo le cerimonie preliminari tendenti a prepararne lo spirito, veniva «unta con olio in gran copia» (come si esprime Erodoto, II, 40), dopo di che, uccisa con l'ascia sacra dal sacerdote sacrificatore, veniva posta sul fuoco, perché col suo profumo saziasse gli dèi, e con la sua carne (che veniva poi distribuita al popolo), salvasse la comunità dalla fame. Appunto per questo, mentre sotto il primo aspetto la vittima, col sacrificio, acquistava il carattere di redentrice (in quanto gli dèi, soddisfatti dell'offerta, avrebbero perdonato le colpe degli uomini), sotto il secondo aspetto acquistava il carattere di salvatrice. [1]

Non è qui il caso di illustrare attraverso quali processi l'antico istituto dell'Unto con riferimento alla «vittima sacra», si sia trasformato — causa la speculazione sacerdotale — nel nuovo istituto dell'Unto, con riferimento alla persona del «Capo», ispirato dal Dio, non più per salvare il popolo dalla fame; bensì per salvarlo dai nemici. Diremo soltanto che, alle origini del rito sacrificale (prima fase) si era ritenuto che la vittima — in virtù della «consacrazione al Signore» fatta dal più anziano («Presbuteros», donde «prete» e quindi «sacerdote»), e culminante nella cerimonia dell'unzione — restasse invasata dallo spirito del Dio. L'unto così da quel momento veniva considerato «unto del Signore». E poiché lo spirito del Signore, presente nell'unto, dava a quest'ultimo la veste di alter ego del Signore stesso, comunicandosi poi al popolo nel banchetto eucaristico (comunione), lo salvava dalle conseguenze dei peccati, redimendolo al cospetto della divinità. Il primo aspetto quindi, assunto dalla vittima sacrificale dopo l'iniziata speculazione sacerdotale, era stato prevalentemente quello di «Redentore».

In un secondo tempo (seconda fase) si ritenne che la cerimonia dell'unzione avesse, per sé sola, il potere di richiamare lo spirito del Dio nel prescelto, senza bisogno che all'unzione seguisse il sacrificio. In tal modo l'Unto acquistava la veste rituale di «ispirato», restando in vita. Ma poiché egli diventava l'alter ego del Signore, ed era quindi infallibile, era naturale che, diventato «Capo» del popolo, dovesse sempre guidarlo alla vittoria, salvandolo da qualsiasi pericolo di asservimento. Da ciò la trasformazione dell'unto, da «messia redentore» (protomessianismo), in «Capo» e «Messia salvatore» (deutero-messianismo). C'era però una terza forma di Messianismo (trito-messianismo), verosimilmente d'origine popolare, e per la quale si riteneva che in momenti particolarmente difficili per il popolo, o nei quali l'autorità sacerdotale — cui la cerimonia dell'unzione era devoluta — era assente, lo spirito del Signore potesse invadere direttamente e spontaneamente (invasione spontanea) la persona scelta, e questa potesse dichiararsi «Messia», diventando, come tale, «Capo» del popolo, senza la cerimonia formale dell'unzione. Appunto per «invasione spontanea» in Israele fu «Messia» Otoniele (Giud. III, 10), per il quale la scrittura dice: «e lo Spirito del Signore si generò in lui»; fu «Messia» Gedeone, del quale è scritto (Giud. VI, 34): «lo Spirito del Signore lo invase»; fu «Messia» Jefte, del quale si legge (Giud. XI, 29): «lo Spirito del Signore fu sopra di lui»; e fu «Messia» Sansone, del quale si narra (Giud. XIV, 19): «e lo Spirito del Signore si avventò sopra di lui».

Gli studiosi della Storia Universale sanno che la fase proto-messianica della Storia Umana caratterizzò il periodo più tragico, vissuto dall'Uomo dopo il «diluvio» distruttore, che aveva dato luogo all'opinione religiosa. Tuttavia quella fase — che, comunque, implicava un «ordinamento» — aveva segnato un progresso, rispetto alla fase di violenza anarchica ed omofagica dell'immediato dopo-diluvio. La fase deutero-messianica poi, succeduta alla proto-messianica, rappresentò — nella storia universale — l'inizio di un perfezionamento, con la ripresa ascensionale dello spirito. Giacché essendosi affermata una classe dirigente, ed essendo stata ricostituita una qualche «ricchezza», erano stati aboliti i sacrifici umani, ed era subentrato un nuovo ordine, per cui il primo tra gli anziani designava esso, mediante la cerimonia della «unzione», il Capo cui fosse devoluta la funzione di Duce, in rappresentanza del Signore («Dio degli eserciti»), e quale «ispirato» dal medesimo. Per contro, la fase trito-messianica rappresentò un ritorno all'anarchia e quindi all'involuzione. Giacché, essendosi nel frattempo verificato un nuovo fatto distruttivo dell'ordine precostituito (generalmente il subentro di dominatori stranieri), e non funzionando più l'autorità cui fosse devoluta la cerimonia dell'unzione, il popolo pensava di potersi attendere soltanto da Dio, e cioè per «invasione diretta», la designazione del proprio Messia-Salvatore. 

Proprio in virtù di questa comune credenza, in Egitto, allorquando, verso il 1500 a. E.V., la colonia egiziana di Avaris — che, stando a Manetone, diede origine al popolo d'Israele (e sull'argomento parleremo in altro volume) — si trovò a dover uscire da quello Stato, invocò dal proprio Dio un «Capo»: un Unto cioè, che la portasse a salvamento. Ed appunto a seguito di ciò lo Spirito del Signore si ingenerò in Mosè, permettendogli di portare in salvo il suo popolo. Mosè difatti — in Israele  — fu il primo «Unto di Jahvè» a seguito d'invasione diretta (Esodo III, 13).

Più tardi, sorta in Israele — con Samuele e con le scuole profetiche dallo stesso instaurate — una classe di «Uomini di Dio», la quale si assunse la funzione di interpretare i divini voleri, furono i Profeti i quali, per qualche tempo, interpretando la volontà di Jahvè, unsero materialmente i Re di Israele, restaurando il deuteromessianismo (cfr. I Samuele XVI, 13; II Re, IX, 1-6). La successiva cattività babilonese però, creando la classe sacerdotale propriamente detta — sorta in opposizione al profetismo e per assorbirne le funzioni — portò all'abolizione dell'«Unzione» secondo il rito profetico. Giacché riunendosi da allora nel Gran Sacerdote la funzione di Profeta e la funzione di Capo politico, lo stesso si ritenne «Unto» e «Duce» virtualmente esso stesso, per il solo fatto dell'ascensione alla carica, mentre l'atto formale dell'unzione rimase da allora quale elemento del rituale, necessario alla consacrazione (iniziazione) di tutti i sacerdoti, i quali tutti erano «unti». Ed era naturale che da quella data, identificato il «messia» nel Gran Sacerdote (l'Unto per eccellenza), cessasse la possibilità di nuovi e improvvisati «messia».

Non venne mai meno però in Israele la credenza del popolo nella possibilità di una «rivelazione spontanea» dell'Unto di Jahvè: nel fatto cioè che l'Unto potesse «rivelarsi» per ispirazione diretta del Dio, tutte le volte che il prestigio di Jahvè o del suo popolo abbisognasse di essere restaurato. Appunto per questa credenza fu ritenuto «Messia» il cittadino privato Mattatia, sorto per combattere il seleucida Antioco IV di Siria, quando lo stesso (165 circa av. E.V.), avendo chiamato al governo il partito progressista e minoritario dei Tobiadi, con l'appoggio del Gran Sacerdote tobiade aveva fatto abolire nel tempio i riti di Jahvè. Per la stessa credenza fu ritenuto «Messia» Giuda Maccabeo (figlio e continuatore di Mattatia), quando lo stesso riuscì a scacciare dalla Giudea i Seleucidi, sconfiggendo il partito dei Tobiadi, e ristabilendo nel tempio il sacrificio dell'agnello.

Appunto di questo trito-messianismo riemersero gli elementi — dalla coscienza seminale del popolo d'Israele — nel periodo romano del quale dobbiamo occuparci. Giacché, negatasi dal popolo la veste di «ispirato» al Gran Sacerdote in carica, colpevole di collaborare col romano invasore — bastava che un agitatore si affermasse invasato dallo spirito di Jahvè, perché una parte del popolo lo ritenesse «Unto», accodandosi a lui ed acclamandolo «Salvatore».

Ed invero, la originaria tradizione mosaica e la successiva tradizione profetica non avevano fatto che tener desta nel popolo l'idea messianica di «salvazione». Ma mentre il messianismo dei profeti anteriori aveva atteso a porre ordine nelle idee, perché non fosse lecito a chiunque proclamarsi «Messia», dal che la necessità di una cerimonia apposita (deutero-messianismo); il messianismo dei profeti posteriori invece aveva tenuto desta l'idea della «ispirazione diretta» (trito-messianismo), quale idea confortatrice, durante le ricorrenti tragedie d'Israele. Difatti tutte le volte che Israele doveva superare una grande crisi, per una sciagura capitata dall'esterno, o per una calamità interna della quale fosse vittima, sempre i profeti, per confortare il popolo, promettevano l'avvento di un Messia Salvatore, invasato dallo Spirito del Dio.

Furono dunque i profeti delle epoche posteriori a far risorgere ed a mantenere vivo nella coscienza del popolo il Messianismo laico di Mosè, di Otoniele e di Sansone, senza che l'autorità sacerdotale sopravvenuta riuscisse poi a sradicare tale forma di pensiero. Ed appunto perciò questa terza forma di messianismo — che darà gli elementi basilari al primo cristianesimo — viene designata quale «Messianismo profetico». 

Va rilevato adesso che gli elementi del «Messianismo profetico» non bastano da soli a chiarirci la natura, ed il lento formarsi del primo cristianesimo (galileismo). Sarà necessario anche uno studio profondo della apocalittica zoroastriana. Giacché proprio dal «trito-messianismo» giudaico, fuso e confuso con l'apocalittica zoroastriana, nascerà il neo-messianismo (galileismo) del periodo romano, dante vita, dopo un'incubazione nell'oriente greco durata oltre mezzo secolo, alla religione del Cristo.

Veramente, sotto certi aspetti, il messianismo apocalittico potrebbe identificarsi col messianismo profetico. Giacché «apocalisse» equivale ad «annunciazione», mentre tutta l'opera dei profeti fu annunciazione e rivelazione. I profeti difatti, annunciando l'avvento del Messia e le circostanze della sua futura venuta, esponevano in sostanza una «apocalisse». Ma non dal profetismo, bensì dal zoroastrismo ebbe origine l'apocalittica giudaica. Perché i profeti ignoravano il concetto di «vita d'oltretomba» (§ 103), e, preannunziando il Messia, si erano sempre riferiti ad un condottiero terreno, come Jefte, come Otoniele, o come Saul. Difatti, proprio di un «Messia capo dell'Esercito» parla Daniele (IX, 25). Per altro è noto che il profeta Isaia (XLV, 1 e segg.) proclamò «Messia di Israele» e «Unto di Jahvè» Ciro il Grande, imperatore dei Persiani e Sommo Sacerdote della religione zoroastriana. Ora, proprio in questo primo legame tra il profetismo giudaico e la religione di Zarathustra, legame che aveva permesso agli israeliti di acclamare Unto di Jahvè, e quindi loro capo, e continuatore del loro Mosè, il capo del zoroastrismo, va ricercata l'origine dell'apocalittica giudaica, sorta quale trasformazione ed assimilazione dell'apocalittica zoroastriana.

Infatti, soltanto nella religione di Zarathustra, e nella letteratura persiana, noi rinveniamo le apocalissi vere e proprie: specie di «visioni», nelle quali il narratore espone i pretesi suoi viaggi nel «regno delle anime», ed i suoi contatti con gli Spiriti Superiori, annunziatori dei futuri eventi sulla terra. Ma a questo punto, per la prevalenza che ebbe in seguito ad acquistare nel giudaismo il pensiero zoroastriano, è necessario presentarne una esposizione esauriente. 


NOTE

[1] Cfr. Erodoto, Storie, II, 40. Trasformazione di questo stadio del rito sacrificale, è un uso tuttora in voga presso le tribù australiane degli Arunta. Presso gli Arunta infatti, nel clan del canguro ad esempio, l'animale ucciso per la cerimonia sacrificale, in onore degli dei, viene distribuito ai membri della comunità, adunati per il banchetto sacro, mentre il Capo della comunità viene unto in tutto il corpo col grasso della vittima, acquistando in tal modo — coll'attributo di «unto» — il voluto carattere sacro.   

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