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VIII. — MESSIANISMO GIUDAICO
E CRISTIANESIMO GRECO
$ 22) I profughi «messianici» di Giudea diventano profughi «cristiani» nelle comunità della diaspora greca. — A questo punto si rende necessaria una precisazione.
Abbiamo detto in precedenza che tutti gli Israeliti credettero sempre, così come credono tuttora, in un evento futuro, conosciuto come «evento messianico». Con questo però non deve ritenersi che tutti gli Israeliti, durante la guerra giudaica, fossero «messianici». Nel linguaggio giudaico infatti la parola «messianici» denota coloro i quali credono in un Messia già venuto (come appunto credevano i messianici galilei), non già coloro i quali credono nell'avvento di un futuro Messia.
In conseguenza della suddetta precisazione, noi abbiamo cercato di differenziare, nel nostro racconto relativo alla guerra, i «messianici» di Giudea, dalle classi dirigenti moderate, e dal popolo pacifico. Per contro, questa distinzione non fece Giuseppe Flavio, il quale, nella sua Storia, non parla affatto di «messianici», bensì e sempre di «Giudei». Dobbiamo però tener presente che quando una concezione messianica si imponga ad un popolo, essa pretende di identificarsi e si identifica col popolo stesso. Appunto per questo i «messianici» di Giudea, quando tenevano il potere, chiamavano sé stessi «Giudei»; come se tutti i Giudei fossero messianici, e come se non esistessero le correnti dei moderati da una parte, e le masse del popolo lavoratore dall'altra. Allo stesso modo, quando di recente la Germania fu assoggettata ad una forma di messianismo che venne chiamata «nazismo», i «nazisti», parlando di sé stessi e del governo facente capo a loro, dicevano «il popolo tedesco», e non già i «nazisti» di Germania.
Proseguendo adesso la trattazione, ricordiamo che, dopo la quasi totale dispersione del popolo d'Israele nell'oriente greco, tutte le preesistenti comunità sinagogali della diaspora vennero ad essere affollate da profughi. Ed era naturale che principalmente le vecchie comunità di «messianici» (galilei) fossero ricercate quale asilo dai più fanatici tra i superstiti seguaci di Bar Kokhehbah. Giacché, per chi sia affetto dalla nevrosi messianica è più facile credere in un Messia diverso, trasferendo la propria adorazione dall'una all'altra immagine, piuttosto che non avere più un'immagine da adorare. E proprio da quest'epocale vecchie comunità dei «messianici», sparse nei territori dell'Impero Romano, diventarono più numerose, e da quest'epoca appunto la loro propaganda diventò invadente.
Va ricordato adesso che in tutte le comunità giudaiche della diaspora greca (e dovremmo dire piuttosto «dell'oriente romano»), da gran tempo non si parlava più l'ebraico o l'aramaico, e non si parlava nessuno dei dialetti di Palestina; ma si parlava esclusivamente la lingua greca. Ciò avveniva non soltanto nei rapporti commerciali degli ebrei coi terzi; ma anche nei rapporti tra ebrei stessi, e perfino nell'espletamento delle pratiche religiose. Difatti, da quando, in conseguenza dell'universalismo greco attuato da Alessandro, in Egitto (275 circa av. E.V.), sotto Tolomeo II e III, la Bibbia era stata tradotta in greco, nelle comunità giudaiche della diaspora — in cui agglomerati maggiori si trovavano in Alessandria ed Antiochia — i riti religiosi erano stati celebrati in lingua greca, il canone seguito era stato il canone greco, ed in lingua greca teneva il Rabbino il suo sermone nelle sinagoghe. Del resto è noto che a quell'epoca molti dotti ebrei di Alessandria, compreso il celebre Filone, non conoscevano neppure la lingua ebraica; ma conoscevano ed usavano esclusivamente la lingua greca.
Stante quanto sopra, allorquando i «messianici galilei», primi profughi nei territori della diaspora greca (§ 17), per l'accorrere ad essi di nuovi «messianici», in conseguenza delle successive reazioni di Palestina, diventarono comunità numerose, era naturale che per avere un proprio ruolo nelle più vaste comunità sinagogali, dovessero adattarsi alla lingua greca, tenendo anch'essi in greco i discorsi di edificazione. E poiché tradotta in greco la voce ebraica «Messia» diventa «Cristo», e la voce ebraica «Messianismo» diventa «Cristianesimo», si originava, nei territori dell'Oriente greco, la credenza in un «Cristo», dalla precedente credenza in un «Messia», ed una «Dottrina Cristiana» dalla precedente «Dottrina Messianica».
Il «cristianesimo» pertanto non è che il trasferimento, e successivo adattamento al mondo greco, del «neo-messianismo» giudaico. E poichè il mondo greco faceva parte, praticamente, del mondo latino, non può sorprendere che, una volta cominciatasi ad accettare la «dottrina cristiana» nel mondo greco, essa finisse a poco a poco con l'imporsi, mediante successivi adattamenti, anche nel mondo latino.
A questo punto si delinea nitido il quesito, che lo storico deve proporsi e si propone. Qual mai dei numerosi «Messia» di Palestina fu in seguito ritenuto dai propri fedeli, profughi nei territori della diaspora greca, il «Messia» per antonomasia, e cioè il «Cristo»? Può forse individuarsi in uno degli agitatori conosciuti il Cristo che i «Vangeli», allora lentamente formantisi nell'Oriente greco, ci rappresentano? Oppure deve ritenersi — come pare sia opinione degli ecclesiastici — che un personaggio diverso, non registrato dalla storia, abbia percorso le vie di Palestina, integrando un «Messia» sui generis, impostosi alle masse per la sua bontà, e per qualche cosa di sovrumano che emanasse da lui? Può d'altro canto pensarsi — come affermano i mitosofi — che la figura evangelica del Messia Gesù sia stata una creazione ideale dei primi messianici della diaspora, costretti com'erano a tenersi lontano dalla patria? O non piuttosto deve presumersi che i messianici della diaspora abbiano tenuto fede al Messia storico, che era stato il loro capo, ma lo abbiano a poco a poco trasumanato, tramandandolo e descrivendolo con colori sempre più ideali, fino a renderne irriconoscibili i caratteri originari?
La storia dei «Faraoni» d'Egitto e dei «Figli del Cielo» cinesi, come pure quella dei Mahdi islamici, e specialmente l'esperienza fatta dall'umanità negli ultimi decenni, nei quali nuovi «Messia» spuntarono e si affermarono anche in Europa, ci hanno insegnato che le masse sono sempre in attesa del «miracolo», e quando appare ad esse l'uomo che prometta tale miracolo, quegli, per il solo fatto della promessa, acquista un tale prestigio, da essere collocato accanto alla divinità, o del tutto sostituito alla divinità. Può dunque la recente dolorosa esperienza aiutarci — avendo ormai ricostruito l'originario movimento messianico di Giudea — a ricostruire il derivato movimento cristiano dell'Oriente greco? La risposta è nelle pagine che seguono.
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